Archivio | luglio, 2014

Rodotà: Non si fa una riforma tagliando a fette la Costituzione.

30 Lug

La struttura e le competenze del futuro Senato non possono essere legate a un effetto annuncio che fa leva sull’antipolitica, sulla sbrigativa affermazione che si taglieranno spese e si manderanno a casa dei fannulloni. Dipendono strettamente dal modo in cui sarà concretamente configurata la Camera dei deputati. Se questo sarà il luogo dove si manifesterà soltanto una esasperata logica maggioritaria, dovrebbe essere ovvio ritenere che saranno necessari contrappesi, da cercare anche nella configurazione di un Senato comunque uscito dalla logica del bicameralismo paritario. Non si fa una riforma tagliando a fette la Costituzione.

Oggi, su Repubblica, Stefano Rodotà ha analizzato lucidamente la penosa situazione cui ci ha condotti il duro confronto tra maggioranza e minoranza voluto dal governo. La sintesi è questa: “La realtà è che sono sempre più nettamente emersi, nelle proposte e nei comportamenti, atteggiamenti sostanzialmente conservatori dal punto di vista culturale e aggressivi dal punto di vista politico, che hanno ritenuto praticabile solo la vecchia strada dell’accentramento del potere e della sua liberazione da controlli effettivi“.
A mio modesto avviso non c’è affatto da stare allegri, comunque vada.

N.B. Il  grassetto nel testo è mio.

QUELLA BAGARRE SULLE RIFORME

STIAMO vivendo il periodo forse più difficile e complicato della nostra storia politica e istituzionale. Giunge alla conclusione un tempo abusivamente chiamato “Seconda Repubblica”, e che altro non è stato se non una lunga transizione verso il nulla di un berlusconismo che ha dissolto società e cultura e di larghe intese che hanno certificato l’assenza di iniziativa e fantasia politica, sostituite con un assemblaggio di materiali ormai logori.

Ora l’avvento di Matteo Renzi e del suo governo, con il larghissimo consenso che lo ha accompagnato alla prima verifica pubblica, sembrano offrire un approdo stabile, o che viene percepito come tale, con un affidarsi così fiducioso alla sua persona e alle sue iniziative che presso taluni diviene liberazione dall’obbligo stesso di pensare. A questo balenare di una stabilità politica si è voluto accompagnare anche l’avvio, non irragionevole, di una stabilizzazione istituzionale. E proprio le proposte di riforma costituzionale e elettorale hanno occupato la scena, con tratti sempre più marcatamente conflittuali.

Osservo malinconicamente che siamo di fronte ad una occasione perduta. Dopo un’iniziale fiammata polemica, si era assistito ad un germogliare di riflessioni critiche che si trasformavano in proposte variamente interessanti, che avrebbero consentito di traghettare l’impresa di riforma al di là della contingenza e delle strumentalizzazioni, con risultati innovativi, mettendo a punto un modello nel quale le esigenze di rappresentanza e governabilità avrebbero potuto incontrarsi senza la pretesa di sopraffarsi reciprocamente.

È mancata la cultura costituzionale indispensabile per una operazione così ambiziosa? Ha preso il sopravvento un certo politicismo, ha prevalso la volontà di trasformare una operazione così delicata in una prova di forza destinata a mostrare a tutti in quali mani fosse ormai il potere? La realtà è che sono sempre più nettamente emersi, nelle proposte e nei comportamenti, atteggiamenti sostanzialmente conservatori dal punto di vista culturale e aggressivi dal punto di vista politico, che hanno ritenuto praticabile solo la vecchia strada dell’accentramento del potere e della sua liberazione da controlli effettivi.

Il risultato è stato quello, prevedibile, di polemiche senza confini. La discussione pubblica è stata rifiutata dal governo e questo ha portato a ovvie e dure contrapposizioni, che hanno poi aperto la strada a negoziazioni varie. In modo contorto, si è così finito con il riconoscere che molte critiche erano fondate anche perché, con il passare delle settimane, l’area dei critici si è allargata ben al di là di quelli che erano stati considerati oppositori pregiudiziali. Con parole più guardinghe, sono state dette cose assai vicine a quelle di chi, all’origine, aveva cercato di mettere in guardia contro i rischi della strada che si stava imboccando. E questo induce ad un’altra considerazione malinconica. Solo se si alza la voce, si può riuscire per un momento a superare il voluto frastuono mediatico, a destare una qualche attenzione anche presso i distratti o i rassegnati. Per questo si paga un prezzo, che tuttavia non è troppo alto se riesce a richiamare l’attenzione sul fatto che non stiamo parlando di una qualsiasi legge di riforma, ma del cambiamento della Costituzione.

Ora si discute nella bagarre, e i fraintendimenti continuano. Il dibattito sul modo in cui si vuole uscire dal bicameralismo perfetto è inquinato dalla volontà di la riforma del Senato come una partita a sé, un luogo dove piantare la bandierina del vincitore, e non come un tassello del complessivo sistema costituzionale e dei suoi necessari equilibri.

Si gioca con i rinvii, si fa balenare la possibilità di concessioni quando riprenderà l’esame della riforma elettorale, del famigerato Italicum. Di nuovo non si vuole intendere quale sia la sostanza del problema. La struttura e le competenze del futuro Senato non possono essere legate a un effetto annuncio che fa leva sull’antipolitica, sulla sbrigativa affermazione che si taglieranno spese e si manderanno a casa dei fannulloni. Dipendono strettamente dal modo in cui sarà concretamente configurata la Camera dei deputati. Se questo sarà il luogo dove si manifesterà soltanto una esasperata logica maggioritaria, dovrebbe essere ovvio ritenere che saranno necessari contrappesi, da cercare anche nella configurazione di un Senato comunque uscito dalla logica del bicameralismo paritario. Non si fa una riforma tagliando a fette la Costituzione.

