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Un commento di Merlo

15 Ago

Cinque anni fa, press’a poco di questi tempi, leggevo stupefatto – come tanti romani – del concentrico attacco mediatico al sindaco Marino. Al coro si aggiunse, a un certo punto, anche uno stimato commentatore come Francesco Merlo, che su Repubblica non esitò a definirlo ‘fragile‘, ‘tontolone’, ‘inadeguato‘ e altro ancora in una serie di articoli che grondavano gratuite quanto inspiegabili acidità. Una volta persi la pazienza: fu quando definii Merlo “il merlo roditore“, riferendomi all’ennesimo intervento dell’illustre firma in quel caso clamorosamente errato .

Oggi Merlo ci ha riprovato, accostando Marino ad Alemanno e alla Raggi. Fatte le dovute proporzioni, mi è venuta in mente la recente proposta approvata dal consiglio comunale di Terracina di dedicare una piazza a Berlinguer e Almirante.
Per carità, c’è ancora libertà d’opinione in Italia e Merlo può dire tutte le sciocchezze che vuole. Sono e restano commenti di merlo. 

 

 

 

 

 

Leggi chiare e comprensibili: il potere della burocrazia contro i cittadini

20 Mag

Sei anni fa questo post annunciava una vera rivoluzione copernicana nella redazione delle leggi, affinché fossero davvero immediatamente comprensibili a tutti, nessuno escluso.
Oggi Sergio Rizzo, su Repubblica, raccontando degli assurdi 472 rimandi contenuti nel Decreto Cura Italia, commenta il modo astruso in cui vengono scritte le norme che devono regolare la vita dei cittadini e dello Stato, Nonostante siano state introdotte norme correttive che dovrebbero indurre i burocrati a redigerle in modo che siano comprensibili a tutti, si persiste ottusamente nelle modalità che non è fuori luogo definire antidemocratiche.
La legge n. 69 del 18 giugno 2009 all’art. 3 prescriveva che “ogni rinvio ad altre norme contenute in disposizioni legislative” deve indicare “in forma integrale o sintetica”, ma prima di tutto “di chiara comprensione”, la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento.
Non è difficile valutare quanto ne abbiano tenuto conto i burocrati.

Si può andare avanti così?

In Europa, paradisi fiscali o parassiti fiscali?

3 Mag

In questi giorni che l’Olanda è venuta – non positivamente – alla ribalta, ho trovato questo articolo di Torquato Cardilli molto chiaro ed eloquente: evidenzia una delle maggiori contraddizioni di questa Europa, ben diversa da quello che vorremmo e che – soprattutto – sognavano i padri del Manifesto di Ventotene. Parliamo di elusione fiscale e della necessità vitale di avere in Europa un’unione fiscale. 

Nel 2017 Franco Gallo scriveva sul Sole24ore : Allo stato attuale, abbiamo perciò un quadro molto variegato e disorganico di regimi e di criteri di determinazione della base imponibile, nonché di aliquote nei diversi Paesi comunitari, suscettibili di creare distorsioni e discriminazioni e, di conseguenza, di fomentare comportamenti opportunistici da parte sia degli Stati che dei singoli contribuenti.

paradisi ìfiscaliEuropa

Immagine del Corriere della Sera – 17 marzo 2019

Nella classifica degli 11  maggiori paradisi fiscali nel mondo, 6 si trovano in Europa:   Irlanda, Svizzera, Malta, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Salta subito all’occhio che le ultime tre nazioni sono parte integrante dell’Unione europea.
Incidentalmente, c’è da notare che Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea dal 2014 al 2019, era stato fino al 2013 primo ministro del Lussemburgo e fautore di una politica fiscale di favore per i redditi societari. Tanto di favore che secondo una ricerca del FMI un paese di 600.000 abitanti ha potuto raccogliere 4000 miliardi di dollari di ‘investimenti fantasma’. Poteva l’Europa, con cotanto Presidente, intraprendere la ricerca di un percorso per giungere un giorno ad un’unione fiscale?

Intendiamoci: quello dell’elusione fiscale è un problema mondiale. Come ha ben riportato Tommaso Carboni su Forbes solo pochi giorni fa: “le multinazionali spostano nei paradisi fiscali [del mondo] il 40% dei loro profitti, e fanno incassare ai governi circa 500-600 miliardi di dollari di tasse in meno, ci dice il Fondo Monetario Internazionale, a cui si aggiungono perdite di circa 200 miliardi di imposte sui redditi individuali.”  Parlando dell’Olanda, aggiunge che:un’indagine della rete di esperti fiscali Tax Justice Network, che utilizza dati pubblicati quest’anno negli Stati Uniti relativi ai profitti delle società americane in Europa, dimostra che queste società nel 2017 hanno spostato 44 miliardi di dollari di utili nel paradiso fiscale olandese, dove le aliquote delle tasse societarie sono inferiori al 5 per cento.”

