In questi giorni che l’Olanda è venuta – non positivamente – alla ribalta, ho trovato questo articolo di Torquato Cardilli molto chiaro ed eloquente: evidenzia una delle maggiori contraddizioni di questa Europa, ben diversa da quello che vorremmo e che – soprattutto – sognavano i padri del Manifesto di Ventotene. Parliamo di elusione fiscale e della necessità vitale di avere in Europa un’unione fiscale.
Nel 2017 Franco Gallo scriveva sul Sole24ore : “Allo stato attuale, abbiamo perciò un quadro molto variegato e disorganico di regimi e di criteri di determinazione della base imponibile, nonché di aliquote nei diversi Paesi comunitari, suscettibili di creare distorsioni e discriminazioni e, di conseguenza, di fomentare comportamenti opportunistici da parte sia degli Stati che dei singoli contribuenti.“
Nella classifica degli 11 maggiori paradisi fiscali nel mondo, 6 si trovano in Europa: Irlanda, Svizzera, Malta, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Salta subito all’occhio che le ultime tre nazioni sono parte integrante dell’Unione europea.
Incidentalmente, c’è da notare che Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea dal 2014 al 2019, era stato fino al 2013 primo ministro del Lussemburgo e fautore di una politica fiscale di favore per i redditi societari. Tanto di favore che secondo una ricerca del FMI un paese di 600.000 abitanti ha potuto raccogliere 4000 miliardi di dollari di ‘investimenti fantasma’. Poteva l’Europa, con cotanto Presidente, intraprendere la ricerca di un percorso per giungere un giorno ad un’unione fiscale?
Intendiamoci: quello dell’elusione fiscale è un problema mondiale. Come ha ben riportato Tommaso Carboni su Forbes solo pochi giorni fa: “le multinazionali spostano nei paradisi fiscali [del mondo] il 40% dei loro profitti, e fanno incassare ai governi circa 500-600 miliardi di dollari di tasse in meno, ci dice il Fondo Monetario Internazionale, a cui si aggiungono perdite di circa 200 miliardi di imposte sui redditi individuali.” Parlando dell’Olanda, aggiunge che: “un’indagine della rete di esperti fiscali Tax Justice Network, che utilizza dati pubblicati quest’anno negli Stati Uniti relativi ai profitti delle società americane in Europa, dimostra che queste società nel 2017 hanno spostato 44 miliardi di dollari di utili nel paradiso fiscale olandese, dove le aliquote delle tasse societarie sono inferiori al 5 per cento.”
E l’Italia quanto è vittima di questo perverso meccanismo? Ecco la risposta di Carboni, che si poggia su attente ricerche: “Dall’Italia fuggono (e in gran parte sono diretti verso Paesi europei a bassa tassazione) un po’ più di 17 miliardi di euro di profitti aziendali. Vuol dire per lo Stato italiano raccogliere ogni anno sei miliardi di euro in meno di tasse.” Francia e Germania perdono a loro volta rispettivamente 9,5 e 14 miliardi. Infatti il ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire,ha recentemente dichiarato che: “Dobbiamo affrontare il fatto che le più grandi aziende del mondo realizzano enormi profitti in Europa e in tutto il mondo senza pagare il giusto livello di tassazione perché non hanno alcuna presenza fisica”.
Ma è possibile ipotizzare una quasiasi forma di armonizzazione fiscale nell’Unione? Difficile cambiare le regole: le lobbies dei colossi multinazionali lavorano bene a Bruxelles. E poi oggi serve ancora l’unanimità: “Anche solo un Paese può bloccare qualsiasi forma di accordo. L’anno scorso è stata respinta una proposta comunitaria che avrebbe costretto le multinazionali a dichiarare quanti profitti realizzano e quante tasse pagano in ciascuno dei 28 Stati membri. Tutti gli Stati con regimi fiscali agevolati hanno votato contro.
La speranza è rappresentata dall’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che “sta provando a cambiare le regole. Il piano è imporre una tassa minima globale, e poi far pagare le multinazionali dove realizzano le vendite, anziché dove registrano le filiali. Questo farebbe crescere le entrate fiscali, almeno nei paesi dell’Ocse, di cento miliardi di dollari l’anno. L’ideale, dopo trattative durate anni, è raggiungere un accordo a giugno, e poi avere l’endorsement del G20 per la fine dell’anno. Chissà, forse il trauma della pandemia potrebbe addirittura facilitare l’intesa.“
Speriamo.
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