Peraltro, le concessioni prospettate per la legge elettorale non sembrano intaccarne la logica profonda. È bene allora, rifare un piccolo promemoria su quale sarebbe la forma di Stato che risulterebbe dall’Italicum. Rimarrebbe sostanzialmente la riduzione della rappresentanza dei cittadini, dunque il punto che ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare illegittimo il Porcellum. Di conseguenza, le elezioni sarebbero tutte concentrate sulla sola finalità di individuare il governo, trasformando la democrazia rappresentativa in democrazia d’investitura e, visto l’accumularsi dei meccanismi maggioritari, rendendo la Camera una semplice appendice del governo, al quale verrebbe attribuito anche il potere di porre fine a qualsiasi dibattito scomodo con quella particolare ghigliottina rappresentata dall’imposizione di un termine per l’approvazione di una legge. E questa signoria del governo sulla Camera sarebbe accompagnata dal fatto che la maggioranza può impadronirsi delle massime istituzioni di garanzia, la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale, dispone dei numeri necessari per le riforme costituzionali e per incidere sui diritti fondamentali.

Forse cadrà l’inammissibile soglia dell’8% come condizione per l’accesso alla Camera di un singolo partito e v’è da augurarsi che dalla riforma del Senato scompaia l’innalzamento del numero delle firme per i referendum e le leggi d’iniziativa popolare. Tutte proposte, però, assai indicative dell’ispirazione del governo, evidentemente conservatrice, visto che si vuole precludere l’innovazione politica affidata a partiti nuovi e all’iniziativa diretta dei cittadini. E che tradiscono, piaccia o non piaccia la parola, una curvatura autoritaria che, come sanno quelli che maneggiano con qualche consapevolezza le categorie della scienza politica, non è l’evocazione delle dittature, ma il tratto che caratterizza una forma di Governo nella quale deperiscono i controlli istituzionali e si restringono gli spazi per azioni dirette dei cittadini non affidate a logiche plebiscitarie.

Ripeto queste cose nella speranza che le discussioni in corso riescano ad attenuare alcuni di questi effetti negativi. So bene che più d’uno si dichiara stanco di queste discussioni, in cui ritrova echi già noti. Non v’è nulla di più vecchio dell’ostinazione nel difendere una difficile idea di democrazia, che peraltro oggi non gode di buona salute. Ma qualcuno deve pur farlo.

Stefano Rodotà

La ministra che non risponde e la petizione a difesa della democrazia partecipata

18 Lug

Questa è la lettera che il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, scrisse al ministro M. Elena Boschi più di due mesi fa e che a quanto risulta è rimasta senza risposta. Neppure un commento.
Se così è – mi risulta ancora difficile crederlo – non ho dubbi per definirlo un comportamento indecente.
E questa è la petizione de  il Fatto Quotidiano al Presidente della Repubblica per difendere la democrazia partecipata. Non ci è rimasto molto altro. Io l’ho appena firmata.
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Torino, 4 maggio 2014

Gentile signora Ministro,

desidero innanzitutto ringraziarla per l’invito a partecipare all’incontro da lei convocato il giorno 5 maggio per discutere il disegno di legge governativo di riforma della II parte della Costituzione e scusarmi della mia assenza, dovuta esclusivamente – come ho avuto modo di accennarle direttamente – a precedenti impegni che non mi è stato possibile spostare ad altra data. La notizia della convocazione non mi è pervenuta in tempo utile per altra soluzione. Nella conversazione con lei, ho anticipato il mio interesse a farle avere ugualmente, in forma scritta, qualche considerazione in proposito. Ed ecco qui le mie riflessioni, concentrate essenzialmente sulla molto complessa e articolata proposta di riforma del Senato.

1. Il cosiddetto bicameralismo perfetto è certamente una duplicazione difficilmente giustificabile in quanto le medesime funzioni siano attribuite a due Camere che presentano la stessa sostanza politica, come è oggi, in presenza di analoghe leggi elettorali, le cui marginali e irrazionali differenze circa l’attribuzione dei “premi di maggioranza” sono tali da aver creato una grave disarmonia nella formazione delle maggioranze nell’una e nell’altra, ma non tali da averne fatto due organi di natura diversa. L’incongruenza, di per sé, non deriva dalla partecipazione paritaria a procedimenti comuni. Se le due Camere fossero espressione di “logiche e sostanze politiche” diverse, ma ugualmente apprezzabili e meritevoli di concorrere, ciascuna con il suo originale contributo, alla formazione delle decisioni politiche, non vi sarebbe ragione di scandalo. Anzi: la vita politica ne risulterebbe arricchita. Diverso, invece, il caso in cui le logiche e le sostanze politiche siano le stesse (e per di più organizzate in modo incoerente). In tal caso – che è quello che si è determinato nel nostro Paese – il “bicameralismo perfetto” (per identità di funzioni e di natura delle due Camere) è certamente un’incongruenza costituzionale. Ben vengano, dunque, le discussioni e le proposte per il suo superamento. In questo caso, ma solo in questo, vale l’osservazione (che mi pare risalga all’abate Sieyès) che, se le due camere sono d’accordo, una delle due è inutile; e che, se non sono d’accordo, una delle due è un impiccio, un anacronismo.

2. Ugualmente comprensibile, anzi apprezzabile, è l’intento di alleggerire, di limitare i “posti della politica”, e con essi, i “costi della politica”, purché, naturalmente, ciò non si traduca, come effetto, in difetto di rappresentanza democratica, tanto più in presenza di forti correnti antipolitiche, per compiacere le quali esiste il rischio di cedimenti a soluzioni costituzionali antiparlamentari che possono condurre a governi forti, con contrappesi deboli.

