Nonostante i chiarimenti dell’interessato che si affanna a dare altre e variegate interpretazioni della sua sciagurata decisione, l’ego ipertrofico di Renzi resta la prima – se non l’unica – spiegazione. Un ego che trasuda superbia e presunzione, l’ambire a essere costantemente, a torto o a ragione, protagonista. Anni fa Trilussa aveva causticamente e sinteticamente così bollato quelli come lui.
La lumaca La Lumachella della Vanagloria Ch’era strisciata sopra a n’obbelisco Guardò la bava e disse: – Già capisco Che lascerò un’impronta ne la Storia.
È il titolo di un film del 1977 di Mario Monicelli, molto applaudito e premiato, tratto da un libro di Vincenzo Cerami. Narra la storia di un modesto impiegato – uno straordinario Alberto Sordi – e della sua feroce vendetta contro il colpevole della morte del figlio. Come scrisse la critica dell’epoca, il film rappresentò «una pietra tombale sulla commedia all’italiana», «una commedia incarognita dal fatto di dover fare i conti con tempi in cui è sempre più difficile vivere».
Mi pare ci sia un parallelo con l’oggi: sulla scena c’è un altro borghese piccolo piccolo, meschino quanto cinico, arrogante quanto ambizioso. Renzi ha cercato nella scissione dal Partito democratico la sua vendetta contro gli eventi che l’hanno condotto a un ruolo di comprimario, dimenticando che sono stati i suoi errori a ridurlo a rottamatore di sè stesso. La sua bulimia di protagonismo gli ha fatto intravedere un nuovo ruolo: quello di ago della bilancia del governo Conte, anteponendo il suo personale interesse al bene di quell’Italia che tanto spesso – a parole – ha detto di amare. E, dichiarando sfrontatamente che la scissione è fatta ‘per combattere Salvini’, cerca infantilmente un alibi; ma la verità è che anche lui ha cercato pieni poteri con una riscrittura della Costituzione che avrebbe condotto a una disastrosa deformazione della Carta e dello Stato democratico.
Renzi è vittima inconsapevole di tempi e momenti molto più grandi di lui. Se, invece di lasciarsi trascinare dal suo gigantesco ego, avesse l’umiltà di fermarsi un attimo a ragionare, capirebbe che questo è il momento dell’unità, della raccolta delle forze e delle intelligenze, di stare tutti spalla a spalla per respingere l’attacco brutale di una destra incolta, violenta, pericolosa. Ma non ne è capace e questo è il suo limite, quello che non ne fa un politico ma un politicante, solo un po’ più furbo di molti altri.
Come nasce un capolavoro? A volte solo da una sensazione, un momento vissuto con un’intensità che colpisce l’artista. Così è stato per quella che è una delle più belle poesie di tutti i tempi (almeno per me). In una lettera del 1820 indirizzata all’amico Pietro Giordani, Giacomo Leopardi confidava quello stato d’animo che sarà poi uno dei nuclei tematici della Sera del dì di festa:
«Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi faceano così beato non ostante i miei travagli.»
LA SERA DEL DÌ DI FESTA
Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, ché t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme nego, mi disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già ch’io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi in cosí verde etate! Ahi! per la via odo non lunge il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dí festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorío che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto, che s’udía per li sentieri lontanando morire a poco a poco, già similmente mi stringeva il core.
Del nuovo governo Conte – il bisConte, come lo chiamo io – si è detto tutto, o quasi. Resta solo da vederlo all’opera e, per il bene dell’Italia tutta, augurargli il meglio possibile. Per quel che mi riguarda, rinvio a questa foto che ho trovato in Rete e che mi pare rappresenti bene il mio attuale stato d’animo.
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