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Il PD impresentabile che respingo

28 Mar

Eccolo qui, lo disegna con l’usuale eleganza Francesco Merlo oggi su Repubblica. E so che non sono il solo.
Mi piacerebbe sapere dal  presidente Orfini, che ha parlato sì di un PD ‘respingente’ ma prendendosela coi militanti romani anziché coi vertici locali e del nazionale che tutto sapevano e tutto hanno tollerato, quanto consideri invece ‘attraente’ questo Pd napoletano, ligure, siciliano, laziale, campano, genovese, sardo, eccetera, eccetera, eccetera..

Candidabili e no. Le morali del Pd

di FRANCESCO MERLO

O LE DIMISSIONI del ministro Lupi diventano codice d’acciaio, oppure finiranno per essere archiviate come la punizione del perdente, l’amputazione della parte politica più esposta. E possiamo permetterci di dirlo noi che abbiamo alzato la voce in nome della politica e non del codice penale. E infatti Lupi, che non era indagato, è stato costretto a dimettersi. C’è invece nel Partito democratico una combriccola di indagati e di condannati che resiste. E c’è una tribù di mascalzoni politici che Renzi finge di subire ma che in realtà premia con la strategia gommosa della dissimulazione onesta.

Se consentiamo di stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni  –  dice Renzi  –  diamo per buono il principio per cui qualsiasi giudice può iniziare un’indagine e decidere sul potere esecutivo”. Ma l’idea opposta, e cioè che la politica possa annullare le ragioni della giustizia, non è garantismo. È impunità. Come se il partito avesse il potere medievale di rendere innocente un colpevole e viceversa. Insomma più che al Montesquieu illuminista di Renzi questa schiuma rimanda al dosaggio dei veleni, al potere come saga dei Borgia e ai fabbricatori di dossier: “Riservato per il Duce”. Mussolini archiviava le informative sui nemici e soprattutto sugli amici che tanto più gli erano fedeli quanto più erano ricattabili. Erano, per dire, insospettabili i toscani Wladimiro Fiammenghi e Alfredo Peri e il modenese Graziano Pattuzzi coinvolti nel sistema Incalza.

E però ci sono i crani di Lombroso nel Pd romano contagiato da Mafia capitale sino ad Ostia Antica. “È pericoloso e dannoso” ha scritto Fabrizio Barca. Ma come sempre è il sole allo zenit che meglio rovescia i luoghi comuni. Leggete cosa ha scritto ieri su Facebook Claudio Fava che, della lotta alla mafia è il testimone più limpido e fiero: “Perché il Pd non candida a sindaco di Enna Mirello Crisafulli (prosciolto) e candida a presidente della Campania Vincenzo De Luca (condannato)? Perché ritiene impresentabile Crisafulli e si tiene al governo quattro sottosegretari indagati?”. I quattro sono Francesca Barracciu e Davide Faraone, e poi Filippo Bubbico e Vito De Filippo. Nella mancanza di regole anche la buona notizia del proscioglimento del quinto, Basso De Caro, aggroviglia il nodo. La domanda chiave rimane infatti quella di Fava su Crisafulli, al quale sarebbe stata inflitta “una porcata”. E certo Fava può permetterselo perché contro Crisafulli ha speso metà della sua vita politica: “Gli si rinfaccia questa sua esuberanza gogoliana, la panza e l’effervescenza del temperamento… Lo si considera adatto a fare il segretario provinciale del partito ma inadatto a candidarsi a sindaco”.

