Archivio | Maggio, 2020

Leggi chiare e comprensibili: il potere della burocrazia contro i cittadini

20 Mag

Sei anni fa questo post annunciava una vera rivoluzione copernicana nella redazione delle leggi, affinché fossero davvero immediatamente comprensibili a tutti, nessuno escluso.
Oggi Sergio Rizzo, su Repubblica, raccontando degli assurdi 472 rimandi contenuti nel Decreto Cura Italia, commenta il modo astruso in cui vengono scritte le norme che devono regolare la vita dei cittadini e dello Stato, Nonostante siano state introdotte norme correttive che dovrebbero indurre i burocrati a redigerle in modo che siano comprensibili a tutti, si persiste ottusamente nelle modalità che non è fuori luogo definire antidemocratiche.
La legge n. 69 del 18 giugno 2009 all’art. 3 prescriveva che “ogni rinvio ad altre norme contenute in disposizioni legislative” deve indicare “in forma integrale o sintetica”, ma prima di tutto “di chiara comprensione”, la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento.
Non è difficile valutare quanto ne abbiano tenuto conto i burocrati.

Si può andare avanti così?

Pandemia, immigrati e lavoro

4 Mag

Quale correlazione logica tra questi tre punti? La risposta del Guardian in un commovente appello 

Nel 1968, in Inghilterra, il governo laburista presentò una proposta di legge, il Race Relations Act, che avrebbe vietato rifiutare di fornire una casa, un impiego o i servizi pubblici a una persona sulla base del colore della sua pelle o della sua appartenenza etnica o nazionale. Nello stesso periodo si verificò un’ondata di immigrati da paesi del Commonwealth, in particolare West Indies e Kenia.
Tutto ciò condusse un uomo politico di raffinata e vasta cultura come Enoch Powell a profetizzare per il suo paese un futuro di problemi razziali e rivolte urbane simili a quelle che stavano avvenendo negli Stati Uniti che avrebbero condotto alla prevalenza di una maggioranza di colore e alla perdita dell’identità nazionale.
I suoi ribollenti discorsi contribuirono non poco alla rinascita di gruppi di ispirazione neonazista e alla diffusione di un razzismo più o meno pronunciato che faceva perno su un sentimento oscuro quanto irrazionale: il timore dello straniero. Che toglie il lavoro, delinque, ruba, fa paura.
Sono passati cinquant’anni. Chi frequenta oggi l’isola britannica può testimoniare come l’integrazione sia un fatto. Stanno a dimostrarlo, a parte alcune eminenti figure come quella del sindaco di Londra, Sadiq Khan, gli innumerevoli esempi che popolano la vita quotidiana: sono impiegati, dirigenti, medici, operai, infermieri, addetti ai servizi, senza i quali l’intera economia britannica soffrirebbe. Si può quindi affermare che per la grandissima parte degli inglesi si tratta di un timore pressochè scomparso, salvo che per un vago sentimento di sospetto, sempre e comunque pronto a riemergere alla prima occasione.

In Italia non abbiamo un Powell (paradossalmente ci sarebbe quasi da dolersene, considerando il deplorevole livello di preparazione e cultura dei leader dell’attuale opposizione), ma un certo razzismo sopravvive. Forse non raggiunge l’asprezza manifestata in altre parti del mondo, tuttavia si realizza in modi altrettanto odiosi.
Per esempio, nel lavoro. Badanti, domestici, braccianti, manovali, fattorini, stallieri, muratori: tutti i lavori più umili rifiutati dagli italiani sono di pertinenza degli immigrati. Nel Rapporto 2019 Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia prodotto dal Ministero del Lavoro leggiamo (pag.17) che: In tutti i paesi OCSE la ripartizione professionale dei lavoratori immigrati è molto diversa da quella dei lavoratori nativi. Nel 2017 questa differenza è rimasta elevata soprattutto nei paesi del Sud dell’Europa (Figura 10). L’indicatore di dissomiglianza indica quanti immigrati dovrebbero cambiare lavoro per determinare la stessa distribuzione occupazionale dei nativi. In Italia e in Grecia un lavoratore immigrato su tre dovrebbe cambiare professione per avere un lavoro simile a quello dei lavoratori autoctoni. La media Ocse è del 17,3%. Se la dissimilarità occupazionale è leggermente migliorata tra il 2012 e il 2017 in molti paesi – per esempio, in Grecia, Svizzera e Portogallo – è invece rimasta inalterata in Italia nello stesso periodo.
Nei paesi OCSE il 18% dei lavoratori immigrati svolge lavori considerati di bassa qualifica (“occupazioni elementari”), contro l’11% delle persone autoctone (Figura 11). Nell’UE le proporzioni sono rispettivamente 20% e 8%. Nella quasi totalità dei paesi OCSE i lavoratori immigrati si concentrano su professioni poco qualificate. In Italia, come in altri paesi del Sud dell’Europa, il tasso di concentrazione è ancora più elevato: il 30% degli immigrati in Italia svolge occupazioni elementari, contro l’8% dei lavoratori nati in Italia.