3. Altrettanto comprensibile è l’esigenza di funzionalità delle istituzioni parlamentari, funzionalità che è precondizione (insieme alla competenza, alla moralità e alla responsabilità verso i cittadini) per l’efficace difesa della democrazia rappresentativa. Sotto questo aspetto, l’opinione comune è che il bicameralismo, così come l’abbiamo, sia difettoso. È perfino un’ovvietà che, se una legge, per diventare tale, richiede il doppio passaggio in una Camera e nell’altra, i tempi si raddoppiano e, se modifiche sono apportate nella seconda (o terza, o quarta… ) lettura, i tempi s’allungano ancora in questo andare e venire che potrebbe non concludersi mai, o concludersi non in tempo utile.
Si tratta appunto di un’ovvietà, ma forse un po’ troppo ovvia. L’argomento del tempo raddoppiato sarebbe incontrovertibile se si trattasse dell’approvazione di una sola legge. Ma se le proposte di legge sono numerose e si accalcano contemporaneamente, creando ingorghi all’entrata del procedimento legislativo, disporre di due porte d’ingresso consente – per continuare nell’immagine – di smaltire il traffico con una velocità doppia. Mentre una Camera lavora su una proposta, l’altra lavora su un’altra. Vero è che al termine del primo round la legge deve passarne un secondo ma, se il quadro politico fosse solido e omogeneo nelle due Camere, si tratterebbe di una mera convalida. Se non lo è, la questione non è tanto costituzionale, quanto politica. Sembra, insomma, doversi temere l’intasamento del procedimento legislativo, per così dire – “a ingresso unicamerale”, cioè precisamente un effetto contrario alle intenzioni riformatrici. A meno che non si decida di sottoporlo a condizioni e termini iugulatori, come quelli indicati nell’art. 72 u.c. del progetto (60 giorni o anche meno, a discrezione del governo, secondo il Regolamento della Camera), termini che farebbero della Camera, nella realtà, un organo di ratifica delle decisioni del Governo, anche perché l’iniziativa legislativa parlamentare, già oggi sottorappresentata, sarebbe ancor più emarginata in un procedimento monocamerale.
Così, la questione della funzionalità delle procedure legislative – in particolare, sotto il profilo della loro messa in moto – si mostra per quella che effettivamente è: una questione che riguarda il posto della rappresentanza parlamentare nelle decisioni politiche, rispetto al governo.

4. D’altra parte, pur senza disporre di numeri e statistiche, mi pare che la questione dell’allungamento dei tempi legislativi sia non di poco sopravvalutata. Quante sono le leggi che vanno e vengono? E, soprattutto, che genere di leggi sono? L’impressione è che si tratti delle leggi di maggior rilievo, sulle quali esistono contrasti che la democrazia parlamentare dovrebbe non soffocare, ma consentire d’esprimersi in libere discussioni. Oppure, che si tratti di veri e propri errori, la cui correzione è nell’interesse stesso della maggioranza e del Governo; oppure, ancora, di casi di alleggerimento della tensione politica, come quando si dice (e ancora recentissimamente s’è detto e non per poca cosa: la legge elettorale): per ora approviamo, poi ridiscuteremo. D’altra parte, quando il Governo lo ritiene necessario, c’è (quasi) sempre a disposizione la questione di fiducia, che tronca la discussione e fa piazza pulita degli emendamenti, ma sempre sotto il controllo del parlamento, al quale spetta la parola finale.
In mancanza della seconda lettura, che cosa accadrebbe in caso d’errore o di ripensamento? La legge da correggere sarebbe in vigore e occorrerebbe promuovere un nuovo procedimento legislativo per abrogarla o modificarla: sarebbe un’alternativa conveniente, dal punto di vista dell’efficienza? E dal punto di vista della certezza del diritto? Insomma: la seconda lettura non è sempre e solo una perdita di tempo: se fosse una possibilità, quando occorre, invece che una necessità, anche quando non occorre, il giudizio in proposito dovrebbe essere diverso da quello corrente.

5. Fin qui, i miei preconcetti, giustificati o ingiustificati che siano. Ma la questione di fondo, nel mettere mano alla riforma della seconda Camera, è quella della sua sostanza politico-costituzionale. In breve: per quale ragione la si vuole mantenere? E, volendola mantenere in qualche forma, quale funzione rappresentativa le si chiede di svolgere?
Schematizzando e guardando alla storia e agli esempi che ne vengono, i Senati esprimono o ragioni federative, nei confronti dello Stato centrale, o ragioni conservative, di fronte alla Camera elettiva e alle sue mutevoli e instabili maggioranze. Le ragioni federative possono eventualmente, di fatto, risolversi in conservazione e le ragioni conservative possono risolversi in federative. Ma quello che conta è l’accento, cioè la ragione principale e, da questo punto di vista, la distinzione tiene. Il Senato degli Stati Uniti e il Bundesrat tedesco appartengono alla prima categoria; il Senato del Consolato e dell’Impero in Francia (il Sénat detto, per l’appunto, conservateur il quale nel 1814 dispose la decadenza di Napoleone), i Senati delle Carte costituzionali della Restaurazione (dello Statuto Albertino, per esempio) e, per ragioni prevalenti, anche il Senato francese odierno (pur nella sua matrice municipalista) appartengono alla seconda categoria.
Da noi, il dibattito si è orientato pacificamente verso l’idea del Senato come organo rappresentativo delle istituzioni territoriali, cioè – non essendo l’Italia una federazione, se non nel linguaggio politico compiacente – della Repubblica autonomista: non più Senato della Repubblica, ma Senato delle Autonomie, secondo la nuova, rivoluzionaria, denominazione. Rivoluzionaria perché viene mantenuto il divieto di “vincolo di mandato” ma è eliminata (anche per i deputati alla Camera: nuovo art. 67) la “rappresentanza della Nazione”, onde c’è da chiedersi: svincolati in vista di che cosa? Per che cosa saranno eletti? Crediamo che si tratti solo di parole, e non di etica pubblica?
A quanto sembra, l’orientamento anzidetto è dominante in assoluto. Perché ciò che bene funziona in America e in Germania non dovrebbe funzionare altrettanto bene in Italia? Non esistono forse buone ragioni di coordinamento tra enti territoriali anche da noi? E poi chi si arrischierebbe, oggi, a proporre qualcosa di “conservativo”?

