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In Europa, paradisi fiscali o parassiti fiscali?

3 Mag

In questi giorni che l’Olanda è venuta – non positivamente – alla ribalta, ho trovato questo articolo di Torquato Cardilli molto chiaro ed eloquente: evidenzia una delle maggiori contraddizioni di questa Europa, ben diversa da quello che vorremmo e che – soprattutto – sognavano i padri del Manifesto di Ventotene. Parliamo di elusione fiscale e della necessità vitale di avere in Europa un’unione fiscale. 

Nel 2017 Franco Gallo scriveva sul Sole24ore : Allo stato attuale, abbiamo perciò un quadro molto variegato e disorganico di regimi e di criteri di determinazione della base imponibile, nonché di aliquote nei diversi Paesi comunitari, suscettibili di creare distorsioni e discriminazioni e, di conseguenza, di fomentare comportamenti opportunistici da parte sia degli Stati che dei singoli contribuenti.

paradisi ìfiscaliEuropa

Immagine del Corriere della Sera – 17 marzo 2019

Nella classifica degli 11  maggiori paradisi fiscali nel mondo, 6 si trovano in Europa:   Irlanda, Svizzera, Malta, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Salta subito all’occhio che le ultime tre nazioni sono parte integrante dell’Unione europea.
Incidentalmente, c’è da notare che Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea dal 2014 al 2019, era stato fino al 2013 primo ministro del Lussemburgo e fautore di una politica fiscale di favore per i redditi societari. Tanto di favore che secondo una ricerca del FMI un paese di 600.000 abitanti ha potuto raccogliere 4000 miliardi di dollari di ‘investimenti fantasma’. Poteva l’Europa, con cotanto Presidente, intraprendere la ricerca di un percorso per giungere un giorno ad un’unione fiscale?

Intendiamoci: quello dell’elusione fiscale è un problema mondiale. Come ha ben riportato Tommaso Carboni su Forbes solo pochi giorni fa: “le multinazionali spostano nei paradisi fiscali [del mondo] il 40% dei loro profitti, e fanno incassare ai governi circa 500-600 miliardi di dollari di tasse in meno, ci dice il Fondo Monetario Internazionale, a cui si aggiungono perdite di circa 200 miliardi di imposte sui redditi individuali.”  Parlando dell’Olanda, aggiunge che:un’indagine della rete di esperti fiscali Tax Justice Network, che utilizza dati pubblicati quest’anno negli Stati Uniti relativi ai profitti delle società americane in Europa, dimostra che queste società nel 2017 hanno spostato 44 miliardi di dollari di utili nel paradiso fiscale olandese, dove le aliquote delle tasse societarie sono inferiori al 5 per cento.”

E l’Italia quanto è vittima di questo perverso meccanismo? Ecco la risposta di Carboni, che si poggia su attente ricerche: “Dall’Italia fuggono (e in gran parte sono diretti verso Paesi europei a bassa tassazione) un po’ più di 17 miliardi di euro di profitti aziendali. Vuol dire per lo Stato italiano raccogliere ogni anno sei miliardi di euro in meno di tasse.” Francia e Germania perdono a loro volta rispettivamente 9,5 e 14 miliardi. Infatti il ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire,ha recentemente dichiarato che: “Dobbiamo affrontare il fatto che le più grandi aziende del mondo realizzano enormi profitti in Europa e in tutto il mondo senza pagare il giusto livello di tassazione perché non hanno alcuna presenza fisica”.

Ma è possibile ipotizzare una quasiasi forma di armonizzazione fiscale nell’Unione? Difficile cambiare le regole: le lobbies dei colossi multinazionali lavorano bene a Bruxelles. E poi oggi serve ancora l’unanimità: “Anche solo un Paese può bloccare qualsiasi forma di accordo. L’anno scorso è stata respinta una proposta comunitaria che avrebbe costretto le multinazionali a dichiarare quanti profitti realizzano e quante tasse pagano in ciascuno dei 28 Stati membri. Tutti gli Stati con regimi fiscali agevolati hanno votato contro

La speranza è rappresentata dall’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che “sta provando a cambiare le regole. Il piano è imporre una tassa minima globale, e poi far pagare le multinazionali dove realizzano le vendite, anziché dove registrano le filiali. Questo farebbe crescere le entrate fiscali, almeno nei paesi dell’Ocse, di cento miliardi di dollari l’anno. L’ideale, dopo trattative durate anni, è raggiungere un accordo a giugno, e poi avere l’endorsement del G20 per la fine dell’anno. Chissà, forse il trauma della pandemia potrebbe addirittura facilitare l’intesa.

Speriamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Referendum: il mio no di giovane democratica europea.

14 Lug

Ospito con molto piacere le acute e lucide riflessioni di Benedetta Rinaldi Ferri, una giovane amica tenace sostenitrice di un vitale quanto sano e proficuo confronto delle idee in un partito che si dice democratico.
UN FILO ROSSO


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Referendum: il mio no di giovane democratica europea.

Prima che il nostro dibattito affondi fra le carte napoletane, con le poche righe che seguono vorrei provare a riallacciare i fili, ricostruire la cornice in cui inserire il voto di Ottobre. Almeno per come la vedo io, per le ragioni che sento necessarie a una sinistra in via di rifondazione. Con la speranza di poterci riflettere insieme.

Dimostrazione ad Atene.

Dimostrazione ad Atene.

In premessa, un orizzonte perduto. La riforma costituzionale, unitamente all’Italicum, si inserisce in un contesto politico europeo sempre più avvitato sulle proprie tensioni (tecnocrazia-populismo, immigrazione-razzismo etc). Autonome, strutturali, e sempre più azzardate, queste sono il sintomo di un male maggiore, di natura costituzionale. A loro modo il segno di un dibattito interrotto e presto soffocato dalle urgenze della recessione.

Vale la pena soffermarcisi un istante, perché non c’é riforma che possa prescindere dal contesto ordinamentale che la contiene.