E l’Italia quanto è vittima di questo perverso meccanismo? Ecco la risposta di Carboni, che si poggia su attente ricerche: “Dall’Italia fuggono (e in gran parte sono diretti verso Paesi europei a bassa tassazione) un po’ più di 17 miliardi di euro di profitti aziendali. Vuol dire per lo Stato italiano raccogliere ogni anno sei miliardi di euro in meno di tasse.” Francia e Germania perdono a loro volta rispettivamente 9,5 e 14 miliardi. Infatti il ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire,ha recentemente dichiarato che: “Dobbiamo affrontare il fatto che le più grandi aziende del mondo realizzano enormi profitti in Europa e in tutto il mondo senza pagare il giusto livello di tassazione perché non hanno alcuna presenza fisica”.

Ma è possibile ipotizzare una quasiasi forma di armonizzazione fiscale nell’Unione? Difficile cambiare le regole: le lobbies dei colossi multinazionali lavorano bene a Bruxelles. E poi oggi serve ancora l’unanimità: “Anche solo un Paese può bloccare qualsiasi forma di accordo. L’anno scorso è stata respinta una proposta comunitaria che avrebbe costretto le multinazionali a dichiarare quanti profitti realizzano e quante tasse pagano in ciascuno dei 28 Stati membri. Tutti gli Stati con regimi fiscali agevolati hanno votato contro

La speranza è rappresentata dall’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che “sta provando a cambiare le regole. Il piano è imporre una tassa minima globale, e poi far pagare le multinazionali dove realizzano le vendite, anziché dove registrano le filiali. Questo farebbe crescere le entrate fiscali, almeno nei paesi dell’Ocse, di cento miliardi di dollari l’anno. L’ideale, dopo trattative durate anni, è raggiungere un accordo a giugno, e poi avere l’endorsement del G20 per la fine dell’anno. Chissà, forse il trauma della pandemia potrebbe addirittura facilitare l’intesa.

Speriamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giornali: quale confine tra titoli fuorvianti e bufale?

30 Apr

Leggo La Repubblica da prima ancora che uscisse il primo numero per una condizione professionale che mi dette accesso ai numeri di prova. E da allora non ho più smesso.  Si comprenderà allora il mio disagio nel constatare che qualcosa sta cambiando nella linea di rigorosa aderenza e interpretazione dei fatti che contraddistinguono  il mio giornale.

Devo anche ammettere che in passato ci fu qualche incidente di percorso: ricordo ad esempio l’ingiustificata quanto forsennata campagna contro il sindaco Marino. Ma lo considerai un fatto isolato. Ultimamente, invece, ho notato più volte qualcosa di stonato, qualche forzatura stridente che mi ha spiacevolmente meravigliato. 
L’ultimo caso è di ieri. C’è un titolo in seconda pagina: La Consulta avvisa il Governo “La bussola è la Costituzione, che attira la mia attenzione. Leggo, e apprendo che (il riferimento è alla relazione sul bilancio del 2019 della Presidente Cartabia): “Un avviso [a Conte] arriva anche da Marta Cartabia…Cartabia parla di frangente drammatico nella storia del Paese e dell’umanità’ e indica nella Costituzione ‘la bussola necessaria per navigare nell’alto mare aperto dell’emergenza e del dopo-emergenza’….Molti lo leggono come come un richiamo a Conte, anche se l’ufficio stampa della Corte definisce ‘fuorviante’ una lettura della relazione riferita a vicende politiche di questi giorni.”

Sono andato allora a leggermi la relazione integrale della Presidente Cartabia e ho trovato invece quanto segue: “La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi di straordinaria necessità e di urgenza … che sono state affrontate senza mai sospendere i diritti costituzionali, ma ravvisando al suo interno gli strumenti idonei a modulare i principi costituzionali in base alle specifiche contingenze: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri, con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela sistemica e non frazionata dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, ponderando la tutela di ciascuno di essi con i relativi limiti …“ e più avanti  “ …la Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola necessaria per navigare per” l’alto mare aperto” dell’emergenza e del dopo-emergenza … In tale frangente … merita particolare attenzione il principio della leale collaborazione – il risvolto istituzionale della solidarietà”.

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La faccio breve: dove sarebbe ‘l’avviso’ a Conte? Ma soprattutto, quale attinenza tra le frasi della Cartabia e il titolo disinvoltamente sparato che a questo punto si può ben definire fuorviante, così come l’ufficio stampa della Corte ha definito certe interpretazioni date al testo originale? O siamo addirittura già al confine con la ‘bufala’ (traduzione di ‘fake news’ oggi di moda)?

Ci sono giornali che purtroppo fanno dell’esasperata e talvolta sguaiata interpretazione di comodo di fatti e dichiarazioni – in aperto spregio della verità e dell’intelletto dei rispettivi lettori –  la loro ragione di vita. Si sa benissimo a chi mi riferisco. La Repubblica non può permettersi di scadere a quei livelli.

REP Cartabia2AGGIORNAMENTO.
Parziale e obliqua rettifica di Repubblica di oggi, 1° maggio, ma a pag 6 e senza alcun riferimento all’ingannevole citazione di ieri.

Difendere (a parole) la Costituzione facendo (indirettamente) i propri interessi

29 Apr

A scanso di equivoci dichiaro ufficialmente che l’avvocato Conte non rappresenta politicamente un mio punto di riferimento.

