Il dramma della Resistenza e del nostro Paese è stato questo: che la Resistenza, dopo aver trionfato in guerra, come epopea partigiana, è stata soffocata e bandita dalle vecchie forze conservatrici appena essa si è affacciata alla vita politica del tempo di pace, ov’essa era chiamata a dar vita a una nuova classe politica che riempisse il vuoto lasciato dalla catastrofe.
Pietro Calamandrei
Nonostante si sia scritto e detto molto sulla Resistenza, poco si è riflettuto sul come essa sia sta vissuta dai suoi interpreti principali, i partigiani. Quelli che in nome di un ideale di libertà decisero di lasciare le loro famiglie e le loro case per andare a combattere sulle montagne affrontando pericoli, stenti, difficoltà di ogni genere. Mancavano armi, viveri, rifugi: il freddo e la fame erano quotidiani, le rappresaglie dei fascisti e dei tedeschi feroci.
Una viva testimonianza è contenuta in questi brani del diario della scrittrice Alba De Céspedes, tratti dal mensile Una Città, che ringrazio. Antifascista, arrestata dall’OVRA nel ’35 per certe sue affermazioni intercettate al telefono, La De Céspedes nel ’43 attraversa le linee tedesche e collabora con Radio Bari col nome di battaglia di Clorinda. Lo stesso anno tenta di raggiungere Bologna attraverso l’Abruzzo e a quel periodo sono dedicate queste pagine. La versione integrale la trovate qui.
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18 ottobre 1943
Al mattino, si dormiva ancora, rifugiati nel triste polveroso ufficio delle imposte a Torricella, quando udimmo bussare affannosamente alla porta. Il viso incolore di Carmela, la ragazza del piano di sotto appariva acceso da una nuova agitazione: «Presto, scappate subito, i tedeschi hanno circondato l’aia dei Peligni, hanno preso gli uomini, tutti, e adesso stanno salendo quassù». Ci vestimmo in pochi minuti, forse tre, quattro, neppure il tempo di prendere con noi qualche indumento e via, Franco, Aldo e io, di corsa per le scale. Qualcuno già gridava: «Eccoli, si sente arrivare il camion». Il corso, le stradette sassose percorse correndo, tra altra gente che correva, e io che avrei voluto fermarmi per tirare il fiato, poi pensavo: debbo farcela, non voglio lasciare gli altri, e seguitavo a correre con un coltello cacciato nella milza. Certi ragazzi fuggivano salvando i pochi averi in una cesta e tutti spiavano se il nastro bianco della strada provinciale si macchiasse delle loro auto giallastre. Orecchi tesi al minimo ronzio. Lasciammo passare qualche mezzo corazzato, noi acquattati sotto il livello della strada provinciale, poi, presto, correndo, la traversammo fulmineamente, d’un balzo quasi, e fummo finalmente in un sentiero tra i campi. Aldo disse: «Bisogna raggiungere il bosco della Defensa, nessuno verrà a cercarci laggiù». Dopo meno di tre ore eravamo rifugiati nella masseria di Trecolori, solitaria al limite del grande bosco. Trecolori è un vecchio contadino, scimmiesco e furbo, vissuto per dodici anni in Pensilvania. Non aveva posto per noi; già, presso il focolare, erano numerosi suoi parenti, calati dai paesi vicini per sfuggire alle razzìe, e alcuni sedevano sui sacchi di farina, altri ammucchiati in terra ci guardavano muti. «Potrete dormire in una stalla, a cinquecento metri da qui. Tanto sarà per una sola notte». Siamo qui da cinque giorni, ormai. Si dorme in un tugurio mezzo stalla mezzo legnaia, pagliericcio a terra, e la sera accendiamo il fuoco. Una porta sgangherata ci nasconde a mala pena la vista del cielo. È molto freddo. Ognuno di noi dorme ravvolto in una coperta, anche la testa ravvolta, per scaldarci col nostro fiato. Sette uomini sono rifugiati in questa stalla, io indosso calzoni e vivo con loro al modo di un compagno. Siamo appesi a un passo, a un fruscio. Se c’è pericolo, se i tedeschi scendono a razziare le masserie, qualcuno, sempre in vedetta, lancia il fischio convenuto, una voce. Il segno d’allarme rimbalza fulmineamente di rifugio in rifugio fino quaggiù, al limite del bosco. Subito, rotolando pei campi arati, caliamo al torrente, lo traversiamo, saliamo nel bosco, ci nascondiamo nel folto