Archivio | ottobre, 2013

La mediocrità non è italiana.

31 Ott

Mi ha colpito la lettera di una ragazza di poco più di vent’anni, Gaia Pedicini, pubblicata sull’ultimo Venerdì di Repubblica nella rubrica di Michele Serra.

Descrivendo una normale mattina della sua vita di studentessa universitaria-pendolare, Gaia ha fatto una riflessione che nella sua risposta Serra, complimentandosi con lei, definisce, testualmente, “un’analisi perfetta“.

Ma cosa dice Gaia? Osservando gli studenti in attesa del treno (in ritardo come al solito), pazienti e rassegnati, improvvisamente realizza cos’è che non va nei giovani italiani: “siamo abituati alle cose che non funzionano bene. Ci abbiamo fatto il callo, è la nostra normalità. Ci sorprendiamo quando un treno o un autobus arrivano in orario, nella stessa misura in cui riteniamo una gran botta di culo (mi perdoni l’espressione) trovare un lavoro dignitoso al termine di un percorso di studi. Ci stupiamo per piccole cose: se uno sconosciuto è gentile con noi, se una lettera spedita arriva a destinazione in un tempo ragionevole, se un professore risponde a una mail in un paio di giorni. Alzare le spalle pensando ‘è così che funziona’ non è uno stimolo ad essere persone migliori, anzi se possibile ci rende molto autoindulgenti quando siamo peggiori di come dovremmo e potremmo essere. Sono ancora abbastanza idealista da credere che sia il piccolo miglioramento individualedi ciascuno a costituire il miglioramento collettivo.
Il problema è che le nostre aspettative sono basse, perchè ci siamo abituati a pretendere poco sia dalla realtà che ci circonda, sia da noi stessi, e il nostro impegno a poco a poco è diventato proporzionato alle nostre aspettative.”

Una volta di più i giovani d’oggi mi confortano nella speranza che questo Paese possa (e debba) cambiare. Nell’ostinazione e nell’idealismo di Gaia che crede che migliorando sè stessa anche gli altri intorno a lei miglioreranno è racchiuso il segreto della formula. Anch’io vivo con vicini che non salutano e passano a testa bassa: a loro va il mio ‘buongiorno!’ più sonoro e sorridente. Sono certo che un giorno risponderanno. Anzi, qualcuno ha già cominciato a farlo, sia pur timidamente. Anche a me è capitato di non ricevere tempestivamente una lettera: ho protestato vivacemente (ma col massimo di civiltà) con la direttrice dell’ufficio postale facendole notare il disagio subìto: ne ha convenuto e si è scusata; anche a me succede di ricevere una risposta con un intollerabile ritardo: scrivo ringraziando e chiedendone – con una cortesia degna di un mandarino cinese – i motivi (salute? Problemi familiari? Di lavoro?): ho ricevuto qualche risposta stupita per la mia partecipazione e l’ho considerata una grande vittoria.

Voglio dire, insomma, che la mediocrità va combattuta, come vuol fare Gaia, ogni giorno, ogni momento, ovunque, con perseveranza. Come se fosse una missione. E la nostra pattuglia di idealisti si ingrosserà man mano, diventeremo moltitudine. massa, opinione pubblica. “La mediocrità non è italiana”, come dice Serra nella sua risposta: siamo il paese dell’arte, del bello, della genialità imprenditoriale; secoli di guerre e contingenze di varia natura ci hanno addestrato ad adeguarci rapidamente alle situazioni, sappiamo trovare la forza di reagire anche nei momenti più oscuri, la tolleranza e il rapporto con gli altri sono nel nostro dna da sempre, conosciamo la soddisfazione che dà il senso del dovere compiuto. Non ci rassegneremo mai.
Ci siamo solo distratti un pò, in questi ultimi anni, ma sappiamo come fare per recuperare, riprendere il ruolo che ci spetta, ritrovare il rispetto delle nazioni e prima ancora di noi stessi, insieme all’orgoglio. E lo faremo.
Grazie Gaia.

La Svizzera appare disponibile all’accordo fiscale sui capitali. E l’Italia?