Ciò premesso, dichiaro altrettanto ufficialmente che sono però francamente stufo di questi improvvisati alfieri della Costituzione, politici per convenienza che attaccano Conte perché si tarda a riaprire aziende, ristoranti, stadi, chiese, bar, discoteche, perché non si dà il via alla “ripresa”. Loro, che la Costituzione hanno cercato di brutalizzarla a proprio vantaggio, se la rileggano la Costituzione, la meditino, che si sciacquino la bocca prima di nominarla.
E non provino a mettere in opera le loro losche manovre da scantinato contro il governo: farlo cadere in questo momento rappresenterebbe il loro suicidio politico, la fine una volta per tutte delle loro smodate e ingiustificate ambizioni, ma per l’Italia sarebbe il disastro.

Affiancati e incoraggiati da Confindustria, alta finanza, CEI, Confcommercio, Coldiretti, club calcistici e compagnia cantando, sbraitano a vanvera ma all’unisono sventolando bilanci in perdita e preconizzando scenari di fame e distruzione del tessuto eonomico e imprenditoriale del Paese.

Proprio loro che non si sono scandalizzati quando si chiudevano gli ospedali pubblici per favorire la sanità privata, che non hanno mai alzato un sopracciglio davanti al cinico sfruttamento di operai, precari, fattorini, badanti, braccianti, manovali, migranti, il grande popolo degli ultimi. Improvvisamente scoprono che a questi bisogna pensare, a dargli lavoro.  Perché si torni il prima possible alla “normalità”, che invece non deve tornare perché è in quella “normalità” che si celano alcuni dei cancri del nostro Paese, l’evasione fiscale, la sicurezza sul lavoro,  i diritti negati, la corruzione.

I migliori tecnici ed esperti hanno valutato tutti i possibili scenari successivi ad una frettolosa riapertura non all’insegna della massima prudenza: il nemico, il virus, è ancora sconosciuto, è infido, possiede capacità di reazione ancora ignote. Non si può combattere al buio con un avversario tanto potente quanto inafferrabile, almeno per ora. Occorre la massima cautela perché una seconda ondata del virus metterebbe definitivamente in ginocchio la sanità pubblica, perché  i morti ad oggi sono troppi, perché non vogliamo continuare a contare le bare per il tempo a venire.

Lasciamo lavorare in pace il Governo. Conte non ha, per nostra fortuna, meschini interessi di partito da difendere: agisce in buona fede nell’interesse dei cittadini, cioè di quelli come lui. Aspettiamo piuttosto che si dia avvio allo studio delle iniziative per la ripresa e confrontiamoci su queste: se davvero pensiamo che c’è l’occasione per ricostruire l’Italia questa è la strada.

 

 

 

 

 

Ustica: 330 milioni di risarcimento all’ITAVIA dopo 40 anni. Ma la verità non ha visto la luce.

26 Apr

In una notte dell’estate del 1980 un aereo dell’Itavia con 81 persone a bordo, tra cui 11 bambini, precipitò nel mare di Ustica. Non ci furono superstiti.

Questa è un’altra storia italiana, dove si sono intrecciati segreti di stato, politica internazionale, spie, omissioni, interessi. E come se non bastasse una giustizia-bradipo che alla storica lentezza stavolta ha aggiunto anche clamorose contraddizioni.

Facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro. Questa è la cronaca della tragedia come ricostruita due anni fa da Il Fatto quotidiano :

“Il volo procedeva regolarmente a una quota di circa 7.500 metri senza irregolarità segnalate dal pilota. L’aereo, oltre che di Ciampino (Roma), era nel raggio d’azione di due radar della difesa aerea: Licola (vicino a Napoli) e Marsala. Alle 21.21 il centro di Marsala avvertì del mancato arrivo a Palermo dell’aereo il centro operazioni della Difesa aerea di Martina Franca (Taranto). Un minuto dopo il Rescue Coordination Centre di Martina Franca diede avvio alle operazioni di soccorso, allertando i vari centri dell’Aeronautica, della Marina militare e delle forze Usa.
Alle 21.55 decollarono i primi elicotteri per le ricerche. Furono anche dirottati, nella probabile zona di caduta, navi passeggeri e pescherecci. Alle 7.05 del mattino successivo vennero avvistati i resti del DC-9. Le operazioni di ricerca proseguirono fino al 30 giugno, vennero recuperati i corpi di 39 degli 81 passeggeri, il cono di coda dell’aereo, vari relitti e alcuni bagagli delle vittime.”

Da quella notte sono passati quarnt’anni ma solo pochi giorni fa sono state scritte le ultime parole sulla vicenda. Il 22 aprile scorso la Corte d’appello di Roma ha condannato definitivamente i ministeri delle Infrastrutture e della Difesa a corrispondere alla compagnia aerea Itavia in amministrazione straordinaria 330 milioni di euro. La sentenza fa seguito alla decisione della Cassazione di due anni fa con cui si accoglieva la tesi dell’Itavia per la quale al danno conseguente al fermo dell’attività (già valutato in 265 milioni con una precedente sentenza), andava aggiunto quello per la revoca della concessione.
Le responsabilità dei due dicasteri sono state pertanto individuate nella mancata garanzia della sicurezza dei cieli.e dell’assistenza al volo, in quanto ritenuto “più probabile” che il disastro sia stato causato “dal lancio di un missile” [da parte di un aereo militare sconosciuto].