Io ero piccola, ma qualcuno ricorderà l’avventura che fu la Costituzione Europea, le sue difficoltà, lo spirito parzialmente tradito dal Trattato di Lisbona (2007). A ben guardare, chiusa quella fase, che pure doveva essere provvisoria, avviata sulla via di un progresso civile e democratico prossimo, seguirono le innovazioni sul piano della governance economica (Fiscal Compact, MES, Six Pack etc). Strumenti della cui legittimità ancora si dubita.

Alle fughe in avanti insomma si sostituirono allora le asfissie del (non) dibattito economico sull’austerità. In quel passaggio, nella riduzione dialettica continentale, fu vinta una battaglia di orizzonte politico. E noi, gli sconfitti, perdemmo di vista il quid novum del dibattito costituzionale: italiano, europeo, globale.

Non sfuggirà a nessuno del resto che fu proprio in quella temperie che prese vita l’attuale legislatura, vincolata alle riforme nelle parole del rex republicanus Giorgio Napolitano. Nel 2013 fu tracciato un binario. Il binario fu agganciato alla transizione democratica italiana. Il solco, scavato nel “son trent’anni che ne discutiamo”.

Ora il punto è che se pure è vero che l’uso politico della storia comincia sempre con una determinazione partigiana del dies a quo, non si possono tuttavia tacere le innovazioni governamentali intervenute nel frattempo. Non possiamo non fare i conti cioè con uno scenario giuridico e politico irrigidito dalla crisi: l’integrazione europea come coordinamento di esecutivi, la globalizzazione come livellamento tra poteri pubblici sovrani e poteri privati, la riduzione dei governi a tecnici della sopravvivenza, per usare le parole di Zagrebelsky, amministratori del presente e non più poliedrici timonieri.

 Contro la politica impolitica. La combine riforma-italicum garantisce governabilità e efficienza si dice, porta inoltre con sé la ri-democratizzazione di decisioni prese altrove dai poteri di fatto: se la democrazia decide, sottraiamo il boccino alle consorterie economiche del paese, riaffermiamo un primato politico (su per giù la tesi del ministro Orlando). Vien da rispondere: va bene, non fosse che anche qui sembra non tenersi conto delle dimensioni delle forze in gioco, consorterie economiche transnazionali e talvolta istituzionali, e di nuovo della dimensione multilivello del nostro ordine.

Già considerare i limiti democratici dell’Unione infatti, aiuta a leggere la riforma come orientata a garantire la prevedibilità dell’esecutivo, minoranza di minoranza, aggravandone l’impoliticità: il governo va nei consessi europei, annota in agenda, esegue senza troppi intoppi e una camera di impaccio in meno (ma forse neanche quello, potrebbe addirittura imballarsi da solo).

Le variabili della partecipazione? Minimizzate. E la parabola della rappresentanza? Come passare da 0 a 4000 metri con un sol voto: la legittimazione si disperde, il respiro fatica.

I centri decisionali restano dove sono e la capacità decidente, stella polare del progetto, finisce col caratterizzare l’azione politica per i soli mezzi e non più per fini liberamente riformisti. Viene ridotto il confronto con quel tanto di imprevedibilità che la democrazia impone, la creatività del parlamento, che certo già soffre ma per la stessa carenza di prospettiva di cui sopra.

Con un’ambizione più alta, l’uguaglianza. Riflessione concorrente è quella sul criterio che dovrebbe orientare la revisione coté progressista: l’uguaglianza.

Con tutto il rispetto per i sostenitori del doppio sì (viva l’Italicum, viva la riforma), a poco vale richiamare le intenzioni di Berlinguer in un mondo che si assume radicalmente mutato, perché si incorre in contraddizione. Applicare antiche soluzioni dismettendone i valori, peraltro davanti a divari sociali e democratici nuovi, è semplicemente insensato, forse ipocrita. E pensare di ingabbiare le tensioni cicliche del sistema nelle mani piccole di un ufficio (funzionale a, efficiente), l’esecutivo monocolore monopolista, sconta una miopia.

É ormai plastica la marginalizzazione dei più dal grande gioco della politica democratica, a partire dal lessico stantio che ci vorrebbe tutti schierati tra moderati riformisti e inconsapevoli populisti. Il fenomeno non è nuovo, e tuttavia assume oggi proporzioni colossali. Richiede uno sforzo di inclusione che la verticalizzazione dei poteri, peraltro fragile, non può soddisfare.

Come ci confermano ormai anche i sampietrini di via dei Fori, il livello delle disuguaglianze in Europa e in Italia tocca la sua soglia di sostenibilità. Ora, la leva istituzionale come leva costituzionale (comprensiva cioè degli obiettivi di sviluppo della persona), può essere la via maestra per restituire dignità e controllo a chi viene via via escluso dai circuiti dialettici della democrazia. Democrazia che a me piace pensare come pluralità dinamica e variopinta, e che il combinato tende invece a neutralizzare (nel senso proprio di scolorire).

Sulla scorta di queste brevi argomentazioni, e senza pretesa di esaustività, credo sia opportuno promuovere nel partito democratico un dibattito finora mancato. Come ho provato a spiegare, le ragioni del no interrogano la nostra coscienza di democratici europei, chiudere le finestre del confronto per rispetto di un partito che ha già deciso, senza coinvolgere minimamente le sue forze diffuse, finirebbe con l’impoverire l’anima della più grande forza riformista del paese, che questo piaccia oppure no.

E a me non piace.

Benedetta Rinaldi Ferri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Due tragedie

29 Ago

Quella dei migranti, sfruttati, perseguitati, torturati, uccisi.
E quella dell’Europa che vi assiste indifferente.
Decidete voi quale la peggiore.

Europa migranti

 

 

N.B. L’immagine non è di Banksy – come ha spiegato Il Post) ma della CEAR (Comisión Española de Ayuda al Refugiado), che sta svolgendo una importante campagna di sensibilizzazione chiamata #UErfanos ed a cui va il mio sentito grazie.

Ha vinto l’Europa, quella vera.

6 Lug

Ora che in Europa hanno vinto il coraggio e la dignità, leggere questo breve e delizioso reportage di Roberto Soldatini, musicista e navigatore, dà un altro senso al voto. Esprime il senso profondo di un popolo orgoglioso della sua storia, che ha mantenuto e rispetta le sue tradizioni, la sua cultura, che non rinuncerà mai alla sua identità, neppure in cambio della protezione (interessata) di chi sa solo speculare.
I greci meritano tutta la nostra ammirazione. Saranno le mie lontane origini, ma sono vicino a loro come mai avrei immaginato e la speranza di un’Europa nuova, unita, solidale e generosa è oggi più solida.