Per la verità nessuno ci obbliga a scegliere tra Crisafulli e De Luca. E l’indecenza politica, anche se assolta penalmente, rimane indecenza. Anzi, dal punto di vista amministrativo, De Luca ha fatto di Salerno una delle più vitali e solari città del Sud. Come Fava mi insegna, il notabile De Luca è la versione salernitana del siciliano Crisafulli, e anche dei notabili Tosi e Bitonci, e Formigoni e Lupi. La differenza? È in nome della sinistra che De Luca e Crisafulli mettono se stessi al di sopra di tutto, anche loro unti del Signore. Scrive ancora Fava introducendo l’argomento trans gender: “Posso dirvi che mi sembra cento volte più impresentabile e pernicioso un campione dell’antimafia dei pennacchi come Crocetta, col suo circo di turibolanti che lo protegge?”. E si capisce qui che solo nel cerchio dannato della Sicilia, dove un’antimafia indaga su un’altra antimafia, si poteva arrivare all’incappucciato di Forza Italia, Silvio Alessi, che ad Agrigento ha vinto a man bassa le primarie del Pd, con visita di rispetto a Berlusconi ad Arcore del presidente regionale dello stesso Pd Marco Zambuto.

Ovviamente sono state cancellate queste prime primarie transgeniche, un vero mostro di verità che, come sempre dalla Sicilia, illumina il labirinto-Italia. E infatti si capiscono meglio anche le primarie annullate a Napoli e quelle impiastricciate ma confermate a Genova nonostante la denunzia di Cofferati e la forza delle prove. Raffaella Paita, moglie del presidente dell’autorità portuale (meglio non farsi mancare nulla in famiglia) è rimasta in sella, ma il suo avversario Luca Pastorino non ha riconosciuto la vittoria e si è candidato anche lui a governare la Liguria. Un pasticcio? Nulla esprime meglio il “pasticcio Pd” di quel prosciolto Crisafulli condannato dal partito e di quel condannato De Luca prosciolto dal partito perché controlla tantissimi voti con l’aria guappa del boss del Mediterraneo. Ecco: più grave della protervia del condannato c’è la complicità del Pd con il reo: “È il nostro candidato. Tocca a lui sconfiggere il centrodestra”, ha detto ieri Luca Lotti. Ma tutti sanno che, appena eletto, De Luca dovrebbe subito dimettersi per poi sperare in un ricorso e in un reintegro. Diceva Giuseppe Tatarella: “‘Mbroglio aiutami tu”. E va bene che Napoli rende possibile anche l’impossibile e solo al sud la sinistra non è più obbligata a somigliare alla sinistra, ma la doppia resistenza alla legge, quella del sindaco De Magistris, che pure fu uomo di legge, e quella del futuro governatore De Luca, che almeno uomo di legge non è stato mai, potrebbe ben presto fare della Campania il laboratorio del lazzaronismo di sinistra, una sorta di Venezuela d’Italia, la fortezza dei descamisados. Insomma, tutto il contrario della rivoluzione renziana, l’opposto della Leopolda. Altro che tablet, twitter e iPhone. Qui è il Pd che torna al gettone telefonico e ai cannoli.

Ideali e strategie, politica ed etica

1 Feb

 

 

C’è tutto questo nel post di Alessandro Gilioli. Gli ideali che ci sostengono e le strategie – di comodo o partecipate – la politica bella e quella indecente, l’etica e gli interessi personali. Apprezzo e ammiro l’uomo e il giornalista per la sua sincera dedizione alle idee e al mestiere: se facesse politica, sarebbe solo per pura passione e generosità. Più che un post, il suo è un appello che non deve rimanere inascoltato, specie di questi tempi. E non lo sarà.

n.b. Il neretto è mio.

Ideali, sangue e merda

Da ragazzo feci un esame su Ferruccio Parri, il primo presidente del Consiglio dopo la Liberazione. Partigiano e azionista, intriso di quella rigida moralità piemontese che ha dato tanti bei nomi all’Italia, da premier dormiva su una branda, in ufficio. Aveva un’anima in cui c’era posto solo per la sua missione. Era non solo incorruttibile, ma anche alieno ai compromessi poco nobili. Democristiani e comunisti lo fecero fuori con una specie di putsch, nel dicembre del 1945. Alcide De Gasperi prese il suo posto, dando inizio a quel quarantennio e passa di dominio democristiano i cui frutti ancor oggi vediamo, ad esempio al Quirinale. Parri morì vecchissimo e completamente dimenticato.