Torniamo alla storia. Le prime ricostruzioni parlano di un possibile “cedimento strutturale” dell’aereo. Ma la McDonnel-Douglas, costruttrice dell’aereo esclude decisamente l’ipotesi. Si fa strada poi quella di un attentato terroristico, una bomba nella toilette, ma decade  quando si scopre che il decollo da Bologna avvenne con due ore di ritardo e quindi il timer si sarebbe attivato molto prima. Col tempo però cominciano a circolare voci su possibili manovre aeree militari nella zona e si fa strada la congettura di un missile che abbia colpito l’aereo per sbaglio. Su questa pista si lancia in particolare Andrea Purgatori, un giornalista che affronta l’inchiesta con decisione, tanto che nel 1991 ne esce un film dal titolo “Il muro di gomma”. Sia pure mascherate per necessità legali, emergono chiaramente le responsabilità degli alti gradi dell’Aviazione militare tendenti a oscurare, nascondere, depistare. Nel frattempo indagini e inchieste proseguono ma è solo nel 1999 che il giudice Rosario Priore chiude quella giudiziaria accogliendo molte delle tesi contrarie alle zoppicanti versioni ufficiali, ed è in base alle sue  risultanze che – tra l’altro – quattro  generali dell’Aeronautica militare vengono  accusati di di falsa testimonianza e attentato agli organi costituzionali con l’aggravante dell’alto tradimento.
Il processo dura anni, e dopo i vari appelli successivi si conclude solo nel 2007 con l’assoluzione piena di tutti gli imputati da parte della Cassazione cui sono ricorsi i pm di Palermo dove si è celebrato. Quindi un nulla di fatto: per la giustizia penale non ci sono colpevoli. 

Nel novembre del 2013 il giudice Priore, che intanto ha lasciato l’attività, racconterà il suo punto dì vista in un incontro pubblico a San Ginesio con i familiari di alcune delle vittime di questa storia. Secondo Priore quella sera il DC-9 dell’Itavia si trovò ad attraversare un vero e proprio scenario di guerra: molto probabilmente si puntava ad abbattere un aereo su cui avrebbe dovuto trovarsi il dittatore libico Gheddafi e il missile lanciato da un caccia francese abbattè invece l’aereo italiano. Questa ricostruzione era già stata avvalorata da una prima dichiarazione nel 2009 di Francesco Cossiga (all’epoca della strage Presidente del consiglio)  e dalla testimonianza di un sottufficiale francese all’Huffington Post quattro anni dopo.

Resta la macroscopica contraddizione della giustizia italiana che nega il credibile svolgersi dei fatti in sede penale e li avvalora in sede civile, come resta il fatto che la verità è stata tenuta nascosta, tra bugie, omissioni, misteriose morti di testimoni, dichiarazioni e ritrattazioni. E resta infine che i risarcimenti all’ITAVIA e ai familiari delle vittime li pagheranno gli italiani, invece che gli autori della strage.