6. Comprendo bene che le idee, per quanto possano apparire buone – e quella che vorrei proporre all’attenzione mi pare buona – devono tenere conto delle condizioni date. E le condizioni date sono dettate dall’opinione comunemente condivisa che si è appena detta: una concezione che definirei “amministrativistica” e non “costituzionalistica” del Senato prossimo futuro. Si abbia un poco di pazienza.
La comparazione con gli Stati effettivamente federali – effettivamente significa non che hanno strutture giuridiche federali o simil-federali, ma che hanno radici in realtà così nettamente definite in senso storico-politico come sono gli Stati federati in Usa o i Länder in Germania – questa comparazione, dunque, mi pare porti a dire che la somiglianza con le nostre Regioni è solo esteriore. Le nostre Regioni sono grossi apparati politico-amministrativi che riproducono (salvi, forse, i casi della Valle d’Aosta e della provincia di Bolzano) vizi e virtù dell’amministrazione e della politica nazionale: sono, in altri termini, delle articolazioni più o meno felici di quest’ultima. Non è qui il caso di ragionare sulle cause ma, se ciò è vero, che senso ha un Senato delle Autonomie, se non quello di ricondurre e rispecchiare al centro ciò che già il centro ha trasmesso alla periferia? Che sostanza politica, nuova e diversa, quest’organo esprimerebbe? Nessuna, se non eventualmente maggioranze dissimili da quelle politiche che si formano alla Camera dei deputati. Personale politico di partiti si troverebbe a operare qui e là, e il Senato delle Autonomie si risolverebbe in un segmento secondario d’un sistema politico unico che ha da risolvere al suo interno questioni di natura essenzialmente amministrativa, questioni che, comunque, troverebbero sbocco finale nel contenzioso costituzionale, come già succede ora (con le complesse procedure previste, il rischio è di ulteriore confusione). Si tratterebbe d’un organo di contrattazione di risorse finanziarie e porzioni di funzioni pubbliche, in una sorta di do ut des che già oggi trova la sua sede nelle due “Conferenze” paritetiche Stao-Regioni e Stato-Autonomie locali.
Coloro che ragionano con tanta sicurezza di Senato delle Autonomie temo che assumano essere le “autonomie” qualcosa com’essi desidererebbero ch’esse fossero, ma che non sono. E, se sono quelle che sono, invece che quelle che si vorrebbe che fossero, il loro “senato” si riduce a ben poca e inutile cosa.

7. Se, invece, si volesse cogliere l’occasione della riforma del bicameralismo per un’innovazione che a me parrebbe davvero significativa dal punto di vista non “amministrativistico”, ma “costituzionalistico”, tenendo conto di un’esigenza e di una lacuna profonda nell’organizzazione della democrazia, si potrebbe ragionare partendo in premessa dalla considerazione generale che segue.
Le democrazie rappresentative tendono alla dissipazione di risorse pubbliche, materiali e immateriali. Sono regimi dai tempi brevi, segnati dalle scadenze elettorali, durante i quali gli eletti, per la natura delle cose umane, cercano la rielezione, cioè il consenso necessario per ottenerlo. Non conosciamo noi, forse, questa realtà? Debito pubblico accumulato da politiche di spesa facile nel c.d. ciclo elettorale; sfruttamento delle risorse naturali; devastazione del territorio; attentati alla salute pubblica; abuso dei beni comuni nell’interesse privato immediato; applicazioni a fattori vitali di tecnologie dalle conseguenze irreversibili, ecc. Chi se ne preoccupa, quando premono le esigenze elettorali?
Qui emergono le “ragioni conservative” della seconda Camera: non conservative rispetto al passato, come è stato nel caso dei Senati al tempo delle Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze dissipatrici della Camera elettiva e questa, secondo lo schema del “governo misto”, fu affiancata dai Senati di nomina regia. Allora, i Senati erano ciò che restava dell’Antico Regime, della tradizione e dei suoi privilegi. Ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, si tratta dell’opposto, cioè di ragioni conservative di opportunità per il futuro. Chi è, dunque, più conservatore? Chi, per mantenere o migliorare le proprie posizioni nel mercato elettorale, è disposto a usare tutte le risorse disponibili per ottenere il consenso immediato degli elettori, o chi, invece, si preoccupa, più che non delle sue proprie immediate fortune elettorali, dell’avvenire e di chi verrà dopo di lui?

8. Su questa linea di pensiero, la composizione del nuovo Senato risulta incompatibile con l’idea di membri tratti dalle amministrazioni regionali e locali o eletti in secondo grado dagli organi di queste, la cui durata in carica coincida con quella delle amministrazioni regionali e locali di provenienza. Questa è la prospettiva “amministrativistica”. Nella prospettiva “costituzionalistica” la provvista dei membri del Senato dovrebbe avvenire in modo diverso. Nei Senati storici, a questa esigenza corrispondeva la nomina regia e la durata vitalizia della carica: due soluzioni oggi, evidentemente, improponibili ma facilmente sostituibili con l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola della non rieleggibilità. A ciò si dovrebbero accompagnare requisiti d’esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenute in regole d’incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti.
Voci autorevoli si sono levate in questo senso, in evidente contrasto con la concezione del Senato come proiezione delle amministrazioni regionali e locali. Anche l’idea (per quanto forse già tacitamente accantonata) dei 21 senatori che il Presidente della Repubblica “può” nominare (art. 57, comma 5: dunque la composizione del Senato è a numero variabile e il Presidente può riservarsene una quota per eventuali “infornate”?) tra persone particolarmente qualificate corrisponde all’esigenza qui sottolineata. Si tratta d’una proposta, dal punto di vista democratico, insostenibile per una molteplicità di ragioni che i commentatori hanno già messo in luce e, dal punto di vista funzionale, del tutto irragionevole perché mescola elementi eterogenei. Non c’è bisogno di citare letteratura, infatti, per comprendere che un organo che delibera deve essere omogeneo e che, se non è omogeneo, può formulare pareri (potenzialmente diversi) ma non esprimere una (sola) volontà. Ma l’esigenza di cui i 21 sono espressione è valida e può essere soddisfatta anche per via di elezione, purché secondo i criteri sopra detti. Ai quali se ne dovrebbe aggiungere un altro: il numero limitato dei senatori. Negli Stati Uniti sono due per ogni Stato federato. Perché non anche da noi: due senatori per Regione, eletti dagli elettori delle Regioni stesse? Dunque, senza liste, listoni o “listini” che farebbero ancora una volta del Senato una propaggine del sistema dei partiti, con i condizionamenti e gli snaturamenti della loro funzione che ne deriverebbero. Questa, sì, sarebbe una novità, perfettamente democratica e tale da inserire nel circuito politico energie, competenze, responsabilità nuove. Questo, sì, sarebbe un Senato attrattivo per le forze migliori del nostro Paese che il reclutamento partitico della classe politica oggi tiene ai margini.