30 Ott

L’interrogativo è d’obbligo, trattandosi di una questione venuta alla luce con il governo Monti verso la fine del 2011, ma che altri paesi, Germania e Gran Bretagna, avevano già finalizzato da tempo.
L’11 ottobre il ministro dell’Economia, Saccomanni, ha incontrato brevemente la sua omologa svizzera, Widmer-Schlumpf, per la regolarizzazione dei fondi non fiscalmente dichiarati detenuti nella Confederazione elvetica da residenti in Italia, ma questo non vuol dire che sia in vista un’accelerazione della trattativa per una conclusione a breve.
E qui sta l’apparente paradosso: le banche svizzere sono interessate alla conclusione dell’accordo per varie ragioni, tra cui quella di poter agire in piena libertà sul mercato italiano. Al nostro paese, di contro, dalla sanatoria del pregresso deriverebbe il non trascurabile beneficio di 10-25 miliardi una tantum e altri 5-7 miliardi l’anno a regime.
Va detto che si tratta di stime mai confermate dagli svizzeri, ma comunque possibili in funzione delle ipotesi circa il volume di capitali custodito nelle casseforti della Confederazione: secondo un’inchiesta del l’Espresso si va da un minimo di 120 miliardi di euro fino a 400. BANCA

Tuttavia esistono molti altri aspetti che giustificano, come vedremo, la cautela dei negoziatori italiani che dovrebbero trovare gli argomenti (posto che ci siano) per premere con maggior decisione sui loro interlocutori. Allo stesso tempo, il governo italiano dovrebbe agire verso Bruxelles, in modo che sia l’Unione europea ad assumere il ruolo di pressione sulla Confederazione.

Anche la recente decisione del Consiglio federale svizzero, per cui dal 1° novembre il segreto bancario decadrà per le autorità straniere che faranno richiesta di informazioni sul conto intestato a cittadini del proprio paese, è indicativo dell’atteggiamento più aperto degli svizzeri. Sarà poco o nulla efficace (i conti intestati a persone fisiche sono di una trascurabile entità e ci vuol poco a fondare una società anonima in un paradiso fiscale, mantenendo i capitali in Svizzera), ma la mossa lascia intendere che i margini di disponibilità del sistema bancario elvetico sono aumentati.

Nella ricerca di informazioni sulla questione mi sono imbattuto in un documento redatto per Lo Spazio della Politica da Angelo Richiello che ho trovato molto chiaro ed esauriente ed a cui ho largamente attinto.

La storia comincia quando un gruppo di paesi del G20 pone la Svizzera, insieme con altri paesi non ancora conformati agli standard dell’Ocse sullo scambio d’informazioni fiscali, sulla lista grigia dell’antiriciclaggio.

Agli inizi del 2009, per evitare di ritrovarsi sulla lista nera dei paradisi fiscali, il governo di Berna annuncia di essere disposto a concedere agli stati, con cui sono in vigore convenzioni per prevenire le doppie imposizioni, uno scambio d’informazioni su richiesta, riguardante non solo i casi di frode fiscale ma anche le semplici sottrazioni d’imposta, come l’omissione, intenzionale o meno, della dichiarazione dei redditi.

Lo stesso anno, il sistema bancario svizzero elabora un meccanismo denominato Rubik, mediante il quale si applica un’imposta anonima e liberatoria per regolare il passato, e una ritenuta anonima e annuale alla fonte con aliquota allineata a quella del paese di residenza del cliente per normalizzare il futuro. Le imposte, prelevate dalle banche svizzere, che si trasformano in sostituti d’imposta, sono versate alla pubblica amministrazione svizzera, che le trasferisce interamente all’amministrazione fiscale dello stato di residenza del cliente.

Il primo accordo è con la Germania e segue lo schema indicato. Inoltre, per impedire che in futuro siano nuovamente depositati capitali non dichiarati, è prevista l’introduzione di un meccanismo di garanzia che permette alle autorità tedesche di presentare richieste d’informazioni con indicazione del nome del cliente, ma non necessariamente quello della banca. Le domande sono limitate, devono basarsi su motivi plausibili e per un periodo di due anni il numero delle domande è compreso tra 750 e 999, per essere adeguato poi sulla base dei risultati. Va detto tuttavia che l’accordo non è ancora stato ratificato per l’opposizione del Bundesrat, la Camera alta, essendo stato considerato da molti esperti fiscali un regalo agli evasori. Sono poi seguiti – con il medesimo schema – gli accordi con Gran Bretagna e Austria, ovviamente con aliquote diverse a seconda del sistema fiscale e delle differenze giuridiche.