degli alberi e dei cespugli. Restiamo lì, zitti, immobili, talvolta sotto la pioggia per ore. Non so come faremo se verrà il freddo più acuto. Non abbiamo cappotti, neppure una maglia di lana. Gli inglesi sono ancora a Termoli, la battaglia è durissima. Talvolta nella campagna, verso il tramonto, passano come ombre i prigionieri alleati diretti al Sangro. Vogliono raggiungere le loro linee, ma riuscire è difficile. Li fermiamo sperando di avere da loro qualche notizia. Sono sorpresi di trovare quaggiù, al centro della terra, qualcuno che parli la loro lingua, conosca i loro paesi. Poi li seguiamo con l’occhio, mentre si allontanano, e attraverso di loro è come se gettassimo un grido d’aiuto: che vengano, che ci liberino. Non abbiamo altro conforto che le notizie portate a voce da Torricella dove qualcuno ascolta Radio Londra nascosto in una cantina. Intanto la stagione incalza, bisognerà preparare un rifugio nel bosco se si dovessero passare molte ore sotto la pioggia.
19 ottobre 1943
Ieri sera Peppino è arrivato di corsa, terrorizzato. Aveva passato otto ore in una legnaia, senza respirare, quasi. A Torricella ieri mattina d’improvviso sono arrivati i tedeschi, hanno bloccato le strade, hanno preso tutti gli uomini, li hanno caricati su un camion e via. Donato Porreca proprietario dello spaccio, ha tentato di fuggire, ma una scarica di mitragliatrice lo ha frustato ai fianchi, è rimasto ucciso sul colpo. Peppino raccontava dello strazio delle donne che urlavano mentre il camion partiva. Intanto suonava a morto la campana per il povero Donato.
20 ottobre 1943
Stanotte alle quattro, tutti in piedi, pronti per fuggire. Falso allarme: era un prigioniero francese che passava nei campi, un contadino ha sparato in aria. Ieri sera, mentre eravamo nella masseria di Trecolori, raccolti attorno al fuoco, udimmo spari vicini, voci di donna gridare aiuto. Giunse di corsa un contadino recando il messaggio: sono i tedeschi, sparano. Giù di corsa con Aldo e Franco, calati nella scarpata del torrente, folta, impenetrabile di rami e rovi. Alle spalle si udivano le urla delle donne, quel lamento di Sofia che invocava lo sposo. Attorno a noi altri rifugiati scappavano, il russo chiamava: «Dove siete? Aiutatemi » rischiando di farci scoprire tutti. Avrei voluto ucciderlo perché tacesse. Giù per la ripida scarpata, sospesi a un tronco, strappati dai rovi, nel fitto cigolante dei rami fino al torrente. Ci passavamo parole soffocate dalla paura: via gli impermeabili, sono troppo chiari, si vedono nell’ombra. Entrammo, come ciechi, nel torrente, l’acqua gelida arrivava ai ginocchi, risalimmo a quattro zampe la scarpata del bosco. Mi tornavano in mente, tra la paura agghiacciante, racconti letti da bambina, le storie della giungla. Bisognava a ogni passo districare il piede dalla vegetazione del sottobosco, aprirci la strada con le mani, gli occhi chiusi perché i rovi non li ferissero. Gli occhi di Franco erano difesi dalle lenti. A momenti nasceva in me il dubbio che tutto ciò fosse fatto quasi per gioco. Non potevo, io, Alba, trovarmi per davvero in un momento così grave, sul punto d’essere presa dai soldati tedeschi, fucilata, uccisa. Tutta questa avventura mi pareva più forte di me, della mia capacità di resistere. Altre volte invece, in quel silenzio e quel buio insidioso, il pericolo m’appariva così prossimo da non lasciare scampo, possibilità di fuga. Era fatto, eravamo presi. Un funebre latrare di cane in lontananza acuiva il mio sgomento. E al di sopra di tutto c’era l’umiliazione di dover fuggire come malviventi, assaggiando la vita degli assassini o dei briganti; senza aver fatto nulla di male, aver solo sognato il proprio paese libero e civile. Due ore circa nel bosco. Freddo. A momenti si riprendeva a salire arrampicandoci per scaldarci. Attorno erano i mille rumori della vita notturna del bosco; la voce della civetta, un lento frusciare sulle foglie secche, un guizzo tra i rami. Noi tre seduti in terra, aspettando. Infine udimmo un sibilo lontano, sommesso: il fischio degli amici. Fu caro come ritrovare improvvisamente il sapore della vita.