Questo per quanto riguarda la qualità dell’occupazione. Ma c’è una discriminante in più: la retribuzione di un immigrato è significativamente inferiore a quelle di un italiano di nascita. Scriveva non molto tempo fa il magazine Vita: “Ma c’è una bella differenza tra il lavoro degli italiani e quello degli stranieri. Mentre la retribuzione media mensile dichiarata dagli occupati italiani è di 1.356 euro, quella degli stranieri scende a 965 euro, pari al 30% in meno (-371 euro). Eppure gli immigrati producono quasi il 9% del Pil nazionale, pari a 127 miliardi di euro (prendendo in considerazione l’anno 2015). Lavoro pagato poco e alta produttività. Ecco perché, secondo diversi commentatori, i migranti hanno salvato dal fallimento centinaia di imprese italiane.”

Nella Premessa del citato Rapporto queste aspetti vengono ribaditi: “preoccupano evidenze come la concentrazione in profili esecutivi e quindi in livelli salariali più bassi, i ritardi dell’occupazione femminile o l’incidenza degli infortuni. Sfuggono, poi, alla certezza di queste statistiche, ma non certo all’attenzione di questo Ministero, le piaghe dell’irregolarità e dello sfruttamento. Sono criticità sulle quali bisogna intervenire, nell’interesse di tutti. Lavorare con dignità e diritti, in sicurezza, qualificarsi ed esprimere a pieno le proprie potenzialità, guadagnare di più, conciliare vita privata e professionale… Tutti presupposti irrinunciabili per la realizzazione personale come per la crescita del Paese, quel “progresso materiale o spirituale” al quale la nostra Costituzione chiama a concorrere tutti i cittadini, anche i nuovi.C’è ancora molto fare, quindi, per una completa integrazione, per contrastare la disparità di retribuzioni e diritti degli immigrati e soprattutto per combattere il persistente quanto strisciante razzismo nostrano.

Ben consapevole dello stesso fenomeno nel Regno Unito, il quotidiano inglese The Guardian ha realizzato questo magnifico e commovente video (*) che ha il grande merito di far riemergere la questione nella giusta prospettiva: è un appello al riconoscimento degli innegabili meriti di questa parte della popolazione nella drammatica evenienza della pandemia. Nè più, nè meno che in Italia. Senza il lavoro, l’impegno e il sacrificio di tanti immigrati, sarebbe stato ben più arduo fronteggiarla. Badanti, domestici, braccianti, manovali, operai, addetti ai servizi, sono stati – e sono tuttora – tra gli oscuri protagonisti che hanno consentito lo svolgersi della nostra vita quotidiana mentre in prima linea combattevano infermieri, medici, assistenti sanitari.
E continueranno a farlo, silenziosamente quanto responsabilmente.


(*) Versione con sottotitoli in italiano:

Videopoesia di The Guardian su immigrazione e pandemia

In Europa, paradisi fiscali o parassiti fiscali?

3 Mag

In questi giorni che l’Olanda è venuta – non positivamente – alla ribalta, ho trovato questo articolo di Torquato Cardilli molto chiaro ed eloquente: evidenzia una delle maggiori contraddizioni di questa Europa, ben diversa da quello che vorremmo e che – soprattutto – sognavano i padri del Manifesto di Ventotene. Parliamo di elusione fiscale e della necessità vitale di avere in Europa un’unione fiscale. 