Negli scorsi due anni ho conosciuto diversi parlamentari pentastellati. Sono quasi tutti idealisti. Non tutti, ma quasi sì. Cioè con degli ideali forti, per i quali si sono messi a fare politica. Convinti di poter cambiare radicalmente il Paese. Convinti di mettersi al servizio di un buon progetto. Credendo nella loro missione. A volte con una moralità da montagnardi, più che da giacobini.

Negli ultimi giorni la storia di questo Paese ha dimostrato, per l’ennesima volta, che in politica per ottenere qualcosa gli ideali non bastano. Bisogna sapere anche fare strategia. Scegliere i tempi giusti. Manovrare le leve che muovono qualcosa. Aprire e chiudere porte. Il mandato morale, anche se c’è, non basta. Anzi non serve. E in politica, se non si serve a qualcosa, è come non esserci. Come non essere mai stati eletti.

Matteo Renzi è invece uomo privo di ideali. È un contenitore di ambizioni smisurate e di narcisismo illimitato, all’interno del quale può passare di tutto, purché serva: l’antiberlusconismo e il Nazareno, la sinistra e la destra, la sottomissione al Vaticano e i diritti civili, l’asfaltamento degli avversari o il loro ripescaggio, gli accordi e il loro tradimento. Per questo Berlusconi diceva “mi somiglia”. Mica perché Renzi è “di destra”. Ma perché Renzi è solo di Renzi: proprio come Berlusconi era solo di Berlusconi. Si somigliano, in effetti: niente ideali, solo ambizione ed estensione illimitata dell’io. È una somiglianza prepolitica, anche se poi in politica ha le sue conseguenze.

Tuttavia, Renzi è un eccellente stratega. Lo ha dimostrato per il modo in cui ha scalato il Pd, poco più di un anno fa. E poi per come ha fatto fuori Letta, dopo averlo falsamente rassicurato. E ieri, con l’operazione Quirinale. Il cui effetto alla fine non è stato tra i peggiori, l’ho già detto. Ma per convenienza, non per pulsione etica. Quasi un effetto collaterale, il presidente “rispettabile”.

Renzi sa rischiare, ma sempre con un rischio calcolato. Azzecca i tempi. Sfrutta le debolezze altrui come pochi sanno fare. Sa trattare o non trattare, a seconda di quale delle due soluzioni gli sembra portare più vantaggi a lui. Quindi sa anche essere spietato, dietro la finzione del rispetto degli avversari. Anche Berlusconi diceva sempre che «il primo valore» era il rispetto per gli avversari, dal calcio alla politica. Per capire che era pura ipocrisia, ci voleva un Previti, dietro, a dire che «non si fanno prigionieri».

Un eccellente stratega, Matteo Bonaparte: come ha dimostrato prima e dopo il suo Termidoro. Con alleati non altrettanto svegli, intendendo come alleati sia il centrodestra sia la minoranza Pd. Alleati intercambiabili, a seconda della bisogna. Anche questo è cinismo.

Diceva Rino Formica che «la politica è sangue e merda». Un eccesso autocompiaciuto, forse. Ma è vero che senza strategia, in politica sei comunque morto. Inutile, quindi morto. Non vale solo per i grillini: anche nelle mie frequentazioni con la dissidenza Pd e la sinistra radicale, ho visto con i miei occhi l’incapacità di mettere una decente strategia – eticamente corretta, ma al contempo funzionale – al servizio dei propri obiettivi. Mescolando moralità e pragmatismo, idealismo e capacità di mettere le mani laddove diceva Formica: ma per migliorare le cose, non per saziare la propria ambizione.

È il compito più difficile. Ma l’unico verso cui dobbiamo tendere. L’unico che dobbiamo agire. L’unico in cui possiamo sperare.

Mi ricorda qualcosa

26 Feb

“Una società funziona meglio quando i cittadini hanno più interesse a rispettare la legge che a violarla. Appena i cittadini si accorgono che agire al di fuori della legge  può arrecare maggiori vantaggi, la società comincia a sgretolarsi.”