9. Uno dei punti critici del Progetto riguarda la determinazione dei poteri e la definizione del rapporto tra le due Camere nel bicameralismo non paritario, cioè in tutti i casi di legislazione non costituzionale. Secondo il nuovo articolo 70, le leggi ordinarie sono approvate dalla Camera dei deputati, tuttavia ogni disegno di legge approvato (e non promulgato) è trasmesso immediatamente al Senato il quale, entro 10 giorni, su richiesta di 1/3 dei componenti può disporre di esaminarlo e, nei 30 giorni successivi, può deliberare proposte di modifica, sulle quali la Camera, negli ulteriori 20 giorni, si pronuncia in via definitiva. La legge è promulgata se il Senato non dispone di procedere all’esame del testo deliberato dalla Camera, se è decorso il termine per deliberare o se la Camera si è pronunciata definitivamente. In una serie di casi determinati per materie (art. 70, comma 4) la Camera deve conformarsi alla deliberazione del Senato, a meno che non si pronunci in senso diverso a maggioranza assoluta. In materia di bilanci, la Camera non può discostarsi se non a maggioranza assoluta, solo se il Senato si è pronunciato a sua volta a maggioranza assoluta. Non è qui possibile discutere la ragionevolezza di questo labirinto di regole e della bilancia che può pendere ora a favore di una Camera, ora dell’altra, a seconda delle maggioranze, e a seconda delle materie. Questo giuridicismo, applicato a organi politici, è sensato? Può funzionare? Soprattutto, non c’è il rischio di conflitti? In tema di revisione del titolo V, il Progetto si è orientato al superamento del criterio delle competenze per materia, che l’esperienza ha dimostrato essere fonte di possibili frequenti contrasti. Qui, invece, le materie ricompaiono. Ma, soprattutto, che senso ha la “supervisione” del Senato quando già è nota l’esistenza d’una maggioranza alla Camera, in grado comunque d’imporre la propria scelta? Un lamento, una protesta fine a se stessa, tanto più in quanto la legge elettorale sia tale (ma sarà tale?) da costruire più o meno artificialmente vaste maggioranze legislative alla Camera dei deputati. Se esistono obiezioni, sarà la Camera stessa a prenderne cognizione. Non è che i pro e i contra sono sconosciuti, fino a quando non “scende in campo” un organo abilitato a manifestarli. La procedura davanti al Senato sarà presumibilmente destinata alla sterilità. La controprova della sua futilità è l’assenza della questione di fiducia in questa procedura: il Governo non ne ha bisogno, perché ciò che solo conta è quanto accade alla Camera dei deputati.
Nella prospettiva del superamento “costituzionalistico” del bicameralismo paritario, i problemi di convivenza delle due Camere si potrebbero risolvere così. Alla Camera dei deputati, depositaria dell’indirizzo politico, sarebbe riservato il voto di fiducia (e di sfiducia). Le leggi sarebbero approvate normalmente in una procedura monocamerale. Il Senato, nei casi – si presume di numero assai limitato, ma non elencabili a priori – in cui ritenga essere a rischio i valori permanenti la cui tutela è sua responsabilità primaria, potrebbe chiedere l’attivazione della procedura bicamerale paritaria. Qui ci sarebbe la funzione di garanzia come “camera di ripensamento”, insieme allo snellimento delle procedure in tutti i casi in cui il doppio esame non appare necessario. A sua volta, potrebbe essere proprio la Camera, per semplificare e ridurre i tempi, a chiedere eventualmente che sia il Senato a pronunciarsi per primo.

10. Un’ultima osservazione. Un certo numero di costituzionalisti, nei giorni trascorsi, ha denunciato con toni d’allarme il pericolo d’involuzione autoritaria, anzi padronale, del nostro sistema politico. Volendo vedere solo e isolatamente la questione della riforma del bicameralismo, la denuncia è apparsa eccessiva, allarmistica. Tuttavia, si parlava in quella circostanza della riforma del Senato non in sé stessa, ma come elemento d’un quadro costituzionale, formale e materiale, assai più complesso. Il quadro è composto, sì, dalla marginalizzazione della seconda Camera, ma anche dalle prospettive in cui si annuncia la riforma della legge elettorale, in vista di soluzioni fortemente maggioritarie e debolmente rappresentative, tali da configurare una “democrazia d’investitura” dell’uomo solo al comando, tanto più in quanto i partiti, da associazioni di partecipazione politica, secondo l’art. 49 della Costituzione, si sono trasformati, o si stanno trasformando in appendici di vertici personalistici, e in quanto i parlamentari, dal canto loro, hanno scarse possibilità d’autonomia, di fronte alla minaccia di scioglimento anticipato e al rischio di non trovare più posto, o posto adeguato, in quelle liste bloccate che la riforma elettorale non sembra orientata a superare. La denuncia dunque veniva, e ancora viene, da quello che i giuristi chiamano un “combinato disposto”. La visione d’insieme è quella d’un sistema politico che vuole chiudersi difensivamente su se stesso, contro la concezione pluralistica e partecipativa della democrazia, che è la concezione della Costituzione del 1948. La posta in gioco è alta. Per questo è giusto lanciare l’allarme.
Queste, gentile Ministro Boschi, sono in sintesi (una sintesi assai poco sintetica!) le osservazioni che forse avrei potuto sviluppare nell’incontro di lunedì. Della mia assenza ancora mi rammarico e mi scuso. Immagino che i tempi non saranno così stretti da impedire ulteriori confronti, a partecipare ai quali, fin da ora, se i termini degli accordi politici già presi non saranno preclusivi di discussioni costruttive, le comunico la mia disponibilità.