Roberto Soldatini

Reportage dalla Grecia alla vigilia del referendum.
Aspettavo di attraccare ad Atene per completare il mio punto d’osservazione privilegiato di questo momento di transizione della storia greca. Non si può navigare in questo mare ed essere indifferenti ai cambiamenti della sua storia, non essere solidale con la sua gente. Rimanere alla fonda in una meravigliosa baia in questi momenti vuol dire sfruttare le loro bellezze, la loro generosità senza ripagarli.
Avevo programmato di attraccare alla capitale, e ci sono arrivato al momento giusto, per avere un quadro più chiaro. Qui oltre a poter verificare di persona se quello che i media diffondono corrisponde a verità, posso incontrare i miei amici greci, che sono tanti. E’ gente comune, ma anche gente della finanza e del governo. Così posso avere una visione a trecentosessanta gradi della situazione.
Nelle isole non avevo ancora potuto fare un’analisi obiettiva. Nelle isole i greci vivono di una realtà economica autonoma, basata solo sul turismo. Per tanto non c’è la percezione di una crisi. Ce n’è un po’ nei luoghi meno frequentati, e comunque non è maggiore di quella italiana, anzi. Ma la propaganda mediatica, la stupidità di chi gli crede, e di chi credendogli si preoccupa oltre misura, dà origine a episodi divertenti e patetici al tempo stesso. A Hydra un’anglosassone ha preso da parte la parrucchiera che stava tagliando i miei capelli, e le ha parlato sotto voce. Quando è uscita, la parrucchiera greca si è messa a ridere, e mi ha raccontato che la donna le aveva chiesto come fa a vivere con la crisi, se ha paura di uscire la sera, e se crede che potrebbe rivelarsi pericoloso stare in Grecia per gli stranieri. Abbiamo riso fino all’ultimo capello tagliato.
Ormai so che viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che ci viene mostrato può non essere vero. Quindi non mi fido mai dei telegiornali e dei giornali. Ora sono ad Atene, e posso vedere con i miei occhi.
Di sicuro più di qualcuno sta perdendo il posto di lavoro, una cosa che avevo già constatato negli ultimi due anni, ma è così anche nel nostro paese. E i greci affrontano questa situazione con grande dignità, aiutandosi a vicenda, tra parenti e amici. Anche se si legge la preoccupazione nei loro occhi, non perdono il sorriso e l’allegria, il loro innato amore per la vita e tutto quello che può concorrere ad accrescerla e a potenziarla. Un modus vivendi che ha origine nelle radici della loro cultura.
Ma quello scenario che mostrano i media, di gente che mendica cibo per strada è falso. E’ come se una televisione estera venisse a riprendere la distribuzione dei pasti alla Caritas e propagandasse quelle immagini come una situazione diffusa in tutta l’Italia. Di certo i poveri ci sono, qui come nel nostro paese. E la crisi sta colpendo principalmente loro.
Anche la faccenda delle banche si rivela un inutile allarmismo per i turisti: le carte di credito sono accettate ovunque, sia quelle dei greci che le nostre, al momento con il bancomat gli stranieri possono prelevare senza limiti, e non ci sono file. I greci invece possono prelevare solo sessanta euro al giorno. Su questa disposizione però ho avuto risposte discordanti, anche dagli uomini del governo. C’è chi dice che sia perché nelle banche non ci sono soldi. E c’è chi dice che sia solo per frenare la corsa al ritiro di contanti, che in molti hanno pensato di accumulare in caso si dovesse tornare la dracma. Cosa che potrebbe accadere qualora, vincendo i “no” al referendum, non si riuscisse a ottenere una rinegoziazione dei dettami europei, e questo portasse poi all’uscita della Grecia dalla Comunità.
Ma vorrei chiarire che domenica prossima i greci non saranno chiamati a decidere se rimanere nell’Europa. Quello su cui voteranno sarà se accettare le condizioni a loro imposte o no. Quelli che hanno deciso di votare no, non desiderano uscire dalla Comunità Europea, ma esprimono il loro rifiuto a delle condizioni che reputano inaccettabili, e soprattutto esprimono la loro dignità. E a quanto pare potrebbe essere la maggioranza.
Ho assistito a una delle due giornate in cui il governo ha parlato alla popolazione, in quella piazza che da sempre è il simbolo della manifestazione popolare, la piazza di fronte al Parlamento, dove c’è anche il Grand Britain Hotel, dove alloggiavo quando dirigevo l’Orchestra dell’Opera d’Atene. La piazza era stipata di gente, nonostante la pioggia, affluita da tutte le parti della Grecia. E nonostante la polizia avesse bloccato alcune strade, la città non si era paralizzata. Il traffico era stato canalizzato con intelligenza. E la gente arrivava a piedi o in bicicletta.
L’atmosfera della manifestazione, per me che sono abituato a quelle italiane, è apparsa irreale. Sembrava quella di una grande festa. I greci erano sorridenti nel rispondere a ogni mia domanda, e scherzavano tra loro. Quando però un rappresentante del governo diceva qualcosa su cui erano d’accordo applaudivano fragorosamente e sventolavano con orgoglio le bandiere greche, tante in tutta la piazza.
I miei amici che fanno dei lavori normali, impiegati presso lo stato o presso privati, continuano a condurre la vita di sempre, senza grandi restrizioni, ma pur con qualche preoccupazione voteranno per ribadire la loro dignità, con un “no”. Gli amici che sono tra coloro che sorreggono l’economia di questo paese, con le loro compagnie navali, non hanno al momento grossi danni, e non ne avrebbero tanti neanche qualora il loro paese tornasse alla dracma. Perché continuerebbero comunque i loro affari venendo pagati in dollari. Loro però voteranno “sì”, per gli interessi che li lega alla Comunità.
Sì o no, sono comunque tutti molto incazzati con la Germania. E sinceramente fa incazzare anche a me, e molto, che quel paese che ha distrutto tutta l’Europa e sterminato milioni di innocenti, sia stata salvata azzerando il suo debito di guerra, e ora infierisca su questa gente buona, che sembra essere uscita delle fiabe. Ai quali, tra l’altro, proprio la Germania deve ancora restituire tutto l’oro che ha rubato dalle banche greche alla fine della guerra. Ma i greci sono consapevoli che devono risolvere i problemi relativi alla loro classe dirigente, ancor prima di regolare i conti con la Germania.
Intanto, il mio amico greco armatore di navi, quando ha visto che a causa della crisi si stava riducendo il suo profitto, non ha licenziato neanche un dipendente, come fanno invece in questi casi in molti altri paesi: si è accontentato di un guadagno minore. E mi dice che così hanno fatto anche i suoi colleghi. Come si fa a non parteggiare per questo meraviglioso popolo?
Vengo a sapere ora che a Napoli c’è stato un corteo per esprimere solidarietà ai greci. Ho scelto di trasferirmi nella città partenopea anche e soprattutto per l’affinità che c’è tra i napoletani e i greci, l’ho scritto nel mio primo libro, l’ho ribadito nel secondo (che uscirà a maggio). E questa manifestazione mi fa sentire orgoglioso di vivere a Napoli. E’ una solidarietà tra gente straordinaria, fondamentalmente buona, che come nelle favole viene continuamente colpita al cuore dai cattivi, dagli orchi e dai draghi. Non abbiamo ancora imparato niente dalle favole, come dalla storia.