Fernando Savater, “Piccola bussola etica per il mondo che viene

Fernando Savater

 

Che il Pd fosse favorevole al gioco d’azzardo non me lo sarei mai aspettato

19 Dic

Questa la mia sintesi. Forse un pò affrettata, ma non ho molti altri elementi per giudicare, salvo che sulla questione – che oltre ad arricchire le concessionarie è diventata una piaga sociale – non esiste una presa di posizione del Partito Democratico.
Quanto segue è un articolo di VITA.
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Senatori d’azzardo: tolgono soldi ai comuni che contrastano l’azzardo legale

 

Oggi in Senato va di moda il gioco delle tre carte. La carta appare, scompare e riappare dove meno te lo aspetti. È successo così per un emendamento prima presentato, poi ritirato, poi ripresentato, ancora ritirato e infine – ecco il trucco – votato. A presentarlo è stata la vice presidente del gruppo Federica Chiavaroli (Nuovo Centro Destra) , a votarlo 142 senatori, molti dei quali esponenti di un Partito Democratico, tra cui Sergio Zavoli e Vannino Chiti.

Che cosa prevede questo emendamento presentato nel cosiddetto decreto “Salva Roma”? Prevede che: Comuni o Regioni che si dotano di norme restrittive contro il gioco d’azzardo, qualora diminuiscano le entrate dell’erario subiranno tagli ai trasferimenti per l’anno successivo. Tagli che verranno interrotti solo quando le norme e regolamenti verranno ritirati. L’emendamento inoltre prevede che i concessionari ai quali vengono ritirate le concessioni per gravi colpe, godano del diritto di continuare il proprio esercizio per 90 giorni. In seguito il subentro a quelle licenze verrà garantito a chi è già titolare di altre licenze.

 

Denunciato dal Movimento 5 S l’emendamento in prima battuta era stato annunciato come ritirato, ma è stato ripresentato in aula all’ultimo istante è stato e votato.  

Interessante osservare che, tra i votanti a favore dell’emendamento, figurino anche ex sindaci come Raffaele Albertini o esponenti di spicco del PD, quali Vannino Chiti che hanno spesso fatto professione di contrastare il gioco d’azzardo appoggiando, per esempio, le campagne di “Mettiamoci in gioco” (→ QUI).  Credo che Chiti ora debba delle spiegazioni a tutti. Qual è la sua posizione, fuori di retorica?

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In attesa di una risposta che potremmo anche darci da soli, ecco un florilegio del Chiti-pensiero:

1) 11 febbraio 2013: “No a nuove concessioni” (Fonte: comunicato stampa del PD)

2) 17 maggio 2013: “Più potere ai sindaci per contrastare il gioco d’azzardo” (Fonte: sito di Vannino Chiti → Qui).

3) 27 giugno 2013: “[Contro la camorra] Serve regolamentazione del gioco d’azzardo” (Fonte: sito di Vannino Chiti → Qui).

Poi uno si chiede perché non si riesce a fare un passo avanti senza farne contemporaneamente due indietro. Con compagni di viaggio così, meglio sarebbe star fermi.

La pitonessa e la vice-presidenza della Camera: ora basta.

1 Lug

“Daniela Santanchè vicepresidente della Camera, con i voti del PD, è quello che io definisco troppo. Perché va bene il bene del paese, sono d’accordo che questo governo è necessario al paese, ma non c’è un motivo al mondo per il quale il Pd debba accettare anche Daniela Santanché vicepresidente di Montecitorio” dice Marco Esposito sul suo blog, ed io sono d’accordo.
E’ ora che il Pd punti i piedi e dimostri che crede al valore delle istituzioni, crede nell’urgenza di un ritorno all’etica, crede che non è tutto negoziabile in nome di questo quanto mai fasullo termine delle ‘larghe intese’. Insomma, ora davvero basta.