Se l’accordo dovesse giungere a conclusione anche con l’Italia, seguirebbe le linee di quelli già siglati in precedenza. In sintesi, le banche svizzere applicherebbero un’aliquota (ancora da definire) per tutto il periodo accertabile sui depositi dei cittadini italiani e il totale andrebbe corrisposto immediatamente; inoltre, da quel momento la stessa aliquota verrebbe applicata annualmente. A fronte di ciò, le banche  potrebbero contare sul mantenimento del segreto bancario sull’identità degli italiani detentori dei depositi e sulla possibilità di agire liberamente sul nostro mercato.

Ma, come si diceva all’inizio, ci sono altri aspetti da considerare e riporto qui di seguito il testo originale di Angelo Richiello.

Quali benefici per l’Italia?

I pochi benefici per l’Italia sono rappresentati dall’incasso delle imposte e dal riconoscimento dell’evasione fiscale come reato penale. Il primo beneficio, la liberatoria delle pendenze passate, è valutato attendibilmente dal Ministero dell’economia e delle finanze tra 10 e 25 miliardi di euro, la cui ampiezza della stima evidenzia tutta l’incertezza dell’efficacia dell’accordo, e circa 5-10 miliardi di gettito annuale sui capitali futuri. Il secondo beneficio, l’evasione fiscale riconosciuta come reato penale, attiva le procedure di collaborazione internazionale tra le autorità, quantunque il Consiglio federale parli di evasione come reato penale solo per i residenti in Svizzera, ciò nondimeno, a rigor di diritto, nel momento in cui la Svizzera riconosce il reato penale per i suoi cittadini, deve riconoscerlo anche per i cittadini degli altri paesi in cui l’evasione fiscale è già reato penale.

Avendo come riferimento l’accordo con la Germania, i rischi e gli svantaggi per l’Italia appaiono viceversa tanti, sia economico-finanziari, sia di comportamento etico professionale, sia di completezza delle informazioni scambiate. Il primo e immediato svantaggio riguarda l’imposta liberatoria retroattiva che consente agli evasori di affrancarsi da eventuali accertamenti fiscali futuri in Italia. La stampa italiana continua ad attribuirle il valore del 25%, che confrontata con quella tedesca del 19-34% è meno pretenziosa. Le stesse banche svizzere la riconoscono eccessiva, poiché i precedenti scudi fiscali non superano la soglia del 7%. Oltre agli aspetti fiscali e finanziari, ci sono anche elementi economici di primaria importanza da considerare. I capitali collocati in Svizzera, di cui l’economia italiana ha estremo bisogno, e molto più dell’imposta liberatoria o dell’anticipo in acconto, reimmessi nel sistema produttivo italiano consentirebbero alle imprese italiane di sollevarsi dal “nanismo” di cui oggi sono patologicamente affette, consentendo poi all’Italia di concludere un accordo originale rispetto agli altri stati Ue. Si potrebbero costituire giusti veicoli di diritto svizzero armonizzati alle direttive europee, in cui sono obbligatoriamente convogliati, in tutto o in parte, i capitali liberati, con lo scopo regolamentato di agevolare le quotazioni d’imprese italiane o di investire in fondi italiani per le infrastrutture, direttamente o insieme con altri attori istituzionali, come il Fondo strategico italiano, rendendo l’accordo pragmaticamente accettabile. Un altro punto a sfavore, dettato dal segreto bancario, è che l’accordo fiscale riguarda le persone fisiche e le persone giuridiche, ma con alcune importanti eccezioni: i trust non discrezionali, le fondazioni, le polizze vita effettive. I grandi capitali, di fatto già da tempo nascosti in società irraggiungibili al fisco, restano inviolati. Paesi come Panama, Angola e Liberia sono utilizzati solo per costituire le società, ma la cassa è lasciata in Svizzera, perché in questi paesi regna l’instabilità politica con il rischio che colpi di stato nazionalizzino le banche.