Con molti cordiali saluti e auguri di buon lavoro
Gustavo Zagrebelsky

TTIP: sempre peggio (e Renzi tace)

17 Lug

 

Ne abbiamo parlato anche qui, ( e ancora qui e qui), ma – riconosco i miei limiti – molto sommariamente. Si tratta di negoziati segreti tra Europa e USA che, non foss’altro per il mistero che li copre, non promettono nulla di buono.
Oggi però mi capita, grazie ad Arianna Ciccone e a Valigia Blu, questa eccellente ed eauriente indagine di Bruno Saetta, dal titolo maledettamente eloquente. Continuo così a domandarmi come mai in Italia non se ne parli o, quando avvenga, lo faccia la RAI ed esclusivamente in positivo, come racconta Lorenzo Robustelli,  (grazie ad Alessandro Gilioli per la segnalazione).
E soprattutto mi domando perché non ne parli agli italiani il Pesidente del Consiglio, di solito così pronto a illustrarci le grandi opportunità che si offrono all’Italia sotto la sua guida. Mi viene il sospetto che non ne sappia nulla neanche lui. Mah.

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I trattati commerciali, che si stanno discutendo in segreto, regolamentano non solo il commercio, ma anche la salute, la sicurezza, l’ambiente. E i diritti dei cittadini sono quasi barriere da abbattere.

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Una spaventosa responsabilità

16 Lug

Alessandro Gilioli, uno dei più attenti osservatori della nostra quotidiana realtà, ha scritto questo post (riportato integralmente più sotto) con cui concordo pienamente. E’ la sintesi cui ci hanno portato gli ultimi vent’anni ma dove non sono comunque racchiuse tutte le responsabilità: gli anni del Berlusconi trionfante affondano le radici fin dai ’60, quando la classe politica si beava del florido sviluppo cui stava assistendo e di cui aveva ben pochi meriti,  non pensando – per pura incapacità – a costruire il futuro economico, politico, sociale e culturale del Paese.

Tra la fine di quel decennio e quello successivo si vivono gli anni di piombo: e neppure allora la classe dirigente, nonostante i segnali del ’68 fossero chiari, si preoccupò di individuare le origini del disagio e del malessere, porvi rimedio, studiare come lanciare i ponti per un futuro fatto di responsabilità e consapevolezza.  Era forse una delle ultime occasioni per ricostruire la scuola e l’istruzione, dare una coscienza civica al Paese, investire nel sociale; in altre parole, puntare all’obbiettivo vitale delle giovani generazioni come i nuovi italiani liberati dalle scorie del passato: politici preparati e integerrimi, imprenditori lungimiranti, cittadini con un profondo e innato senso del dovere.

Il vaso di Pandora esplose con Tangentopoli e nacque ancora una volta la speranza che la piccola Italia della collusione, della corruzione, dei furbi inetti ma potenti, sarebbe stata spazzata via. Invece arrivò  – terribile ironìa della sorte nelle parole – Forza Italia.  E da allora cominciò la discesa inarrestabile che ci ha portati fin qui e alle parole di Zavoli che riporta Gilioli.

Ecco quindi la spaventosa responsabilità: per il passato, di quelli che cinquant’anni fa non furono capaci – pur avendo tutto, ma proprio tutto, a disposizione – di progettare e realizzare la nuova Italia; di quelli che seguirono ricalcando pigramente o per convenienza personale  il percorso dei predecessori; di Berlusconi e dei suoi elettori, inclusi quelli in buona fede.
Per il presente, – e per il futuro – la spaventosa responsabilità è di chi guida oggi il Paese e punta su riforme che tendono a creare un concentrato di potere mai visto nè immaginato nelle mani di una sola persona, dimenticando o mettendo scientemente da un lato la partecipazione democratica alle scelte. Come ha scritto sul Corriere Mauro Magatti,

“Ma per costruire e cambiare davvero, per rianimare un’intera società, occorre saper decidere delineando il senso di un cambiamento di cui sia possibile condividere con altri le aspirazioni e le ragioni. Che vengono prima e vanno oltre la persona del leader. E di cui egli porta, solo provvisoriamente, la responsabilità.”

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l ricatto e il pugno di mosche

di Alessandro Gilioli

«Siamo tutti sotto ricatto. Stiamo approvando una riforma spaventosa ma, se casca questo governo, è la barbarie. Se Renzi fallisce si apre una voragine pericolosa». Così Sergio Zavoli, che a 90 anni ha l’età in cui, diciamo, non si temono conseguenze.

È proprio così, in questo Paese.

Dove nessuno vede un’alternativa realistica all’esecutivo in carica: non solo i poteri economici e mediatici – conformisti come non erano mai stati – ma neppure milioni di cittadini comuni, siano partite Iva o dipendenti preoccupati per la sorte della propria azienda, pensionati o Cocopro. Tutti renziani? In un certo senso sì, ma più per necessità che per amore, insomma soprattutto per mancanza d’altro alle viste.