Daniela Santanchè vicepresidente della Camera? No grazie

C’è un limite a tutto come ha scritto bene Mario Lavia su Europa.

Daniela Santanchè vicepresidente della Camera, con i voti del PD, è quello che io definisco troppo. Perché va bene il bene del paese, sono d’accordo che questo governo è necessario al paese, ma non c’è un motivo al mondo per il quale il Pd debba accettare anche Daniela Santanché vicepresidente di Montecitorio.

E’ vero: se esiste una maggioranza, in teoria, la maggioranza politica deve votare in maniera compatta anche i vicepresidente degli altri partiti di maggioranza.

Ma non si può sempre ragionare in astratto. Le persone hanno una (loro) storia. Sono portatori delle loro idee e delle loro scelte politiche e dei loro atteggiamenti. Secondo me Daniela Santanchè per il suo passato politico non può presiedere l’aula di Montecitorio perché ha dimostrato, in passato, di non avere quell’affidabilità istituzionale che il ruolo merita. Non ha lo “standing”, la levatura, per accedere a quel ruolo. Non ha quella capacità di essere superpartes che quel ruolo richiede

E, inoltre, è un nome quasi provocatorio nei confronti del Pd e dei suoi elettori.

Ricordo che il PdL si rifiutò, nella scorsa legislatura, di votare il presidente di commissione della Vigilanza Rai che il PD voleva, fino a votare Riccardo Villari. Ecco, oggi il Pd, senza arrivare alla forzatura di votare per un altro esponente del PdL, si deve rifiutare di votare la Santanchè.

Anzi, sfrutti l’opportunità, per far vedere come sul nome della pitonessa, non ci sia neanche l’accordo di tutto il PDL. O Forza Italia che dir si voglia. Il voto sulla Santanché può diventare un autogol per il centrodestra. Per misurarne la compattezza. Se, si arriverà al paradosso, che la Santanché passasse grazie ai voti democratici, saremmo davanti ad un autogol.

AGGIORNAMENTO : Arrivano i primi no a Daniela Santanchè:

Non penso di votare Daniela Santanchè alla vice presidenza della Camera”. Matteo Orfini (Pd), adAgorà Estate, su Rai Tre, esclude di dare la preferenza alla candidata Pdl. “Credo – continua Orfini – che sia un errore da parte del Pdl candidare la Santanchè. Alcune scelte rischiano di essere delle mine sulla strada di questo governo. Penso – ha concluso – che candidare Daniela Santanchè alla vicepresidenza della Camera, sia cercare un incidente

Don Gallo, un gigante

27 Mag

Alessandro Gilioli pubblica nel suo blog su l’Espresso un affettuoso ricordo di don Gallo.
E’ con una certa commozione che lo si riporta qui per intero.
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Don Gallo, la Capraia, gli ultimi

colldragoni

Negli anni Sessanta l’isola di Capraia era un eremo vero.

Il traghetto ci arrivava una volta la settimana e per sbarcare dovevi scendere da una scaletta su una lancia di legno, mica c’era il molo come adesso. L’acqua potabile la portavano su una bettolina: se c’era libeccio, si rimaneva senza. Il pane lo facevano al carcere, quando lo facevano, e la strada che collegava il porto al paese era poco più di una mulattiera. Per telefonare dovevi fare la coda al Bar Centrale – l’unico esistente. Era anche l’unico alimentari: se stavi sulle palle alla Lina, che non era esattamente di buon carattere, potevi pure fare la fame.

Sulle terrazze ricavate dalla montagna, sopra il porto vecchio, i detenuti coltivavano quello che riuscivano, tra i sassi. Erano quasi sempre assassini, rapinatori, residui dell’umanità: li mandavano a Capraia verso fine pena, perché formalmente quella era una ‘casa di rieducazione all’aperto’, insomma doveva servire a reintegrarli nella società. Una sciocchezza, perché nulla era più lontano dal mondo di quell’isoletta pietrosa e scorbutica, senza automobili e con la corrente elettrica a 160 volt che andava e veniva. Parecchi, scontato l’ultimo giorno, restavano lì perché non sapevano dove altro andare, dopo trent’anni di galera. I loro nipoti oggi sono i negozianti, i trasportatori e gli idraulici dei proprietari di seconde case.