21 ottobre 1943
Niente di nuovo. Attesa inerte e sconfortante. Gli inglesi non arrivano, le notizie giunte da Torricella dicono che sono ad Istonio. Mariuccia, una vecchia novantenne, furba e scheletrica, funge da collegamento tra il paese e noi. Arriva portando le notizie scritte in un biglietto da Don Peppe, il notaio di Torricella, e nascoste nel busto o nella crocchia dei capelli. Grande movimento di aerei. Le nostre calze di lana, le uniche che possediamo, incominciano a rompersi. Anche il sale finisce. Stamani, dopo lunghi giorni, siamo andati a lavarci al ruscello. Nel pomeriggio abbiamo studiato le posizioni di rifugio nel bosco, scelte le più sicure. Gli alberi erano illuminati dal tramonto, le foglie cadute rosse e lucide. Gruppi di ciclamini pallidi spuntavano di sotto i ciuffi di ginepro. Avrei voluto farne un mazzo, come usavo nei boschi di Ariccia da bambina, ma mi pareva poco serio cogliere fiori mentre si saliva a scegliere un rifugio per salvarci la vita. Attorno Franco e gli altri tendevano gli orecchi al crepitìo di una mitragliatrice che si faceva udire sotto Montenerodomo, ai limiti del bosco.
22 ottobre 1943
Scrivo sulle pietre del ruscello. Siamo venuti a lavarci. Aldo e Trecolori stanno scavando un rifugio, sotto un gran masso, sul greto del torrente. Siamo stanchi, nervosi, ammutoliti. A volte s’impadronisce di noi lo stato d’animo del delinquente che non resiste più e si consegna alla giustizia. Peppino ha detto: rischio tutto, ma voglio tornarmene a casa mia, a San Vito. Si riversa sul poco cibo e sul giaciglio il nostro cattivo umore. Se non ci fosse il conforto ineffabile della natura, la vita sarebbe senza più sogni o gioia, tutta dura, tutta da patire, tutta da vivere fedelmente, senza fughe. Sono umiliata di aspettare la libertà degli inglesi. Ogni giorno ci chiediamo, quasi con impazienza, scrutando i contorni delle colline: ma quando vengono? Ridotti ad aspettare con gioia l’arrivo di soldati stranieri! […]
24 ottobre 1943
Niente di confortante da due giorni. Siamo sempre più logori, sempre più sudici. S’intravvede con difficoltà la possibilità di resistere ancora a lungo senza poterci cambiare, dormendo sempre vestiti, stanchi così, così nervosi. A sera una mortale tristezza si impadronisce di noi: verso le cinque, quando è giorno ancora per chi vive nelle città, puoi girare l’interruttore, accendere la luce, prendere un libro. Vivere. Ed è notte per noi, costretti alla fievole luce del focolare o a passeggiare muti nel buio. I giorni sono incerti, monotoni, umilianti. Muoiono lasciandoci ognuno una più profonda stanchezza e nessuna speranza per il giorno nuovo. Nel fondo di questa cupa valle nessuno ci soccorre e ci illumina. Ogni cespuglio è un’ombra minacciosa, il masticare dell’asino nel pagliaio ci sembra il rumore di scarponi ferrati pel sentiero. È l’ora più sicura: di notte i tedeschi s’arrischiano difficilmente attorno al bosco, temono le imboscate. Eppure un invincibile terrore si impadronisce di tutti a quell’ora. […]
25 ottobre 1943
[…] Mia madre mi crede a Roma e forse esce e parla con le amiche mentre io sono stesa a terra, nel fango, nascosta dietro un cespuglio o attizzo il fuoco soffiando forte e Franco è malato, trema, negli accessi della malaria. Oh, vorrei che s’aprisse la porta adesso, e qualcuno entrasse a dire che la guerra è finita, nessuno si ammazza più, possiamo uscire, parlare ad alta voce, mostrarci, esser liberi. […]
28 ottobre 1943