Inoltre, se un residente italiano non vuole pagare nulla e vuole continuare a restare anonimo può tranquillamente trasferire i suoi soldi presso una filiale estera della sua banca svizzera, purché lo faccia prima dell’entrata in vigore dell’accordo, per poi ritrasferire i capitali in Svizzera, evitando l’imposta liberatoria precedente, tutto in pieno anonimato. Considerando poi che dagli anni ’90 il sistema bancario svizzero non brilla per integrità, come dimostrano le vicende degli averi ebraici o le ripetute e specifiche accuse di far da sponda e da rifugio agli evasori fiscali di mezzo mondo, molti rischi provengono dal non corretto comportamento degli istituti di credito. Per esempio, unaclausola poco commentata degli accordi è la norma sugli abusi che prevede che la banca o l’intermediario finanziario svizzero non amministri né sostenga l’impiego di strutture artificiali di cui sa che l’unico o il principale scopo è evadere o eludere l’imposizione di valori patrimoniali secondo le disposizioni della Convenzione. Chi viola la prescrizione è tenuto al pagamento delle imposte evase dal cliente. Con la stessa finalità, coerentemente con lo spirito della Convenzione Ocse e, allo scopo di evitare abusi, l’Associazione svizzera dei banchieri emana raccomandazioni finalizzate a evitare che i funzionari dipendenti di banche in territorio svizzero mettano a disposizione dei clienti qualsiasi informazione che possa essere destinata alla violazione delle norme previste dagli accordi, che partecipino attivamente al trasferimento di averi patrimoniali in modo non conforme al campo di applicazione degli accordi, forniscano consulenza attiva a favore di clienti in relazione al trasferimento di averi patrimoniali dalla Svizzera verso succursali o filiali estere della banca svizzera o verso società del gruppo oppure verso aziende terze situate all’estero, ma tali raccomandazioni riguardano solo il personale delle banche, e non impegnano tutto il residuo, vasto, mondo dei consulenti e intermediari. Un altro aspetto poco noto degli accordi, legato alle informazioni scambiate, è la possibilità di ottenere informazioni su contribuenti sulla base di “motivi plausibili”che sussistono quando l’autorità competente italiana ritiene necessario esaminare i dati delle dichiarazioni di un contribuente in merito alla loro completezza e correttezza per un periodo che può arrivare a coprire i dieci anni antecedenti. Spetta all’autorità competente italiana assicurare nella richiesta d’informazioni che le condizioni per la richiesta siano soddisfatte, ma le richieste d’informazioni sono numericamente contingentate su base annua, e spetta ai negoziatori italiani individuare un numero di richieste che sia considerato congruo rispetto a esigenze di accertamento e riscossione. È evidente che i modesti numeri previsti dagli accordi con la Germania e il Regno Unito sono poco compatibili con la situazione di un paese che si è dichiarato in guerra con l’evasione fiscale, dove l’incidenza del sommerso è significativamente maggiore degli altri paesi sviluppati, posizionandosi al quarto posto della classifica Ocse per una quota del Pil stimata al 21,2%, con un’evidente propensione a costituire patrimoni clandestini all’estero superiore alla media. È necessario poi sciogliere un nodo cruciale che i negoziatori italiani devono affrontare nel corso delle trattative. Si tratta della sostanziale incompatibilità fra lo scambio d’informazioni contingentato dell’accordo e l’ormai illimitato accesso ai dati dei rapporti bancari e finanziari dei contribuenti che l’amministrazione finanziaria italiana ottiene per effetto dell’anagrafe dei rapporti, rafforzata dal decreto Salva Italia. È una questioneche Germania, Regno Unito e Austria non devono affrontare poiché nei loro ordinamenti non sono previsti gli illimitati poteri d’indagine a disposizione dell’amministrazione fiscale italiana, ed è molto improbabile che il governo italiano rinunci a tale strumento di contrasto all’evasione fiscale. In più sussiste la possibilità offerta ai clienti italiani di rivolgersi legittimamente a intermediari svizzeri in grado di garantire, se non l’anonimato, almeno un livello di confidenzialità enormemente superiore a quello ottenibile presso il sistema bancario e finanziario italiano, con il rischio che il contribuente italiano si sottragga all’anagrafe dei rapporti, alla quale sono agganciati i conti intrattenuti con intermediari italiani. Se a questa possibilità si aggiunge che uno dei principali elementi della contropartita svizzera è di ottenere per le proprie banche relazioni dirette con i clienti italiani, ci si rende conto che l’accordo ha effetti deleteri sul sistema bancario italiano. Anche qualora si trovasse una soluzione, affinché questi capitali non scompaiano dallo schermo radar dell’Agenzia delle entrate, un accordo impone un ripensamento strategico di tutta l’industria bancaria italiana che rischia di scomparire a vantaggio della piazza finanziaria elvetica, e non si tratta di competitività d’impresa. Infine, Berna, sotto pressione dei cantoni confinanti con l’Italia, vuole rivedere al ribasso la quota dei ristorni dei frontalieri italiani destinata ai comuni delle province di confine per opere di pubblica utilità.