Per altri dettagli c’è questa attenta e breve cronistoria di SKYtg24 .  
GIUGNO ’80 – Le prime ricostruzioni parlano di cedimento strutturale del velivolo, ma c’è chi ipotizza che a causare l’esplosione siano stati una bomba o un missile.
LUGLIO ’80 – Sui monti della Sila, in località Timpa delle Magare, viene ritrovato ufficialmente il relitto di un Mig 23 libico: si pensa che l’aereo sia precipitato la sera del 27 giugno e abbia avuto un ruolo nella tragedia del Dc9.
25 NOVEMBRE ’80 – John Macidfull, esperto dell’ente Usa per la sicurezza del volo, consegna al magistrato una perizia in cui si rivela la presenza di un caccia sconosciuto accanto al Dc9 al momento dell’esplosione.
PRIMAVERA ’82 – La commissione ministeriale scarta l’ipotesi del cedimento strutturale e sposa quella dell’esplosione: esterna (missile) o interna (bomba).
ESTATE ’86 – Parte l’operazione recupero del relitto, affidata a due navi e a un sottomarino di una società francese che risulterà legata ai servizi segreti.
MARZO ’89 – La commissione Blasi incaricata di capire la dinamica dell’incidente sposa la tesi del missile.
PRIMAVERA ’90 – Due dei cinque esperti della commissione cambiano idea e parlano di bomba.
INVERNO ’92 – Incriminazione per una settantina tra ufficiali e sottufficiali dell’Aeronautica militare per depistaggi, distruzione di prove e falso. Per sette generali si profila l’aggravante dell’alto tradimento.
GIUGNO ’97 – Arriva il dossier completo di 17 anni di lavoro: 700 cartelle di analisi sui dati radar e 3.000 pagine di allegati. L’ipotesi che emerge è quella che il Dc9, la sera dell’incidente, volò per un’ora all’interno di un vero scenario di guerra.
DICEMBRE ’97 – Un supplemento di perizia conferma l’affollamento di velivoli nei cieli italiani la sera della tragedia. Quasi tutti i velivoli in volo quella notte avevano i transponder spenti per evitare di essere identificati.
31 DICEMBRE ’97 – Si chiude l’indagine.
31 AGOSTO ’99 – Il giudice Priore dispone 9 rinvii a giudizio: quattro generali dell’Aeronautica sono accusati di attentato agli organi costituzionali con l’aggravante dell’alto tradimento, cinque devono rispondere di falsa testimonianza.
24 SETTEMBRE 2000 – Prima udienza del processo davanti alla terza Corte d’assise di Roma, presidente Giovanni Muscarà.
1 DICEMBRE 2000 – La Corte rimette gli atti ai pm relativamente alle posizioni dei 5 militari accusati di falsa testimonianza: saranno processati con il rito previsto dal nuovo codice di procedura penale. Il processo prosegue per i quattro generali dell’Aeronautica.
19 DICEMBRE 2003 – I pm Erminio Amelio, Maria Monteleone e Vincenzo Roselli chiedono la condanna a sei anni e nove mesi di reclusione, di cui quattro anni da condonare, dei generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri e l’assoluzione di Corrado Melillo e Zeno Tascio.
30 APRILE 2004: La seconda Corte d’assise di Roma derubrica il reato di attentato agli organi costituzionali con l’aggravante dell’alto tradimento. Dopo 3 giorni di camera di consiglio, viene disposto il non doversi procedere nei confronti di Bartolucci e Ferri. Assolti Melillo e Tascio.
15 DICEMBRE 2005 – La prima Corte d’assise d’appello assolve “perché il fatto non sussiste” i generali dell’Aeronautica Bertolucci e Ferri dall’accusa di aver depistato le indagini. I pm annunciano ricorso in Cassazione.
10 GENNAIO 2007 – Assoluzione definitiva per Bartolucci e Ferri: la prima sezione penale della Cassazione conferma la sentenza d’appello e sono quindi esclusi risarcimenti.
27 GIUGNO 2007 – 27 anni dopo, i resti del relitto vengono ricomposti nel ‘Museo della memoria’, a Bologna.
24 MAGGIO 2010 – In un film inchiesta il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, racconta di un “aereo francese” che “si era messo sotto il Dc9, per non essere intercettato dal radar dell’aereo libico che stava trasportando Gheddafi. Ad un certo punto lancia un missile per sbaglio, volendo colpire l’aereo del presidente libico”.
1 LUGLIO 2010 – Il ministero della Giustizia, su richiesta della Procura di Roma, che ha aperto una nuova indagine sulla strage, inoltra quattro rogatorie internazionali negli Stati Uniti, Francia, Belgio e Germania.
22 NOVEMBRE 2010 – Aurelio Misiti, presidente della Commissione dell’inchiesta tecnica sulla strage di Ustica, spiega in una conferenza stampa a Bologna di aver “individuato l’esplosione interna come causa della caduta dell’aereo”.
17 GIUGNO 2011 – C’erano 21 aerei militari in volo (5 sconosciuti, gli altri americani e inglesi) nei cieli di Ustica la notte del 27 giugno 1980. Lo afferma la Nato in un documento ufficiale che il giornalista Andrea Purgatori mostra per la prima volta in un programma di Rai3.
28 GENNAIO 2013 – La tesi che fu un missile ad abbattere il Dc9 dell’Itavia ad Ustica “è abbondantemente e congruamente motivata”. Lo afferma la sentenza con la quale la terza sezione civile della Corte di Cassazione respinge il ricorso presentato dal ministero della Difesa e delle Infrastrutture e ribadisce che i parenti delle vittime del disastro vanno risarcite.
29 GIUGNO 2017 – La prima sezione civile della corte d’appello di Palermo boccia il ricorso dell’Avvocatura dello Stato e nel confermare i risarcimenti stabiliti sei anni prima dal tribunale sancisce che più di 17 milioni di euro siano destinati ai familiari di alcune delle vittime.
22 MAGGIO 2018 – Le sezioni unite civili della Cassazione stabiliscono un risarcimento di oltre 265 milioni di euro che che i ministeri delle Infrastrutture e della Difesa devono versare alla compagnia aerea Itavia per i danni patiti a seguito del disastro aereo.

 

 

 

 

 

 

 

I para culi

4 Apr

Proprio così, non i ‘paraculi’ nel senso comunemente noto (secondo il dizionario  Garzanti ‘persona furba e opportunista, abile nel fare il proprio interesse senza darlo a vedere‘). Intendo l’espressione, anch’essa comune, si “parare il culo“, che il dizionario De Mauro così definisce: ‘volg., proteggere, tutelare qcn. da un rischio: ha fatto un grosso errore, ma i suoi soci gli hanno parato il culo’.