Nel 2017 Franco Gallo scriveva sul Sole24ore : Allo stato attuale, abbiamo perciò un quadro molto variegato e disorganico di regimi e di criteri di determinazione della base imponibile, nonché di aliquote nei diversi Paesi comunitari, suscettibili di creare distorsioni e discriminazioni e, di conseguenza, di fomentare comportamenti opportunistici da parte sia degli Stati che dei singoli contribuenti.

paradisi ìfiscaliEuropa

Immagine del Corriere della Sera – 17 marzo 2019

Nella classifica degli 11  maggiori paradisi fiscali nel mondo, 6 si trovano in Europa:   Irlanda, Svizzera, Malta, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Salta subito all’occhio che le ultime tre nazioni sono parte integrante dell’Unione europea.
Incidentalmente, c’è da notare che Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea dal 2014 al 2019, era stato fino al 2013 primo ministro del Lussemburgo e fautore di una politica fiscale di favore per i redditi societari. Tanto di favore che secondo una ricerca del FMI un paese di 600.000 abitanti ha potuto raccogliere 4000 miliardi di dollari di ‘investimenti fantasma’. Poteva l’Europa, con cotanto Presidente, intraprendere la ricerca di un percorso per giungere un giorno ad un’unione fiscale?

Intendiamoci: quello dell’elusione fiscale è un problema mondiale. Come ha ben riportato Tommaso Carboni su Forbes solo pochi giorni fa: “le multinazionali spostano nei paradisi fiscali [del mondo] il 40% dei loro profitti, e fanno incassare ai governi circa 500-600 miliardi di dollari di tasse in meno, ci dice il Fondo Monetario Internazionale, a cui si aggiungono perdite di circa 200 miliardi di imposte sui redditi individuali.”  Parlando dell’Olanda, aggiunge che:un’indagine della rete di esperti fiscali Tax Justice Network, che utilizza dati pubblicati quest’anno negli Stati Uniti relativi ai profitti delle società americane in Europa, dimostra che queste società nel 2017 hanno spostato 44 miliardi di dollari di utili nel paradiso fiscale olandese, dove le aliquote delle tasse societarie sono inferiori al 5 per cento.”

E l’Italia quanto è vittima di questo perverso meccanismo? Ecco la risposta di Carboni, che si poggia su attente ricerche: “Dall’Italia fuggono (e in gran parte sono diretti verso Paesi europei a bassa tassazione) un po’ più di 17 miliardi di euro di profitti aziendali. Vuol dire per lo Stato italiano raccogliere ogni anno sei miliardi di euro in meno di tasse.” Francia e Germania perdono a loro volta rispettivamente 9,5 e 14 miliardi. Infatti il ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire,ha recentemente dichiarato che: “Dobbiamo affrontare il fatto che le più grandi aziende del mondo realizzano enormi profitti in Europa e in tutto il mondo senza pagare il giusto livello di tassazione perché non hanno alcuna presenza fisica”.

Ma è possibile ipotizzare una quasiasi forma di armonizzazione fiscale nell’Unione? Difficile cambiare le regole: le lobbies dei colossi multinazionali lavorano bene a Bruxelles. E poi oggi serve ancora l’unanimità: “Anche solo un Paese può bloccare qualsiasi forma di accordo. L’anno scorso è stata respinta una proposta comunitaria che avrebbe costretto le multinazionali a dichiarare quanti profitti realizzano e quante tasse pagano in ciascuno dei 28 Stati membri. Tutti gli Stati con regimi fiscali agevolati hanno votato contro

La speranza è rappresentata dall’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che “sta provando a cambiare le regole. Il piano è imporre una tassa minima globale, e poi far pagare le multinazionali dove realizzano le vendite, anziché dove registrano le filiali. Questo farebbe crescere le entrate fiscali, almeno nei paesi dell’Ocse, di cento miliardi di dollari l’anno. L’ideale, dopo trattative durate anni, è raggiungere un accordo a giugno, e poi avere l’endorsement del G20 per la fine dell’anno. Chissà, forse il trauma della pandemia potrebbe addirittura facilitare l’intesa.

Speriamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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