Colpa di tutti, s’intende.

Colpa di una destra che per vent’anni si è schierata dietro Berlusconi, e oggi esiste solo come corrente renziana. Colpa di una sinistra che non ha saputo sostituire la vecchia oligarchia piddina con una generazione preparata e consapevole: ammannendoci ai posti di comando incapaci arroganti come Boschi o Serracchiani. Colpa di un Movimento 5 Stelle che non ha capito la responsabilità ciclopica di essere diventato l’unica opposizione e non ha quindi saputo proporsi come credibile alternativa di governo.

Quindi ci resta in mano un pugno di mosche. Il niente. E il ricatto di cui parla Zavoli: “una riforma spaventosa”, a cui tuttavia pochissimi hanno il coraggio di opporsi nei suoi pessimi contenuti, in nome di una real politik che è la sconfitta di tutti.

 

 

 

 

 

 

 

Gioco d’azzardo: il Consiglio di Stato dà ragione al sindaco Pisapia

16 Lug

Sono soddisfazioni. E un grande incoraggiamento per tutti i sindaci e i cittadini in questa loro battaglia contro lo Stato biscazziere.

Da il Venerdì di Repubblica n. 1373 - 11 luglio 2014

Da il Venerdì di Repubblica n. 1373 – 11 luglio 2014

I miei libri per l’estate

16 Lug

Alessandro Gilioli – La diaspora. Dov’è oggi la sinistra italiana – Imprimatur
Giorgio Fontana – Morte di un uomo felice – Sellerio
Andrea Vitali – Premiata ditta sorelle Ficcadenti – Rizzoli
Nadine Gordimer – Racconti di una vita – Feltrinelli
Simonetta Agnello Hornby – La mia Londra – Giunti

Spero di farcela: ho una ventina di giorni a disposizione ma non vorrei che, come può capitare anche in altri casi, gli occhi siano stati più grandi delle effettive capacità. Comunque, vi farò sapere.

E voi, cose leggerete?

Referendum e leggi di iniziativa popolare: ne sentiremo la mancanza

15 Lug

E così, salutiamo gli ultimi strumenti democrazia diretta ancora in vita nel nostro Paese.
Il perché e il percome lo spiega con la consueta chiarezza il professor Ainis qui.

A me resta solo da aggiungere un commento: con questa mossa (che mi ha francamente stupito, apparendomi più in linea col modo d’agire di un Berlusconi che di un democratico) Renzi e il suo governo fanno un altro rapido passo verso quell’autoritarismo che i suoi più strenui difensori continuano, contro ogni evidenza, a negare.  D’altra parte, non manca molto. Quando il Senato sarà reso del tutto inoffensivo e la legge elettorale consentirà una Camera composta in maggioranza di disciplinati nominati, il cerchio si chiuderà. Con tanti saluti alla democrazia partecipativa.

 

Aggiornamento.

Davide Serafin ha scritto questo post sullo stesso argomento molto meglio.

Aggiornamento del 17 luglio

Sempre Davide Serafin:

Riforma Senato | Mineo: “referendum Segni mai più possibile”
by davidesera

Oggi Corradino Mineo è intervenuto al Senato. Nel suo intervento, di critica alla riforma del Senato proposta dal governo con il DdL costituzionale Boschi, è presente un cenno alla questione del cosiddetto referendum manipolativo che un emendamento, approvato dalla 1a Commissione Affari Costituzionali al Senato, renderebbe non più ammissibile. Come scrivevo l’altro giorno, se da un lato già la Consulta ha da alcuni anni adottato l’orientamento di escludere quei quesiti che intervenissero in maniera manipolativa, su singole parole o porzioni di frasi, specie in quei casi in cui l’abrogazione rendesse la norma irrazionale o incompleta, dall’altro i referendum in materia elettorale non possono che essere parziali e manipolativi, dato che la legge elettorale è una legge costituzionalmente necessaria alla corretta formazione degli organi dello Stato.
Così Mineo, stamane, in aula al Senato: spero si rifletta sulle norme che riguardano i referendum, che al di là delle intenzioni sicuramente buone – conosco e stimo la senatrice Finocchiaro – hanno un sapore amaro. Non sarebbe oggi possibile il referendum Segni da cui è nata – bello o brutta che sia – la Seconda Repubblica, perché quel referendum era manipolativo. L’innalzamento delle firme sembra voler punire un istituto di democrazia diretta, mentre si torna non alla democrazia delegata com’era in Costituzione, ma ad una democrazia delegata in cui i partiti hanno troppo potere (Resoconto stenografico Seduta n. 280 de 17/07/14).
Lo cito qui, anche perché è l’unico ad averne parlato.

 

 

 

Calamandrei: discorso sulla Costituzione

15 Lug

Da fiorentino a fiorentino. Spero l’ascolti.

“…alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – questa è una delle gioie della vita – che non si è soli, che siamo parte di un tutto… quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione… dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.”

 