Stiglitz: la Grecia, l’Europa, la democrazia

2 Lug

Io so già come voterei“, conclude l’economista e Nobel Joseph Stiglitz in questo articolo apparso lunedì 29 sul Guardian e pubblicato ieri da Internazionale col titolo: “L’Europa vuole liberarsi di Alexis Tsipras”.  E diversamente, per fortuna, da molti soloni all’amatriciana (o alla fiorentina, fate voi) di casa nostra, mette il dito sulla piaga: “è tutta una questione di potere e di democrazia, più che di denaro e di economia“.

Perché, alla faccia di quanti affermano con faciloneria che Tsipras deve “rispettare le regole” (il nostro Presidente del Consiglio nell’intervista al Sole-24Ore di ieri), Stiglitz va dritto al punto: “Diciamolo chiaramente: quasi niente dell’enorme volume di denaro prestato alla Grecia è rimasto nel paese. È servito praticamente solo a pagare i creditori privati, comprese alcune banche tedesche e francesi. La Grecia ha avuto solo le briciole e per salvare il sistema bancario di quei paesi ha pagato un prezzo altissimo“. E spiega:

Il Fondo monetario internazionale e gli altri creditori “istituzionali” non hanno bisogno dei soldi che chiedono. In una situazione normale, probabilmente li presterebbero subito di nuovo ad Atene. Ma, come ho già detto, non è una questione di soldi. Stanno semplicemente usando le “scadenze” per costringere la Grecia a cedere e ad accettare l’inaccettabile: non solo le misure di austerità, ma anche altre politiche regressive e punitive.
Perché l’Europa fa questo? Non è democratica? A gennaio i greci hanno eletto un governo che si era impegnato a mettere fine all’austerità. Se avesse semplicemente mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale, il primo ministro Alexis Tsipras avrebbe già respinto la proposta. Ma ha voluto dare ai greci la possibilità di incidere su una decisione cruciale per il futuro del paese. Questa esigenza di legittimazione popolare è incompatibile con la politica dell’eurozona, che non è mai stata un progetto molto democratico. La maggior parte dei governi dell’area non ha chiesto il parere del popolo prima di rinunciare alla sovranità monetaria a favore della Banca centrale europea. Quando il governo svedese l’ha fatto i cittadini hanno detto di no. Avevano capito che se la politica monetaria fosse stata decisa da una banca centrale preoccupata solo dell’inflazione, la disoccupazione nel loro paese sarebbe aumentata (e nessuno avrebbe prestato sufficiente attenzione alla stabilità finanziaria). L’economia ne avrebbe sofferto, perché il modello alla base dell’eurozona presume rapporti di potere sfavorevoli per i lavoratori.

Possibile che Stiglitz la interpreti così e al nostro Presidente del Consiglio questo aspetto sia sfuggito? Stento a crederlo. Renzi sa benissimo qual’é il punto focale della questione: il braccio di ferro tra l’Europa ricca e potente che non rispetta gli ideali per cui è nata e un Paese  che rappresenta solo il 2% del Pil dell’intera Unione ma che pretende di risolvere i suoi problemi senza le ingerenze della trojka (e dei suoi figli, scusate la facile battuta). E questo al netto degli errori criminali e catastrofici commessi dai precedenti governi di Atene, per cui i greci stanno pagando da cinque anni un prezzo altissimo. Prosegue infatti Stiglitz:

E senza dubbio quella che stiamo vedendo ora è l’antitesi della democrazia. Molti leader europei vorrebbero liberarsi di Tsipras, perché il suo governo si oppone alle politiche che finora hanno fatto crescere la disuguaglianza e vuole mettere un freno allo strapotere dei più ricchi. Sembrano convinti che prima o poi riusciranno a far cadere questo governo, costringendolo ad accettare un accordo in contraddizione con il suo mandato.