E chi sarebbero i ‘para culi’. cioè i protettori di ‘chi ha fatto un grosso errore’?
Eccoli: sono rappresentati dal folto gruppo di senatori che ha appena depositato una proposta di modifica all’art. 1 del decreto legge n.18 del 17 marzo 2020 . Primo firmatario il sen. Matteo Salvini.

Parentesi. Apparentemente, nella drammatica emergenza della pandemia che stiamo vivendo qualcosa non ha funzionato a dovere  nella sanità lombarda, per anni indicata a modello al mondo intero. Le critiche alla conduzione della prima fase dell’emergenza riguardano il pressapochismo e l’impreparazione dei vertici della Regione Lombardia, ed è una sensazione che si sta rapidamente diffondendo nell’opinione pubblica. Non voglio entrare nel merito della polemica: ci sarà un momento in cui la magistratura vorrà occuparsi della questione e le responsabilità verranno – se ci sono – acclarate.

Ma evidentemente qualcuno teme che ci sia ben di più di ‘qualcosa’ in tutta questa faccenda, se l’art. 1- bis di quella proposta recita così (sottolineature e neretto sono miei):

«Art. 1-bis.

(Responsabilità datori di lavoro operatori sanitari e sociosanitari)

  1. Le condotte dei datori di lavoro di operatori sanitari e sociosanitari operanti nell’ambito o a causa dell’emergenza COVID-19, nonché le condotte dei soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio non determinano, in caso di danni agli stessi operatori o a terzi, responsabilità personale di ordine penale, civile, contabile e da rivalsa, se giustificate dalla necessità di garantire, sia pure con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza, la continuità dell’assistenza sanitaria indifferibile sia in regime ospedaliero che territoriale e domiciliare.
  2. Dei danni accertati in relazione alle condotte di cui al comma 1, compresi quelli derivanti dall’insufficienza o inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale, risponde civilmente il solo ente di appartenenza del soggetto operante ferme restando, in caso di dolo, le responsabilità individuali.».

Ed ecco i para culi subito all’opera. Quando tutto sarà finito, i “datori di lavoro” responsabili di eventuali errori, omissioni o altro sarebbero assolti in partenza. Se non sono state predisposte scorte di di mascherine, tute, respiratori, se Bergamo, Brescia, Lodi non sono sate dichiarate tempestivamente “zone rosse”, se i protocolli di sicurezza non sono stati aggiornati, comunicati e fatti applicare con l’urgenza e la diligenza necessarie, se insomma (se) ci sono state migliaia di morti che avrebbero potuto essere evitate con interventi all’altezza del pericolo, non sarà stata colpa di nessuno. Le responsabilità sarebbero solo degli “enti di appartenza” (?) degli operatori.

Dire che sono indignato è un pallido eufemismo. In quella proposta c’è il cinismo di una classe (si fa per dire) politica che non ammette mai i propri errori, che è sempre pronta ad assolvere amici e compagni di partito, a coprirne magagne, incapacità, reponsabilità, con una condotta ai limiti dell’omertà. Che non conosce il senso del dovere e col suo comportamento lo deride apertamente.

Ne avremo da fare, ‘dopo’, per rifare l’Italia.

#celafaremo
#Italiachenonsiarrende

 

 

        

 

I rifiuti, una sporca faccenda. L’AMA, gli interessi, gli affari.

23 Dic

Considerati per secoli qualcosa ben definito dalla parola stessa, in tempi più recenti i rifiuti sono diventati un affare. Speculando sui rifiuti, Cerroni a Roma ci è diventato miliardario (in lire, beninteso). E quando altri hanno capito cosa rappresentava la “monnezza”, ecco che si è scatenata l’orgia degli interessi. Così si è continuato a tenere in vita Malagrotta nonostante le sanzioni di Bruxelles, così si è impedito all’AMA di darsi una dimensione industriale, così si è fatto di tutto perche non nascesse nei romani un senso di civismo e di responsabilità.

Decenni di malaffare sono ben condensati in questo post di Pinuccia Montanari, ex assessore all’Ambiente nella giunta capitolina, che denuncia il ‘nuovo’ corso della sindaca Raggi ispirata da Gianni Lemmetti, l’attuale assessore al Bilancio: no a un piano di incremento della differenziata, no a un Progetto di industrializzazione e rilancio dell’AMA; si torni alle discariche. Al Medioevo. Dichiara la Montanari, “privare Ama della possibilità di investimenti impiantistici è di fatto un altro modo per farla morire o per mantenerla in vita con un respiratore artificiale affinchè altri possano fare ciò che avrebbe dovuto essere di diritto di Ama, in virtù di una concessione pluriennale. 

Ma “altri” chi? Andiamo con ordine: ci sono almeno due fatti che danno peso alla sgradevole ipotesi cui accenna la Montanari.
Piccola (mica tanto) premessa. L’AMA è dei romani che pagano la TARI più alta d’Italia per non ricevere un servizio all’altezza e per offrire al mondo lo spettacolo ributtante dei cassonetti che traboccano, dei mucchi di rifiuti abbandonati, dei topi, dei gabbiani e perfino dei  cinghiali ben lieti di trovare cibo in abbondanza.