La revisione dell’aliquota dei ristorni, dal 1974 pari al 38,8%, è intoccabile se si considera che i frontalieri, assieme alle loro famiglie, utilizzano pienamente i servizi pagati dai loro comuni di residenza, divenendo un duro colpo per le già esigue casse statali.Inoltre, l’aliquota del 12,5% proposta dai cantoni, come quella praticata ai frontalieri austriaci, non tiene conto che per l’Austria, i ristorni valgono per tutti i cittadini austriaci, mentre nel caso italiano solo per i frontalieri che vivono entro un raggio di 20 km dalla frontiera.

Conclusione: tra Stati Uniti e “condono tombale”

Le trattative che contrappongono Stati Uniti e Svizzera hanno esiti ben più pesanti per la piccola Confederazione. L’amministrazione Obama fa della lotta all’evasione fiscale un cavallo di battaglia elettorale, arrivando a minacciare l’arresto dei banchieri svizzeri sul territorio degli Stati Uniti, il boicottaggio commerciale e il blocco delle attività svizzere sul suolo statunitense, ottenendo la piena collaborazione di Berna nello scambio d’informazioni sui conti in giurisdizioni a bassa fiscalità senza alcuna tutela per gli evasori fiscali americani. Ciò mostra che un approccio più deciso e coordinato a livello europeo porterebbe a risultati più corposi nei confronti dell’evasione fiscale che da decenni ha facile rifugio in Svizzera. L’Unione europea e l’Ocse devono proseguire gli sforzi, in atto da oltre un decennio, per convincere stati, come la Svizzera, contrari allo scambio d’informazioni bancarie a fini fiscali, a cambiare rotta entro orizzonti temporali determinati. Se poi Berna si mette di traverso, gli strumenti di convinzione non mancano, come gli Stati Uniti, a migliaia chilometri di distanza, insegnano. Tuttavia, gli accordi firmati dalla Svizzera con Germania, Regno Unito e Austria devono essere presentati dagli stati firmatari ai gruppi di lavoro dell’Ocse e sottoposti alla verifica della Commissione europea per la valutazione della loro compatibilità con l’attuale Direttiva sulla fiscalità del risparmio che prevede un’aliquota sugli interessi dei redditi da capitale pari al 35% a decorrere dal 1° luglio 2011. Se ciò non accadesse, dopo la firma dell’accordo sarebbe ancora più difficile che in passato recuperare attivamente informazioni sui residenti italiani con capitali non dichiarati nelle banche svizzere. Un italiano di media istruzione troverebbe nell’accordo tutte le caratteristiche del condono tombale che dal 1973 a oggi ha sempre premiato gli evasori e umiliato gli onesti.

E che un atteggiamento deciso possa dare i suoi frutti è dimostrato dal recente arresto in Italia di Raoul Weil, ex dirigente della UBS, il primo avvenuto al di fuori degli USA, dove la lista dei banchieri svizzeri condannati è stata aperta da tempo.