A Gaza niente di nuovo

13 Lug

“Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola” mi dice Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue.
“Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato.” Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua “Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste…” il dottore continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. “Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l’ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quale sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati.”
A questo punto il dottore si china verso una scatola, e me la scoperchia dinnanzi. Dentro ci sono contenuti gli arti mutilati, braccia e gambe, dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite Al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime. Fingo una telefonata urgente, mi congedo da Jamal, in realtà mi dirigo verso i servizi igienici, mi piego in due e vomito.
Poco prima mi ero intrattenuto in una discussione con il dottor Abdel, oftalmologo, circa i rumors, le voci incontrollate che da giorni circolano lungo tutta la Striscia secondo le quali l’esercito israeliano ci starebbe tirando addosso una pioggia di armi non convenzionali, vietate dalla Convenzione di Ginevra. Cluster bombs e bombe al fosforo bianco. Esattamente le stesse che l’esercito di Tsahal utilizzò nell’ultima guerra in Libano, e l’aviazione USA a Falluja, in violazione delle le norme internazionali. Dinnanzi all’ospedale Al Auda siamo stati testimoni e abbiamo filmato dell’utilizzo di bombe al fosforo bianco, a circa cinquecento metri da dove ci trovavamo, troppo lontano per essere certi che sotto gli Apache israeliani ci fossero dei civili, ma troppo tremendamente vicino a noi. Il Trattato di Ginevra del 1980 prevede che il fosforo bianco non debba essere usato direttamente come arma di guerra nelle aree civili, ma solo come fumogeno o per l’illuminazione. Non c’è dubbio che utilizzare quest’arma sopra Gaza, una striscia di terra dove si concentra la più alta densità abitativa del mondo, è già un crimine a priori. Il dottor Abdel mi ha riferito che all’ospedale Al Shifa non hanno la competenza militare e medica per comprendere se alcune ferite di cadaveri che hanno esaminato siano state prodotte effettivamente da proiettili al fosforo bianco. A detta sua però, in venti anni di mestiere non ha mai visto casi di decessi come quelli portati all’ospedale nelle ultime ore. Mi ha spiegato di traumi al cranio, con fratture a vomere, mandibola, osso zigomatico, osso lacrimale, osso nasale e osso palatino che indicherebbero l’impatto di una forza immensa con il volto della vittima. Quello che ha detta sua è totalmente inspiegabile, è la totale assenza di globi oculari, che anche in presenza di traumi di tale entità dovrebbe rimanere al loro posto, almeno in tracce, all’interno del cranio. Invece stanno arrivando negli ospedali palestinesi cadaveri senza più occhi, come se qualcuno li avesse rimossi chirurgicamente prima di consegnarli al coroner.
Israele ci ha fatto sapere che da oggi ci è generosamente concessa una tregua ai suoi bombardamenti di 3 ore quotidiane, dalle 13 alle 16. Queste dichiarazioni dei vertici militari israeliani vengono apprese dalla popolazione di Gaza, con la stessa attendibilità dei leaders di Hamas quando dichiarano di aver fatto strage di soldati nemici. Sia chiaro, il peggior nemico dei soldati di Tel Aviv sono gli stessi combattenti sotto la stella di Davide. Ieri una nave da guerra al largo del porto di Gaza, ha individuato un nutrito gruppo di guerriglieri della resistenza palestinese muoversi compatto intorno a Jabalia e ha cannoneggiato. Erano invece dei loro commilitoni, risultato: 3 soldati israeliani uccisi, una ventina i feriti. Alle tregue sventolate da Israele qui non ci crede ormai nessuno, e infatti alle 14 di oggi Rafah era sotto l’attacco degli elicotteri israeliani, e a Jabalia l’ennesima strage di bambini: tre sorelline di 2, 4, e 6 della famiglia Abed Rabbu. Una mezz’ora prima sempre a Jabilia ancora una volta le ambulanze della mezzaluna rossa sotto attacco. Eva e Alberto, miei compagni dell’ISM, erano sull’ambulanza, e hanno videodocumentato l’accaduto, passando poi i video e le foto ai maggiori media. Hanno gambizzato Hassan, fresco di lutto per la morte del suo amico Araf, paramedico ucciso due giorni fa mentre soccorreva dei feriti a Gaza city. Si erano fermati a raccogliere il corpo di un moribondo agonizzante in mezzo alla strada, sono stati bersagliati da una decina di colpi sparati da un cecchino israeliano. Un proiettile ha colpito alla gamba Hassan, e ridotto un colabrodo l’ambulanza. Siamo arrivati a quota 688 vittime, 3070 i feriti, 158 i bambini uccisi, decine e decine i dispersi. Solo nella giornata di ieri si sono contati 83 morti, 80 dei quali civili. Il computo delle vittime civili israeliane, fortunatamente, è fermo a quota 4. Recandomi verso l’ospedale di Al Quds dove sarò di servizio sulle ambulanze tutta la notte, correndo su uno dei pochi taxi temerari che zigzagando ancora sfidano il tiro a segno delle bombe, ho visto fermi ad un angolo di una strada un gruppo di ragazzini sporchi, coi vestiti rattoppati, tali e quali i nostri sciuscià del dopoguerra italiano, che con delle fionde lanciavano pietre verso il cielo, in direzione di un nemico lontanissimo e inavvicinabile che si fa gioco delle loro vite. La metafora impazzita che fotografa l’assurdità di questa di tempi e di questi luoghi.

Restiamo umani.
Vik

VikCosì scriveva Vittorio Arrigoni poco prima di essere ucciso, tre anni fa, vittima di una inumana e assurda rivalità tra Hamas e un gruppo salafita. Era un volontario dell’Ong International Solidarity Movement arrivato a Gaza nel 2008, da dove aveva inviato le sue corrispondenze per il Manifesto sull’operazione “Piombo fuso” lanciata da Israele. Si firmava Vik e chiudeva sempre così: “restiamo umani”.

Inutilmente, sembra.

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Grazie a Chiara Baldi per avermelo ricordato.

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Aggiornamento del 16 luglio:

Poichè io sono sempre stato contrario a Piombo Fuso e auguro la peggiore delle sorti umane e politiche a chi la ordinò – e poi andò a ballare in discoteca – non posso che condividere questo pensiero.

“Rifletteteci un attimo, sarebbe come se l’esercito italiano per catturare un pericoloso boss mafioso, iniziasse a bombardare pesantemente il centro di Palermo.

Vittorio Arrigoni lo scriveva durante l’operazione Piombo Fuso, 6 anni fa. Così perfettamente lucido e calzante, lo riproponiamo e lo riproporremo fino allo sfinimento. Perché il suo è lo stesso nostro pensiero.

 

Riforma Senato | Facciamola all’irlandese

11 Lug

Riforma Senato | Facciamola all’irlandese.
(dal sito Yes, political! di Davide Serafin)

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