Capraia è bellissima, con i suoi profumi di erbe selvatiche, i suoi cespugli incazzati e le sue scogliere di lava. Bellissima, inospitale, a tratti mistica.

Ci ripensavo in questi giorni, leggendo la vita di don Andrea Gallo. Che il cardinale Siri spedì su quell’isola, in quegli anni, convinto di punirlo, di fargli un torto. Senza poter immaginare che Capraia ti fa crescere l’anima, la forza, le riflessioni sul significato della vita.

Lo fa ancora adesso che ci sono i telefonini, il Wi-fi di Marida e i turisti russi, figuriamoci a quell’epoca. E con quel carcere, poi, ricettacolo degli ultimi che quel prete trentenne e ribelle prese subito a cuore, ’se non sono gigli son pure sempre figli, vittime di questo mondo’.

Non so se è stato lì, alla Capraia, che è maturata la coscienza di quello che sarebbe stato don Gallo nei quarant’anni successivi, o se è stato solo un granello in più per la costruzione di quel gigante.

Non importa poi molto.

So che, come ogni estate da quando sono al mondo, tra poco inizierò a tornarci strappando i giorni al lavoro. E tornerò a camminare tra le rovine della colonia penale, salendo su dall’Assunta. E in quel silenzio ventoso cercherò di sentire le voci di quando lì c’era don Andrea Gallo.

(La foto sopra è dalla collezione di famiglia di Sergio Dragoni. In alto, sulla collina, uno degli edifici del carcere, ora dismesso)

Alessandro Gilioli
27 maggio 2013

Piccole vergogne che diventano grandi

20 Mag

Quei dieci addetti della Forestale che in Calabria si assentavano regolarmente per farsi i fatti propri, documentando però la loro presenza per riscuotere comunque lo stipendio, rappresentano una delle nostre piccole vergogne italiane. Piccola per la cosa in sé, ovviamente. Ma provate a ipotizzare a quante volte lo stesso fatto può replicarsi in – poniamo – un mese negli uffici pubblici (e, sia pure con minor frequenza, nelle aziende private) e si avrà una pallida idea del danno arrecato alla comunità.
Non solo il danno economico, beninteso: il danno maggiore è quello arrecato all’etica. E’ il cattivo esempio che contagia, è il senso del dovere deriso e svillaneggiato. E’ questo un danno storicamente perpetuatosi per decenni nel nostro Paese, quasi tramandato attraverso le generazioni: l’esempio del padre assenteista non può non aver contaminato in buona misura l’attitudine del figlio che quando diverrà adulto e abile al lavoro considererà veniale e trascurabile l’assentarsi dal lavoro per qualche giorno, magari senza neppure peritarsi di cercare un certificato medico (e qui ci sarebbe da aprire un altro discorso sui medici lassisti e conniventi, ma ci saranno occasioni per parlarne).
Per non dire poi di quei commenti paradossalmente negativi che danno anch’essi la misura del deficit di morale: parlo dei colleghi che anzichè censurare l’assenza criticano le modalità che hanno portato alla scoperta del fatto: “sono stati stupidi, dovevano fare in quest’altro modo per non farsi scoprire”.
Ecco che allora una piccola vergogna diventa grande fino a rappresentare una vergogna nazionale, una piaga che riduce la produttività, rallenta lo sviluppo, mortifica il lavoro onesto, umilia il senso del dovere.  E’ calpestando il senso del dovere che si ignora anche l’altro fondamentale caposaldo di ogni civile convivenza: il rispetto per il prossimo. Ed è allora che si apre la via del declino che porta fatalmente al degrado, a casa come a scuola, sul posto di lavoro come nelle istituzioni, allontanandocisi sempre di più dal novero delle grandi nazioni.

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