L’ex banchiere di UBS Bradley Birkenfeld è stato il primo a svelare le pratiche di evasione fiscale adottate dalla principale banca svizzera. Nel 2009, UBS è stata costretta a pagare una multa di 780 milioni di dollari e a trasmettere i dati bancari di migliaia di clienti. Birkenfeld è stato condannato a 40 mesi per aver aiutato ricchi clienti americani a evadere le tasse. Nel 2008, il banchiere di UBS Martin Liechti, responsabile della gestione patrimoniale negli Stati Uniti, è stato arrestato in Florida e posto agli arresti domiciliari fino a quando ha testimoniato contro la sua banca. È stato in seguito rilasciato e ha fatto ritorno in Svizzera. Si presume che la testimonianza di Liechti abbia portato al rinvio a giudizio del suo capo, Raoul Weil, nel novembre 2008. Dopo cinque anni di latitanza, Weil è stato arrestato il 20 ottobre 2013 in Italia. Se estradato negli Stati Uniti, l’ex responsabile della gestione patrimoniale di UBS rischia fino a cinque anni di carcere. L’impiegato di UBS Renzo Gadola, arrestato nel 2010, è stato condannato a cinque anni con la condizionale dopo aver collaborato con le autorità statunitensi.

L’Italia non ha certo il peso degli Stati Uniti, nel confronto con la Confederazione, ma l’Europa potrebbe e dovrebbe porsi la domanda e quindi agire di conseguenza. Il momento non è mai stato così favorevole.

 

 

Festival del giornalismo: il movimento verso il pieno successo

24 Ott

In un post sul sito del ijf Arianna Ciccone racconta delle migliaia di tweet ricevuti e analizza la portata del movimento con dati e grafici.

Appare come un vero fenomeno di partecipazione di giornalisti, blogger, addetti ai lavori, che sono prima di tutto cittadini indignati verso una classe politica misera ed incapace di capire l’importanza non solo locale della manifestazione che si replica con crescente successo da sette anni.

Art. 138: atto II

23 Ott

Il Senato ha approvato con soli quattro voti di maggioranza la modifica dell’art. 138, che passa così alla Camera per l’approvazione definitiva. E soprattutto, avendo comunque raggiunto i due terzi, evita il ricorso al referendum.

E’ un fatto nuovo? Sì e no. No, perché era una delle tre ipotesi illustrate da Civati solo ieri. Sì, perché non ci si attendeva una maggioranza così esile. Questa novità fa subito emergere le due principali obiezioni all’intera manovra di revisione costituzionale: una, che modificare l’art. 138 è una mossa quanto mai azzardata, trattandosi dell’articolo-lucchetto, quello che cioè blinda e mette la sicura all’intera struttura della carta costituzionale; la seconda, emersa inattesa in questa occasione, che per ogni revisione – ancorché minima – della Costituzione, anche solo un sottile filo di buonsenso suggerirebbe maggioranze ampie e concordi.
Invece la situazione, come è ormai palese ed assai facilmente intuibile, anche ai più ottusi, è tutt’altra.

“Siamo in una maggioranza di governo che, non essendo maggioranza tra gli elettori, cerca legittimazione tramite revisione costituzionale” ha commentato con l’usuale correttezza e lucidità Walter Tocci. E Corradino Mineo, un altro dei quattro senatori Pd (gli altri due sono Casson e Amati) che – mi viene da pensare – hanno compreso l’assurdo del tutto, ha detto, tra l’altro, nel suo discorso al Senato: “Ma per cambiare la Costituzione, modificare l’articolo 138, istituire un comitato di 21 senatori e 21 deputati che lavori a un progetto organico, sarebbero necessari un’ispirazione comune in Parlamento e un vasto consenso nel paese. Purtroppo mi sembra che oggi manchi sia l’uno (il consenso), che l’altra (la comune ispirazione). Al no alla riforma da parte del Movimento 5 Stelle, cioè della forza politica che ha fatto registrare il successo più rilevante nelle elezioni di febbraio, si è aggiunta, in questi mesi, l’opposizione radicale da parte di un vasto movimento di opinione, formato da costituzionalisti, sindacalisti e associazioni del volontariato. Un movimento che vede nel processo riformatore un pericolo per la libertà e la democrazia e chiama i cittadini a mobilitarsi in difesa della Costituzione. Nè va ignorata l’esistenza di un dissenso anche di destra, sia pure motivato da scelte opposte e che investono le questioni, delicatissime, della divisione dei poteri e dell’autonomia della magistratura.   Manca dunque il consenso, ma ancora di più manca l’ispirazione comune”.