Non so se tra i “molti leader europei” Stiglitz comprenda anche il nostro Renzi. Personalmente credo che se egli avesse dimostrato un diverso e più fermo atteggiamento nei confronti della Merkel, forse (ripeto “forse”) la Cancelliera avrebbe considerato l’ipotesi di un atteggiamento più morbido e lungimirante, forse anche Hollande avrebbe speso qualche parola in questo senso, forse (forse) anche Spagna e Portogallo avrebbero potuto aggiungere la loro. Parlo delle economie più deboli, più esposte un domani (speriamo di no) a una replica della brutale repressione della Trojka sollecitata dai falchi come Schauble, che avrebbero avuto tutto l’interesse a una posizione comune per fronteggiare la strapotenza germanica. E forse, aggiungo in finale, forse anche Obama avrebbe dato una  mano in questo senso, preoccupato che la Grecia possa diventare succube di Putin.
Invece tutti a pecoroni, senza valutare che la non auspicata (da me) sconfitta di Tsipras sarà l’incoronamento finale di una Germania sempre più potente ed egoista e il rinvio sine die del progetto di un’Europa federata e unita, solidale, forte, generosa.  Mentre  dall’altra parte l’eventuale uscita dall’euro di una Grecia orgogliosa ma non umiliata “non sarebbe tanto un danno economico, quanto un vulnus alla credibilità politica dell’Europa” (Prodi nell’intervista di oggi a Repubblica, da leggere assolutamente).
Per concludere, qualcuno dovrà cercare di far capire all’arrogante Germania che la sua supremazia varrà assai poco in un’Europa ridotta a espressione geografica. Io voterei come Stiglitz: prima i popoli.

È difficile consigliare ai greci cosa votare il 5 luglio. Una vittoria del sì darebbe il via a una depressione a tempo indeterminato. Forse a un paese senza più risorse, che ha venduto tutto e costretto i suoi giovani a emigrare, alla fine il debito sarebbe condonato. Forse, dopo essersi ridotta a un’economia a medio reddito, alla fine Atene otterrebbe l’aiuto della Banca mondiale. Tutto questo potrebbe succedere nei prossimi dieci anni, o forse nel decennio successivo.
Una vittoria del no, invece, darebbe almeno alla Grecia, con la sua lunga tradizione democratica, la possibilità di riprendere in mano il suo destino. I cittadini avrebbero l’opportunità di costruirsi un futuro che forse non sarebbe prospero come il passato, ma sarebbe molto più carico di speranza dell’insopportabile tortura del presente. Io so già come voterei.

Io sto con Tareke. E ho firmato.

21 Apr

Tareke Brhane mi ha scritto la lettera che segue. Dopo averla letta non ho potuto far altro che firmare l’appello di Change che trovate qui. Firmate anche voi.
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Mi chiamo Tareke Brhane e sono Presidente del Comitato 3 Ottobre, organizzazione no profit fondata all’indomani del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando 368 persone morirono nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Sono fuggito dal mio paese a 17 anni per evitare la coscrizione a vita. Nel mio viaggio ho subito la violenza e la prigionia, ho rischiato di morire, sono stato respinto al primo tentativo di attraversare il Mediterraneo, ma alla fine sono riuscito a raggiungere l’Italia. Con il Comitato 3 Ottobre mi batto per ottenere l’istituzione di una Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, da celebrare simbolicamente ogni 3 ottobre a livello nazionale ed internazionale. L’obiettivo è restituire dignità ai migranti che hanno perso la vita, ma anche onorare le persone che hanno rischiato la propria vita per soccorrerli e creare un momento di riflessione condivisa che permetta una reale cultura dell’accoglienza.

Immigrazione: sbarcati cinquantina migranti a Lampedusa
La prima cosa che penso quando apprendo di un nuovo naufragio è cheho avuto la fortuna di vivere un’altra vita. Allo stesso tempo mi assale una profonda tristezza nel vedere queste persone che continuano a morire per cercare di mettersi in salvo. Ho deciso di abbandonare la mia patria, l’Eritrea, perché non avevo scelta: parliamo di un Paese dove c’è una dittatura feroce da tanti anni. Allo stesso modo tutte quelle persone che vediamo fuggire e arrivare in Italia a bordo di un barcone di fortuna lo fanno perché sono disperati, perché non hanno alternative. Non smetteranno di continuare a partire, neanche la paura della morte potrà mai fermarli.

L’Europa non può continuare a contare le vittime stando a guardare. Queste non sono stragi inevitabili. Chiediamo l’avvio urgente di attività di ricerca e di soccorso in mare su ampia scala e l’apertura di vie legali per garantire un accesso sicuro all’Europa a chi fugge da conflitti e persecuzioni. Per evitare che un viaggio di speranza si trasformi in un viaggio di morte.

L’incidente del 18 aprile rappresenta la più grande perdita di vite umane mai verificatasi nel Mar Mediterraneo.
Purtroppo è solo uno dei tragici episodi che periodicamente insaguinano il Mediterraneo: solo la scorsa settimana in un incidente simile avevano perso la vita 400 persone, nell’ottobre 2013 il disastro di Lampedusa vide quasi 600 morti in due incidenti.

Complessivamente nel corso del 2014 circa 219.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo e ben 3.500 migranti vi hanno perso la vita.

Questa ennesima ecatombe conferma l’urgenza di ripristinare un’operazione di salvataggio in mare e di stabilire vie legali per raggiungere l’Europa, nell’ambito di un progetto comunitario a lungo termine.

L’Europa tra la sfida greca e l’orgoglio tedesco

5 Feb

Quello che mi impressiona maggiormente, oltre al brutale atteggiamento nei confronti della Grecia, è l’apparente assoluta noncuranza dei vertici tedeschi verso lo spirito dell’unione europea e la disinvoltura con cui dimenticano la generosa disponibilità dei vincitori all’indomani della conclusione della seconda guerra mondiale. Sommando quello della prima, la Germania aveva accumulato un debito di guerra pari a oltre 23 miliardi di dollari del tempo, praticamente l’intero suo PIL. Eppure pochi anni dopo, nella Conferenza internazionale di Londra del 1953, le fu condonato ben il 50% del debito e l’altra metà dilazionata in trent’anni. Queste furono le condizioni che consentirono la ripresa ai tedeschi sconfitti in due guerre mondiali. E più recentemente ci fu un’altra occasione di cui la Germania dev’essere grata alle altrw nazioni:  come ha ricordato il Sole-24ore

“L’altro 50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l’eventuale riunificazione delle due Germanie. Ma nel 1990 l’allora cancelliere Helmut Kohl si oppose alla rinegoziazione dell’accordo che avrebbe procurato un terzo default alla Germania. Anche questa volta Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il dovuto. Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con il pagamento dell’ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro. Senza l’accordo di Londra, la Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per altri 50 anni.”