Eppure (primo fatto) i progetti per rendere competitiva l’azienda, modernizzarla, metterla in condizioni di espletare con efficienza i compiti previsti dal Contratto con nuovi impianti ci sono stati. Da quello di Estella Marino, (assessore all’Ambiente dal 2013 al 2015 che in quel lasso di tempo portò la differenziata al 43%) a quello di Lorenzo Bagnacani, penultimo presidente dell’AMA, di cui parla diffusamente la Montanari nel suo post. Tutti bocciati o messi nel dimenticatoio. Perché? C’è qualcuno che manovra nell’ombra?

Secondo fatto, davvero grossolano. L’ultimo bilancio AMA approvato risale al 2017. Ma è stato approvato dopo una lunga diatriba tra l’azienda e il suo unico azionista – il Comune – parcheggiando 17 milioni dei servizi cimiteriali in un “fondo rischi” per superare l’impasse creata dalla sindaca Raggi (nel frattempo ad interim assessore all’Ambiente)  che stranamente non intendeva riconoscere quel debito del Comune nei confronti di AMA, ancorchè così sia sempre accaduto. Non basta. Dopo neppure tre mesi dal suo insediamento, il CdA AMA (il settimo in tre anni!) ha dato le dimissioni per i motivi che la uscente presidente Melara ha ben illustrato qui e qui.

E allora? Allora conviene cominciare a dar credito alla  manovra cui accennava la Montanari di cui si parla ormai da tempo e che tende a privare i cittadini romani di un’azienda – tramite il Comune – di loro proprietà e che pagano cara, svuotandola di competenze ed entrate e lasciandole solo compiti di basso livello (come la pulizia delle strade), mentre i rifiuti – che dopo adeguato trattamento in impianti adeguati diventano un lucroso business – andrebbero all’ACEA.
E chi sono I grandi azionisti ACEA? Oltre al Comune col 51%, Suez col 23,3% e il finanziere Caltagirone.col 5. Come diceva Andreotti, “a pensar male si fa peccato ma ogni tanto ci si azzecca”.

 

 

 

 

 

 

 

Mantenere un impegno

17 Set

Bisogna riconoscere che – sia pure in ritardo – con l’annunciata scissione Renzi ha mantenuto la parola.
Adesso cura i propri interessi.

Una sentenza che non parla soltanto al Partito Democratico

13 Giu

È una storia senza precedenti ma poco conosciuta quella che ha visto il PD citato in Tribunale dai suoi stessi iscritti e condannato per violazione delle norme che ne regolano la vita interna. Vale la pena di ricapitolare il più brevemente possibile lo svolgersi della vicenda, durata oltre quattro anni, perché può contribuire validamente alle scelte di oggi, nell’attuale situazione politica.

Tutto ha inizio il 3 dicembre 2014, quando esplode l’inchiesta Mafia Capitale che coinvolge anche alcuni esponenti del Partito Democratico

romano. Il segretario cittadino Lionello Cosentino, pur eletto da pochi mesi, viene indotto alle dimissioni e il leader del PD, Matteo Renzi, decide di commissariare il partito cittadino e di affidarne la gestione a Matteo Orfini, in quel momento Presidente nazionale.

Non sono pochi quelli che si meravigliano della nomina: Orfini è uno dei notabili locali, capo della corrente dei Giovani turchi, e si teme che l’occasione sia favorevole per consentirgli di impadronirsi del partito romano. Diverse sono le voci che si levano per manifestare quanto meno perplessità per la decisione, tanto che un gruppo di iscritti e membri della Direzione e dell’Assemblea interpella la Commissione nazionale di Garanzia (CNG) perché venga fornito un autorevole parere sulle caratteristiche del mandato commissariale.

Matteo Orfini

La risposta della CNG è chiara e inequivoca: la decisione assunta riguarda unicamente il commissariamento della segreteria cittadina, e non interviene sugli organismi assembleari – i cui componenti non sono stati neppure sfiorati dall’inchiesta – che mantengono pertanto inalterate tutte le  prerogative previste dallo Statuto nazionale e dal Regolamento della Federazione romana. Il parere venne ulteriormente ribadito dal Presidente della CNG, on. Gianni Dal Moro, che l’11 maggio 2015 dichiara che “l’art. 17 dello Statuto non appare consentire l’attribuzione, anche al fine del compimento di un singolo atto, di poteri commissariali che esautorino organi politici-assembleari non aventi funzioni esecutive”. In altre parole, non è possibile evitare di passare dall’Assemblea cittadina per modificare le norme interne vigenti.

Nonostante ciò, tuttavia, Orfini interpretò a suo modo  il ruolo e i poteri di Commissario. L’11 giugno 2015, con una propria delibera sottratta alla discussione e all’approvazione dell’Assemblea cittadina, come già detto unico organismo titolato ad esprimersi in merito, procedette a modificare radicalmente l’organizzazione territoriale del Partito romano. Per di più, tenendo in nessun conto la sua stessa figura di Presidente del Partito, fatto che avrebbe dovuto indurlo a un comportamento pienamente rispettoso delle norme interne del PD.