Manca dunque il consenso, ma ancora di più manca l’ispirazione comune.
Ben detto, Corradino.

La sinistra asfissiata dalla puzza

23 Ott

Non sapevo di una sinistra “con la puzza sotto il naso”. Per quel che mi risulta, anzi, di sinistra nel PD ne vedo sempre di meno: tra un pò i democratici di sinistra andranno protetti come i panda e colgo questa occasione per rivolgere un appello in tal senso al WWF.

Per quanto mi riguarda, continuo testardamente a non vedere nell’idea di Renzi di andare a raccogliere i voti degli elettori del PdL-Forza-Italia-Udc e compagnia cantando una strategia vincente. E questo sì che vorrebbe dire che la sinistra debba morire. Di puzza.

Makkox contro F.

23 Ott

Chiamarle genio Makkox è riduttivo. Da oggi sarà Il Genio.

PD: la lista si allunga. Chi, dopo Del Turco?

23 Ott

Chiunque sia il prossimo segretario del PD dovrà subito  agire con la massima decisione per stroncare questa spirale di malaffare che soffoca il partito. Ormai i casi relativi a indagini e condanne si susseguono con una regolarità impressionante, sono troppo frequenti per poter ancora parlare di isolate mele marce: non starò qui a fare l’elenco (non ne ho il tempo, la voglia e soprattutto lo stomaco), ma lascio a quei pochi che mi leggono l’opportunità di farlo – se vorranno – utilizzando i commenti in basso.

Mi limiterò solo ad iniziare questo elenco delle vergogne partendo dalla notizia pubblicata oggi da Repubblica circa le motivazioni della condanna inflitta lo scorso luglio a Ottaviano Del Turco, già presidente della Regione Abruzzo. Ma, si obietterà, è solo la sentenza di primo grado, c’è il ricorso in appello e poi, eventualmente, la Cassazione, attenti a gettar fango, siamo garantisti, no?
Rispondo anticipatamente: l’onorabilità del partito viene prima di tutto e se non bastasse c’è il dimenticato Codice Etico. E chiudo con una domanda: se il cosiddetto garantismo ha un senso, deve averlo sempre, ma soprattutto ‘prima’ e allora perchè il PD non ha ancora aderito alla campagna di Libera e di don Ciotti contro la corruzione?

Ancora sulla strage di Ustica. Sempre peggio

23 Ott

Oggi l’Huffington Post pubblica l’intervista di Andrea Purgatori – il giornalista che per primo non credette alle verità ufficiali – al maresciallo Dioguardi, il supertestimone che si trovava nella sala operativa in quei tragici momenti. Tutti i sospetti che in questi anni hanno aleggiato intorno a questa drammatica storia e alle sue maldestre coperture si stanno solidificando.

Ma è la nota con cui Purgatori si rivolge al Presidente del Consiglio Enrico Letta – e che si riporta integralmente più sotto – che mi fa pensare a una nuova visione dell’intera questione da parte della magistratura e dell’opinione pubblica. Non è ottimismo, è una costatazione: non siamo mai stati così vicini alla verità.
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In precedenza ne abbiamo già parlato qui e qui.

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Caro Letta, non si può più barattare la verità su Ustica con la ragion di Stato

Ho sempre pensato che scavare intorno a questa sporca storia della strage di Ustica fosse un esercizio da maratoneta, più che da centometrista. E avevo ragione. Anche se attendere trentatré anni per leggere su una sentenza della Cassazione che il “depistaggio” sull’abbattimento del Dc9 Itavia è “definitivamente accertato” e dunque lo Stato dovrà risponderne è una soddisfazione a metà. Chi pagherà adesso? Lo Stato appunto, nella sua responsabilità istituzionale che ricade sui ministeri della Difesa e dei Trasporti? O i diretti responsabili, coloro i quali hanno distrutto registri, fatto sparire nastri radar, ordini di servizio, ma soprattutto hanno imposto il silenzio a chiunque fosse a conoscenza anche di un solo pezzetto della fotografia di quell’atto di guerra in tempo di pace che è costato la vita a 81 persone, e sono ormai degli anziani signori in pensione o in molti casi addirittura morti, portandosi dietro il segreto di quella notte?