Infatti i progressisti tedeschi condannano duramente l’atteggiamento della Merkel e le sue politiche di “euroegoismo”: tra essi l’ex-ministro degli esteri tedesco, Joshua Fischer. Nel libro appena pubblicato,   dopo aver ricordato come la Germania abbia ampiamente beneficiato della generosità altrui quando ne ha avuto bisogno, Fischer aggiunge: «Né Schmidt e né Kohl avrebbero reagito in modo così indeciso, voltandosi dall’altra parte come ha fatto la cancelliera. Avrebbero anzi approfittato della impasse causata dalla crisi per fare un altro passo avanti verso l’integrazione europea. La Merkel così distrugge l’Europa».

Pare quasi, invece, che oggi la Germania voglia prendersi una rivincita:  non certo verso gli USA e l’Inghilterra, ma vigliaccamente verso i paesi più deboli del Sud Europa, prima fra tutti la Grecia. La decisione resa nota oggi di Draghi di non accettare più titoli di stato di Atene per ottenere liquidità dalla Banca centrale europea fa infatti pensare più a una conseguenza delle forzature di Schauble, l’attuale ministro delle finanze tedesco, che non a una decisione autonoma. Certo, non siamo ancora all’ultimo atto, come ben spiega Repubblica qui, ma nuove nuvole nere si addensano, oltre che sulla Grecia, sui paesi più esposti al rischio di una ripresa ancora lontana , tra cui l’Italia. La tracotanza, la convinzione di una perenne invincibilità, l’arrogante esibizione della strapotenza, risvegliano i lontani ricordi delle condizioni (e dei pericoli) in cui il mondo si ritrovò giusto un secolo fa. Qualche pessimista potrebbe anche affermare  di essere quasi all’antivigilia di una guerra mondiale economica che seppure incruenta farebbe comunque le sue vittime, travolgendo di certo e inevitabilmente – nonostante la sicumera esibita –   la stessa Germania e lasciando aperta la porta alle malsane pulsioni nazionaliste che si accendono qua e là nel becchop continente.

Eppure, non si deve cedere al pessimismo. Tra ideali, buon senso e (perché no?) interessi, una via di mezzo che porti a una soluzione accettabile da tutte le parti  è senz’altro possibile. Per ora siamo ancora all’esibizione muscolare: il ministro delle Finanze greco, Varoufakis, ha fatto presente al suo omologo Schauble che tra tutti i Paesi europei “la Germania sia quello che possa capire meglio che quando si umilia troppo a lungo una nazione orgogliosa, senza far intravedere la luce alla fine del tunnel, questa nazione prima o poi va in turbolenza”. Non era una minaccia, ma un invito a ricordare le passate tragedie della Germania e quindi anche le mani amiche che l’aiutarono.  Un messaggio che non potrà non essere raccolto per il bene comune, l’Europa, di tutti noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se la Francia e l’Italia…

28 Gen

A fronte dell’accordo segreto per cui la Grecia comincerà a restituire il suo debito tra cinque anni e finirà nel 2057, resta l’esigenza vitale per il nuovo governo di Atene di investire fin da oggi nella ripresa. Ma non può certo farlo con il limite blindato del 2% al deficit ed ecco Tsipras dichiarare che non riconoscerà gli accordi di Samaras.

Con un grazie a Nando Longoni per la segnalazione.

Con un grazie a Nando Longoni per la segnalazione.

Con la consueta chiarezza Thomas Piketty ha illustrato oggi su Repubblica cosa dovrebbero fare Francia e Italia: “rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro“. Come? Lo spiega più avanti: “Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso“.
Ha ragione, come ha ragione nel mettere in guardia dalla speranza che l’azione della BCE possa risolvere tutti i problemi: “La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo“.
L’altro costante pericolo è il feticcio del 3% di deficit rispetto al PIL. Piketty punta nuovamente il dito – come la Mazzuccato e molti altri autorevoli economisti – su questo assurdo limite che nega qualsiasi elastità di manovra ai singoli stati in difficoltà: “Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove“. Questo (nuove regole) è quanto si è ripromesso di fare Tsipras e su questo Italia e Francia, per cominciare,  dovrebbero dare un sostanziale contributo.

Ora tutti uniti contro l’austerità
la sinistra europea riparta da Syriza

di Thomas Piketty
L TRIONFO elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale.

Concretamente, queste forze politiche dovrebbero approfittare dell’occasione per dire con voce alta e forte che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento, e per mettere sul tavolo nuove proposte, tali da consentire una vera rifondazione democratica della zona euro. Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove.

Per essere chiari: a partire dal momento in cui si condivide una stessa moneta, è più che giustificato che la scelta del livello di deficit, così come gli orientamenti generali della politica economica e sociale, siano coordinati. Semplicemente, queste scelte comuni devono essere fatte in modo democratico, alla luce del sole, al termine di un dibattito pubblico e con contraddittorio. E non applicando regole meccaniche e sanzioni automatiche, che dal 2011-2012 hanno prodotto una riduzione eccessivamente rapida dei deficit e una recessione generalizzata della zona euro. Risultato: la disoccupazione è esplosa mentre altrove scendeva (sia negli Stati Uniti che nei Paesi esterni all’area dell’euro), e i debiti pubblici sono aumentati, in contraddizione con l’obbiettivo proclamato. La scelta del livello di deficit e del livello di investimenti pubblici è una decisione politica, che deve potersi adattare rapidamente alla situazione economica. Dovrebbe essere fatto democraticamente, nel quadro di un Parlamento dell’Eurozona in cui ogni Parlamento nazionale sarebbe rappresentato in proporzione alla popolazione del rispettivo Paese, né più né meno. Con un sistema del genere, avremmo avuto meno austerità, più crescita e meno disoccupazione. Questa nuova governance democratica consentirebbe anche di riprendere in mano la proposta di mettere in comune i debiti pubblici superiori al 60 per cento del Pil (per condividere lo stesso tasso di interesse e per prevenire le crisi future) e istituire un’imposta sulle società unica per tutta la zona euro (il solo modo per mettere fine al dumping fiscale).