[…] Non è mai stata così seria la vita, per me. C’è solo una grande dolcezza nell’ingenuo candore di Aldo che si rammarica di non avere una torta, oggi, per il suo compleanno. Tra poco anche il conforto di scrivere queste note sarà finito, non saprei come procurarmi un altro quaderno. Scrivo sui ginocchi mentre gli altri discutono di politica, nervosi, rissosi. Sono venuti anche i polacchi, tre giovani studenti che da quattro anni fuggono di paese in paese. Abbiamo costruito due cavalletti di legno scortecciato per sederci nell’interno della stalla. Verso il tramonto, da tutti i rifugi attorno al bosco qualcuno scende verso il nostro tugurio attratto dal calore di un fuoco. Ci sono romeni, russi, jugoslavi, un’ebrea tedesca, qualche ex-internato politico. Tutti stretti da una umana solidarietà che abolisce confini e passaporti. Non ci si domanda il nome né il colore politico, ci si legge soltanto negli occhi il bisogno di essere aiutati a superare queste ore dure della vita. Qui, in questa stalla remota, a 1000 metri, mi sembra che stia davvero nascendo l’Italia che abbiamo voluto. Mi batte il cuore a questa improvvisa scoperta. Qui, proprio qui, in questa stalla, logori, affamati, senza più nulla, nulla che somigli alla vita civile, ricominciamo a vivere civilmente. Il russo parla del suo paese, i polacchi della loro letteratura, l’ebrea non ha più quegli occhi di sgomento coi quali fissa l’alto della collina per vedere se da lì calino i tedeschi. Seguitano a parlare. Mi piacciono le loro voci, l’incerto italiano, le discussioni aperte. Dolce cara patria mia. […]
4 novembre 1943
Sono in pena per Roma, per mio figlio, zia Maria, la mia casa. Mille oggetti che mi hanno seguito dovunque con la loro storia, i loro segni: una Madonna comperata sul Lungarno, un libro trovato a Venezia. Vivo tutta nel passato in questi giorni : l’Avana, Parigi, papà. Ho una tremenda voglia di tornare ad essere giovane e felice, non più sentire parlare di guerre, di soldati, non aver più paura. Domani i ragazzi polacchi partiranno con Peppino per traversare le linee. Peppino ha preso la decisione, ma adesso è giù di corda, attratto e sgomento dal vuoto nel quale si getta. Stamani Mario ha portato buone notizie dal suo giro: la ritirata tedesca sarebbe imminente. Non ci credo. Non credo più a nulla. […]
15 novembre 1943
Ogni mio tentativo di scrivere è interrotto dall’allarme. Non abbiamo più forza. È freddo, diluvia, le scarpate sono motose, scivolose, calare alla masseria di Trecolori è già un’impresa, si cade, ci si rialza, avviliti. Poco dopo de quattro, siamo prigionieri del buio, ciechi, ombre. Col buio un grande scoramento cala nell’aria, fitto come una nebbia soffocante. Si tace, umiliati, attorno al focolare. Che ora è? Sempre troppo presto per mangiare, troppo presto per gettarsi vestiti sul giaciglio. Il mio vestito è riuscito ad essere, perfettamente, un vestito da accattone. Non ho biancheria, né calzettoni di ricambio; il mio impermeabile, che tuttavia mi serve da guanciale, è nero di terra, di fango, di sudiciume. Non avrò mai altro? Ritroverò la mia casa? E i miei libri? È la nostra vita? […]
18 novembre 1943
Non ci si fa più. Bisogna decidersi. Da stamani alle 7 siamo nel bosco, ormai rado di foglie, distesi in terra sotto le coperte. Rientrati nella stalla, poi saliti da Annuccia per elemosinare dalla sua buona grazia una fetta di polenta abbiamo dovuto, poco dopo, fuggire di nuovo, digiuni. I tedeschi hanno scoperto il nostro rifugio. Sono entrati nella stalla, hanno frugato tra la paglia, insospettiti da quei giacigli, poi sono rimasti in agguato lì presso, sperando di sorprenderci, come animali di ritorno alla tana. Noi li spiavamo dal bosco; alcuni di noi erano armati, la mira sarebbe stata facile, li vedevamo benissimo, vedevamo le loro gambe aprirsi a forbice, erano un facile bersaglio. Non si può sparare; se lo facessimo, dopo due ore, altri tedeschi calerebbero per bruciare, distruggere tutte