La magistratura civile ha confermato che la tesi del “missile sparato da aereo ignoto” è “ormai consacrata”. La magistratura penale invece sta ancora lavorando tra mille difficoltà. Perché se vogliamo parlare di depistaggio, o comunque di tutto ciò che ha ritardato l’accertamento della verità che era assolutamente a portata di mano già nel giro di poche ore dopo l’esplosione del DC9, allora tanto vale non essere ipocriti e dirci francamente che un concorso nella strategia dell’annacquamento di questa inchiesta dovrebbero addebitarselo anche tutti o quasi tutti i governi che si sono succeduti dal 1980 ad oggi. Il gioco del “tanto c’è un magistrato che indaga, lasciamolo lavorare”, non sta più in piedi dal momento che le risposte a questo magistrato non devono arrivare da un aviere, da un maresciallo, da un capitano o un generale, bensì da altri stati, nostri alleati o partner commerciali. E se questo stato, il nostro, non ha il coraggio di pretenderle sostenendo nei fatti chi indaga, ebbene si mette sullo stesso piano di chi allora coprì, occultò, distrusse.

Non è un appello, ne sono stati fatti troppi. E’ una sacrosanta richiesta al nostro governo, e prima di tutti al presidente del consiglio Enrico Letta. Non si può barattare la verità su questa strage con un accordo per l’euro (con la Francia), un bouquet di complimenti per la politica economica (dagli Stati Uniti), un buon contratto per il petrolio (con la Libia) senza poi vergognarsi di guardare in faccia i familiari di quelle 81 vittime. Cittadini italiani, uccisi in un atto di guerra nel quale noi e i nostri partner siamo stati direttamente o indirettamente coinvolti. La Ragion di Stato non è una giustificazione accettabile, e ancora meno lo è pensare che la strage di Ustica debba ormai essere consegnata agli storici, perché frutto di un’epoca di tensioni internazionali ormai dimenticata. Se questo paese deve avere un futuro, è bene che cominci a costruirselo mettendo la faccia e le mani negli affari sporchi del passato prossimo. Ma oggi. Subito.

Ustica: il muro di gomma si sta sfaldando

22 Ott

Il 12 luglio rividi un film, “il muro di gomma”, dedicato alla tragedia avvenuta nel mare di Ustica quando un DC 9 dell’Itavia si inabissò coi suoi passeggeri, e mi venne da scrivere questo post, inserendolo non a caso nella categoria ‘Vergogne’.

Oggi si intravede uno spiraglio dopo la sentenza del gennaio di quest’anno: la Cassazione ha disposto un nuovo processo civile per accertare le responsabilità dei ministeri della Difesa e dei Trasporti, avendo accertato definitivamente il depistaggio delle indagini.

Scrive Repubblica: La pronuncia della Cassazione conferma nuovamente la tesi “del missile sparato da aereo ignoto” quale causa dell’abbattimento del DC9. Dal momento che è accertato il depistaggio delle indagini da parte di ufficiali dell’Aeronautica – sostiene la Suprema corte – diventa anche “irrilevante ricercare la causa effettiva del disastro”, e questo “nonostante la tesi del missile sparato da aereo ignoto, la cui presenza sulla rotta del velivolo Itavia non era stata impedita dai ministeri della Difesa e dei Trasporti, risulti ormai consacrata pure nella giurisprudenza di questa Corte”.

Verdini, un discepolo

22 Ott

Da Repubblica-Firenze.it:

Si è aperta in tribunale a Firenze l’udienza preliminare per il procedimento sulla gestione del Credito cooperativo fiorentino, la banca guidata fino al 2010 dal coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, e sui finanziamenti per l’editoria destinati al Giornale della Toscana.
………
In apertura di udienza hanno chiesto di costituirsi parte civile la Presidenza del Consiglio dei ministri – per le imputazioni relative alla truffa ai danni dello Stato legata ai finanziamenti all’editoria – l’Agenzia delle entrate, la Banca d’Italia e alcuni istituti di credito fra cui Bnl e Mps.

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(Cit. del Generale Aung San, leader della indipendenza birmana)

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