Purtroppo, oggi il rischio è che i governi di Francia e Italia si accontentino di trattare il caso greco come un caso specifico, accettando una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro. Perché? Perché hanno passato un mucchio di tempo a spiegare ai loro cittadini che il trattato di bilancio del 2012 funzionava, e oggi sono reticenti a ritrattare quanto detto. E quindi vi spiegheranno che è complicato cambiare i trattati, anche se nel 2012 gli bastarono sei mesi per riscriverli, e anche se è evidente che nulla impedisce di prendere misure di emergenza in attesa che entrino in vigore nuove regole. Ma farebbero meglio a riconoscere gli errori finché sono in tempo, piuttosto che aspettare nuovi scossoni politici, stavolta dall’estrema destra. Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso.

Tutto dipenderà anche dall’atteggiamento dei socialisti spagnoli, attualmente all’opposizione. Meno falcidiati e screditati dei loro omologhi greci, devono tuttavia accettare il fatto che faranno molta fatica a vincere le prossime elezioni senza allearsi con Podemos, che stando agli ultimi sondaggi potrebbe perfino arrivare al primo posto.

E non dobbiamo pensare, soprattutto, che il nuovo piano annunciato dalla Bce basterà a risolvere i problemi. Un sistema di moneta unica con 18 debiti pubblici e 18 tassi di interesse diversi è fondamentalmente instabile. La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo. Oggi la priorità dell’Europa dovrebbe essere investire su innovazione e formazione. Per fare questo c’è bisogno di un’unione politica e di bilancio della zona euro più stringente, con decisioni prese a maggioranza all’interno di un Parlamento autenticamente democratico. Non si può chiedere tutto a una Banca centrale.

Renzi come Tsipras? Sì, magari.

26 Gen

A poche ore dalla schiacciante vittoria di Tsipras, a leggere e sentire i commenti dei soliti giornalisti reggicoda e di molti sostenitori di Renzi, di comodo e in buona fede, si avverte una certa ansia nel cercare frettolosamente punti di contatto tra il nostro Presidente del Consiglio e il coraggioso leader greco. Tempo sprecato. Cosa pensa davvero Tsipras di Renzi è ben sintetizzato nel suo libro di prossima uscita, anticipato in un articolo di Luca Sappino  su l’Espresso:

«Renzi presenta un forte dualismo, è come se si trattasse, quasi, potremmo dire, di una personalità scissa». A parlare è Alexis Tsipras, leader di Syriza, il partito della sinistra greca che i sondaggi ancora oggi, a pochi giorni dalle elezioni, indicano come vincitore e primo partito del paese.
«Per metà, in Europa, il suo profilo deve essere quello di un leader che rivendica una prospettiva diversa da quella dell’austerità e del patto di stabilità, visto che stanno strozzando anche l’Italia», sono le parole di Tsipras, su Matteo Renzi, raccolte nel libro di Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, la mia Sinistra” (edizioni Bordeaux), in libreria da martedì, con la prefazione di Stefano Rodotà: «L’altra metà del profilo, tuttavia, è quello di un politico che avanza come un’asfaltatrice, allo scopo di imporre le riforme neoliberiste all’interno del paese, nella riorganizzazione produttiva e la liberalizzazione dell’economia, misure dalle quali, ovviamente, può trarre giovamento solo l’elite con le lobby economiche».
Il giudizio quindi è severo, al netto di alcune aperture diplomatiche. Se da una parte Tsipras cerca di scrollarsi di dosso la nomea di nemico pubblico numero uno dell’Europa unita, dall’altra ha ben chiaro cosa dovrebbe fare, e non fa, il premier italiano, tra semestre europeo e rapporto con Angela Merkel.
Per fortuna Tsipras mostra quindi – a differenza di Renzi nella sua incolore presidenza europea –  di avere le idee molto chiare, quelle stesse esposte nel suo programma, e non avrà timori reverenziali nel confrontarsi con la Merkel e Bruxelles. Ne va del futuro del suo paese e lui ne è ben consapevole, sente – diversamente da altri pseudoleader – la responsabilità del ruolo che riveste e delle speranze degli europei che ancora attendono la realizzazione del sogno di Altiero Spinelli di un’Europa aperta, generosa, che guardi oltre gli angusti confini dati dagli interessi di pochi forti a danno di milioni di deboli non per loro colpa ma vittime della grettezza, della miopia e dell’egoismo.

Quindi l’augurio è oggi, ben più solido, lo stesso che rivolgevo solo tre giorni fa nel titolo di un post:

La vecchia Europa, la nuova Grecia, la nuova Europa

E per questa volta scusate l’autocitazione. 🙂

La vecchia Europa, la nuova Grecia, la nuova Europa

23 Gen

L’analisi del voto nella seconda tornata delle elezioni del 2012 in Grecia accreditava a Nuova Democrazia, il partito conservatore vincente col 30%, il 37% degli ultracinquantenni e il 22,7 degli under 50. Syriza, la coalizione di sinistra guidata da Alexis Tsipras giunta seconda col 27%, registrò l’esatto contrario: rispettivamente 23% e 32,8%.  Solo due anni dopo, alle elezioni europee del 25 maggio 2014, Syriza si afferma come il primo partito in Grecia col 26% dei voti; Nuova Democrazia scende al 22% e la destra estrema di Alba Dorata al 9%.

Alle prossime elezioni di domenica 25 gennaio, gli ultimi sondaggi danno in media Syriza vincente con una percentuale che sfiora il 35%, i conservatori al 30%, la destra estrema di Alba Dorata al6% e To Potami (il Fiume, il nuovo partito dei socialdemocratici fondato dal giornalista Theodorakis) a circa il 7%. Il Pasok, il partito socialista di Papandreu che aveva guidato il paese nella crisi del 2008, si è praticamente dissolto, precipitando a uno scarso 6%. L’ago della bilancia, che potrebbe assicurare a Tsipras il premio di maggioranza in Parlamento consistente in 50 seggi, è dato dagli indecisi, quotati all’11%.

Come si è arrivati fin qui? Bisogna rileggere gli avvenimenti che si sono tumultuosamente succeduti in Grecia dal 2008 ad oggi e devo ringraziare Valigia Blu per questa interessante sintesi di quel periodo; utile anche la cronistroria di Ettore Livini su Repubblica. Il punto focale di questo periodo resta comunque la nascita e l’inarrestabile evoluzione di Syriza e le ragioni possono essere essenzialmente due.