La delibera invece le infrangeva clamorosamente: ad esempio, la nomina di subcommissari municipali (che esautoravano i Circoli esistenti nei rispettivi territori e assumevano il controllo totale dell’attività del Partito nel municipio di competenza) violava  quanto disposto dal Regolamento cittadino, dallo Statuto regionale e dallo Statuto nazionale secondo cui ogni modifica del ruolo dei Circoli deve avvenire nel rispetto della loro autonomia organizzativa, politica e patrimoniale. Inoltre, veniva del tutto ignorata la norma dello Statuto nazionale che dispone che nelle città con oltre 100.000 abitanti debba essere costituito almeno un circolo ogni 50.000 abitanti.

Le reazioni dei Circoli e degli iscritti furono anche vibranti ma lasciarono indifferente Orfini, cui della legittimità o meno delle proprie decisioni non importava evidentemente nulla, e altrettanto di cosa pensavano e proponevano gli iscritti avendolo affermato esplicitamente in più occasioni e giungendo perfino a chiamarli sfrontatamente in causa quasi fossero corresponsabili della situazione svelata dall’inchiesta giudiziaria.
D’altra parte, la cronaca dei modi con cui più avanti provvide disinvoltamente a gestire la deposizione del sindaco Marino, calpestando la volontà sovrana degli elettori, lo dimostra abbondantemente.

A questo punto non rimaneva che soggiacere alla prepotenza o reagire, e il gruppo iniziale, che nel frattempo si era ingrossato, decise per la resistenza. Con il conforto del parere degli avvocati  Anna Falcone e Antonio Pellegrino Lise fu avviata una vertenza presso il Tribunale civile per ottenere l’annullamento della delibera, considerando quanto questa incidesse profondamente e negativamente sul ruolo dei circoli e sui diritti degli iscritti. Davide contro Golia.

Fu una decisione presa nella piena consapevolezza che rivolgersi alla magistratura per ottenere il rispetto delle regole interne di un partito è cosa quantomeno inusuale, ma anche che ne ricorressero tutte le ragioni. C’era la profonda convinzione che fosse politicamente giusto farlo per contrastare chi approfitta di una posizione di potere occupata pro tempore per esercitarla con arroganza, incurante della legittimità delle sue azioni. Un’organizzazione politica, qualunque essa sia, che non pratica la democrazia al suo interno e non rispetta le sue norme statutarie non ha titolo a presentarsi di fronte ai cittadini come strumento di allargamento degli spazi di partecipazione democratica e di miglioramento delle condizioni civili e sociali del Paese.

È così avvenuto che il Tribunale civile di Roma, con una sentenza che molto probabilmente farà scuola, ha accolto le argomentazioni circa le violazioni regolamentari e statutarie e, riconoscendo le menomazioni che ne conseguivano per i diritti di tutti gli iscritti, ha dichiarato l’illegittimità del comportamento del commissario Orfini, disponendo l’annullamento della delibera commissariale e condannando il PD Roma al pagamento delle spese processuali. Stesso esito ha avuto l’appello richiesto dal Pd, per giunta rigettato per irregolarità formali.

Fin qui la cronaca. Ma ci sono ancora tre considerazioni: la prima riguarda la magistratura che non guarda in faccia a nessuno e ancora una volta onora il suo ruolo. In momenti come l’attuale è un conforto non da poco.

La seconda riguarda la sentenza, che parla a tutte le forze politiche e al Parlamento intero.  In realtà nei partiti è ancora del tutto presente, e largamente preponderante, una concezione del processo decisionale unicamente orientato dall’alto verso il basso, una concezione secondo cui, a tutti i livelli dell’organizzazione, ai vertici spetta il potere di decidere e agli iscritti resta soltanto di eseguire e finanziare.
Questa modalità contrasta con l’art. 49 della Costituzione, dove è disposto che “Tutti i cittadini hanno diritto ad associarsi liberamente in partiti per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale”. I partiti sono quindi uno strumento al servizio dei cittadini che hanno diritto a partecipare da protagonisti alla vita politica del Paese.


In base a tutto ciò, si sta costituendo il “Comitato per l’articolo 49”, formato da giuristi, politici e cittadini, che intende proseguire nel percorso tracciato da questa storica sentenza e conseguentemente esigere che le forze politiche si diano finalmente un metodo democratico e compiano quelle scelte organizzative che rendano effettivo, trasparente e facilmente esercitabile questo diritto fondamentale.

L’ultima considerazione riguarda  il PD: se il nuovo segretario Nicola Zingaretti vuole davvero aprire “una fase costituente per rinnovare  e riformare il Partito Democratico” con un’organizzazione che rimetta al centro le persone, che dia loro il potere di decidere, se vuole davvero “costruire una forma-partito radicalmente democratica, capace di conciliare una forte leadership collegiale e decisioni dal basso” allora dovrà tenere conto, e molto prima degli altri, del valore e del significato di questa sentenza.

P.S. Se il Pd fosse un’azienda, questa potrebbe procedere con un’azione di responsabilità verso l’ex-commissario Orfini per rivalersi del danno economico e di immagine subito.


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