le masserie attorno pel raggio di due o tre chilometri. Noi non avremmo corso alcun rischio: facilmente avremmo potuto trasferirci al lato opposto del bosco, accamparci laggiù. Ma i contadini, questi stessi che ci hanno accolto e protetto, avrebbero pagato per noi, com’è stato fatto altrove. Brucerebbero le masserie, ucciderebbero le donne. Non potevamo che spiarli con odio, tutto il bosco, fermo, silenzioso, era un immenso occhio che li guardava con odio. Stanotte abbiamo organizzato i quarti di guardia: ogni due ore due di noi si spingono fin sulla gobba del Casale, in vedetta, proteggendo il sonno degli altri. Ma gli altri non possono ugualmente riposare: si pensa: e se s’addormentassero… e se non li vedessero? Io ho avuto il mio quarto con Franco ed Edoardo, dalle due alle quattro, era una notte bianca, nebbiosa. Adesso Corrado e Aldo sono fuori spiando. Franco ha rinunciato a prepararsi una sigaretta: non ce la fa, la carta è troppo poca. Bisogna che io difenda questo quaderno dai fumatori. […]
19 novembre 1943
Pochi istanti per scrivere. Partiamo per traversare le linee. Franco, Emilia ed Edoardo sono già pronti davanti alla masseria di Trecolori, io sono risalita alla stalla con la scusa di prendere la gavetta dimenticata, ma in realtà per rimanere sola, scrivere qualche riga. Indosso i calzoni e l’impermeabile e sopra, infilata dalla testa per un buco praticato al centro, una coperta scura che servirà a mimetizzarmi. I lembi sono appuntati con due spille di sicurezza. E’ pesantissima, non so come farò a camminare così. A tracolla ho un’altra coperta arrotolata al modo dei soldati. Tutti gli amici sono scesi dai rifugi del bosco per salutarci. Tonino coi nervi rotti piange dirottamente appoggiato contro un albero, il russo si rotola in terra nei dolori dell’ulcera. Non si fa che stringere mani, baciare gote ruvide. Ci guardano come se vedessero per l’ultima volta, preoccupati, commossi. Stamani eravamo anche noi nervosi, muti, non ci parlavamo, noi quattro, per non scambiarci le nostre impressioni sulla decisione presa. E adesso invece io mi sento leggera, leggera, sorridente, come se partissi per una festosa gita. C’è un po’ di sole, il ciliegio nel vano della porta si disegna leggero leggero, un arabesco. Ho scritto qualcosa sulla parete della stalla con la tintura di jodio, volevo essere sola anche per questo. Non so cosa saranno esattamente «le linee», ho solo paura di scatenare io stessa, col mio piede, il diabolico congegno di una mina. Ho il danaro nascosto nel petto, nasconderò anche il quaderno. Voglio scrivere questo, ben chiaro: non ho paura, solo questa enorme allegria, in me, forse nervosa. E il senso di giocare un tiro ai tedeschi, sfuggendo, il desiderio di non farci trovare qui dagli inglesi, quattro italiani validi, aspettando inoperosi. C’è in me solo odio e allegria. Se ci rimanessimo, i nostri compagni del bosco neppure lo saprebbero sùbito. Mio figlio, mia zia, seguiterebbero a vivere come se ci fossi. Mia madre lo saprebbe chi sa quando. Il cielo si fa nebbioso. Sono le 15,30. Fioravante ha detto che prima dell’alba dovremo essere al Sangro.
Alba de Cespedes
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I racconti, le storie brevi, sono come quegli sguardi lanciati da una finestra aperta che permettono di vivere quanto accade giù nella strada, nella vita di tutti i giorni, di immaginare i pensieri dell’ignoto passante o il dialogo dell’altrettanto ignota coppia mentre vengono percorsi i pochi metri che la visuale consente.
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Tag:25 aprile, Alba De Céspedes, partigiani, Piero Calamandrei, Resistenza, Una città
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