Syriza (l’acronimo in greco di Coalizione della Sinistra Radicale), che raggruppa una dozzina di partiti della sinistra radicale e ambientalisti, nasce nel 2006 sotto la guida di Alexis Tsipras. La sua strategia politica, basata sul rapporto diretto con gli elettori, gli fa raggiungere il 10,5 per cento dei voti, ma è con lo scoppio della crisi del 2009 che si pongono le solide basi che proietteranno la nuova formazione politica. Syriza apre un dialogo con i movimenti della società civile, svolgendo – come ricorda Rodotà – “un lavoro effettivo nel sociale dove ha garantito ai cittadini diritti e servizi grazie a pratiche di mutualismo: penso alle mense e alle cliniche popolari, alle farmacie e alle cooperative di disoccupati“. Non un partito distante dalla gente quindi, ma un movimento immerso nel quotidiano dei singoli, che ne vive i problemi pratici e aiuta a risolverli. In più, come giustamente afferma Leonardo Bianchi, diventa “l’unico interlocutore credibile delle generazioni più giovani, le cui prospettive sono state fatte a pezzi dalla crisi economica. E la questione generazionale – in un paese in cui i partiti tradizionali sono delle specie di gerontocrazie che si rivolgono solo agli ultracinquantenni – giocherà un ruolo fondamentale in queste elezioni“.
Tsipras 3
L’altro motivo va ricercato nell’opposizione frontale di Tsipras alla brutale austerity che la Troika impose alla Grecia e nelle argomentate soluzioni che propone. In sintesi, Tsipras conferma il programma che aveva già esposto alle elezioni europee dell’anno scorso: “Questa non  è la nostra Europa. È solo l’Europa che vogliamo cambiare. Al posto di un’Europa piena di paura della disoccupazione, della disabilità, della vecchiaia e della povertà; al posto di un’Europa che ridistribuisce i guadagni ai ricchi e la paura ai poveri; al posto di un’Europa che serve le necessità dei banchieri, vogliamo un’Europa al servizio dei bisogni umani”.

In un’intervista all’Huffigton Post greco, riportata da Polisblog, Tsipras aggiunge  che Siryza intende applicare il Programma di Salonicco indipendentemente dal negoziato con i suoi finanziatori e adotterà una serie di azioni mirate per contenere la crisi umanitaria, con la giustizia fiscale e un piano di rilancio dell’economia. Syriza punta ad attuare riforme radicali del modus operandi dello Stato nel settore pubblico per “cambiare tutto ciò che ha spinto il Paese sull’orlo di una bancarotta economica, ma anche morale“. Parlando quindi dell’euro, Tsipras afferma che Syriza non ne vuole il crollo ma il salvataggio, ma sarà impossibile riuscirvi finché il debito pubblico degli Stati membri sarà fuori controllo in quanto questo problema  non è solo greco ma europeo e dunque è l’Europa nel suo insieme che è in debito e che deve cercare una soluzione sostenibile.

“Syriza e la Sinistra Europea sostengono che nella cornice di un accordo europeo, la stragrande maggioranza del valore nominale del debito pubblico debba essere cancellata; bisognerà imporre una moratoria sulla sua restituzione, e bisognerà introdurre una clausola per la crescita che si occupi della parte rimanente del debito, così da poter impiegare le rimanenti risorse per la crescita.”

Scrive Luca Passoni  che “il programma economico della coalizione guidata da Alexis Tsipras – cuore  della sua proposta alla Grecia “post-crisi” – anzitutto punta sulla richiesta Ue di saldo primario positivo per il 4% per i prossimi anni e a rinegoziare invece il valore nominale del debito pubblico (oggi pari al 170% del Pil). Sui mercati finanziari gode di un certo consenso la prospettiva che l’eventuale negoziato con la “troika” (Ue, Bce, Fmi) possa essere questa volta più duro che in occasione della “prima crisi greca”: oggi l’impatto sistemico del debito greco (verso il sistema bancario, a cominciare da quello tedesco) è enormemente ridotto rispetto al periodo 2010-2012. La situazione finanziaria appare quindi relativamente tranquilla per il resto dell’eurozona. Visto però che l’ambiente politico europeo è in evoluzione (crescono di peso i partiti euroscettici), le conseguenze politiche di difficoltà negoziali con la Grecia potrebbero essere maggiori che in passato”. Tuttavia, prosegue l’articolo “La durezza del negoziato con la “troika” attesa sulla base di considerazioni esclusivamente finanziarie potrebbe essere ammorbidita dalle considerazioni legate all’evoluzione del mondo politico (il cancelliere tedesco Angela Merkel vorrà affrontare in termini risoluti solo Syriza, nel sud dell’Europa, o terrà conto del comportamento di Alternative fuer Deutschland e di Pegida a Berlino?).

Un ampio e dettagliato stralcio del programma economico di Tsipras lo potete trovare, oltre che nell’intervista a Nadia Valavani, responsabile esteri di Syriza, qui su Repubblica: oltre a quanto già detto,  fa perno da una parte su una serie di misure volte ad alleviare le sofferenze della parte più debole della popolazione, dall’energia gratis a un bonus extra per le pensioni minime, dall’altra su manovre e riforme strutturali, inclusa una feroce e implacabile lotta all’evasione fiscale.

Sia come sia, per concludere c’è da concordare con Leonardo Bianchi sempre su Valigia Blu: “in questa tornata elettorale, tuttavia, Syriza si presenta come una formazione politica matura, che in questi ultimi tre anni ha lavorato moltissimo sulla propria struttura e sulle sue posizioni”. La vittoria di Tsipras può davvero aprire una nuova prospettiva per l’Europa, con una sinistra rafforzata anche dalla crescita del movimento  di Podemos in Spagna – che stando agli attuali sondaggi alle prossime elezioni potrebbe anche raccogliere il 30% dei voti.
Alla vecchia e gretta Europa legata ai suoi privilegi e ai propri interessi, la nuova Grecia della solidarietà al primo posto può quindi portare davvero un’aria nuova, l’aria  fresca e pulita della nuova Europa.

 

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