Archivio | agosto, 2014

L’economia criminale a gonfie vele: 170 miliardi, oltre il 10% del PIL*, secondo la CGIA di Mestre

30 Ago

E’ un dato impressionante ottenuto su elaborazione dei dati della Banca d’Italia. E per di più questi – come precisa Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA – ” non includono i reati violenti come furti, rapine, usura ed estorsioni, ma solo le transazioni illecite concordate tra il venditore e l’acquirente, come ad esempio contrabbando, traffico di armi, smaltimento illegale di rifiuti, gioco d’azzardo, ricettazione, prostituzione e traffico di stupefacenti”.
Parrebbe allora darsi che le ipotesi pubblicate nel 2013 sull’insieme dell’economia sommersa in Italia (il cosiddetto ‘nero’),  contenute in uno studio di Visa di 333 miliardi  (il 21% del PIL) prodotti e nello studio della Confcommercio (272 miliardi) – che parevano un pò esagerate – invece non siano affatto lontane dalla realtà.

Questo per quanto riguarda le cattive notizie. Quella buona è che c’è tutto lo spazio per recuperare, solo che venga finalmente dichiarata una vera e spietata guerra all’evasione fiscale e alla corruzione (di lotta alla criminalità dò per scontato che si stia già facendo il necessario).
Prima lo si farà e meglio sarà. Non è vero?

 

* PIL Italia 2013: 1560 miliardi di euro

 

Cos’è la SLA, cosa serve e una petizione

29 Ago

Credetemi, questa testimonianza diretta potrà sconvolgervi, così come è successo a me, ma è il modo più efficace per far capire cos’è la SLA, cosa subisce chi ne è colpito, cosa si deve fare, cosa deve fare lo Stato, cosa tutti noi. Fate pure tutte le docce gelate che volete, ma firmate questa petizione. E donate.

La miglior battuta

28 Ago

Non so se conoscete il Blogfest o Festa della Rete: ogni anno si premia col Macchianera Award il miglior blog e a seguire i migliori di ogni categoria.
Quello che segue è l’elenco dei finalisti per la miglior battuta: io sto qui da mezz’ora e non riesco a scegliere. 🙂
 
 
8. Miglior battuta
 
  • Annunciato l’arresto di Ignoto 1: ha 44 anni, sposato e con 3 figli. Pessima l’idea chiamarli Ignoto 2, Ignoto 3 e Ignoto 4. (Kotiomkin) (goo.gl/DS7ZWR)
  • Arrestato Scajola. Stavolta l’alloggio lo offriamo noi. (abkualcosa, Spinoza) (goo.gl/2jlR8M)
  • Cagliari, cede il soffitto di un liceo. Un classico. (Meniak per Prugna Dark) (goo.gl/84VJiC)
  • Delitto di Cogne: Annamaria Franzoni torna a casa 12 anni dopo il delitto. Felice il marito, sorriso di circostanza per i due figli. (Uomo morde cane) (goo.gl/sW5CSU)
  • Esce “La mia utopia”, l’ultimo libro di Renato Brunetta. Parla di basket. (Spinoza) (goo.gl/urbV9K)
  • Fabio Volo è diventato papà. “Non vedo l’ora di insegnargli a leggere e scrivere”, ha dichiarato il neonato. (Giuseppe Coppola) (goo.gl/Gz2kUu)
  • Figli di talebani brillano a scuola: 34 morti. (Fabrizio Ferri) (goo.gl/X12spi)
  • Giornalista di Studio Aperto non sa di essere in onda e dà una notizia di economia. (Lercio) (goo.gl/s58hJX)
  • Giovanni XXIII era chiamato “il Papa buono”. Per distinguerlo dagli altri. (Enrico Antonio Cameriere, Kotiomkin) (goo.gl/mpWtgb)
  • Grave blocco di Whatsapp. Per oltre 4 ore, milioni di persone costrette a vivere. (Fabio Corigliano) (goo.gl/0tHaCn)
  • Ho fatto a pezzi la mia ragazza. E adesso mi manca un sacco. (Fabrizio Ferri) (goo.gl/dgjQpG)
  • Israele si ritira. Eppure a rimpicciolirsi è la Palestina. (Spinoza) (goo.gl/KpkXSJ)
  • Leghista torna prima dal lavoro e sorprende la moglie a letto con un libro. (Labbufala) (goo.gl/tfmXqg)
  • Nicole Minetti è incinta. Complimenti a tutti. (Diego il Maestro) (goo.gl/Vx2pO8)
  • Papa Francesco non aveva mai visto così tanti polacchi. Ratzinger si, ma da bambino (@MantovanAle) (goo.gl/jmuTS5)
  • Primo risveglio per la famiglia Franzoni di nuovo riunita. Una rapida conta e poi la colazione. (@faberbros) (goo.gl/hXC6CW)
  • Scamarcio trovato vivo nel suo appartamento (Manuel Pica, Lercio) (goo.gl/auX77Z)
  • Soppressi i treni Intercity. Hanno finito di soffrire. (Stark, Spinoza) (goo.gl/BgfnP9)
  • Teramo. Donna cambia sesso per parcheggiare meglio. (Lercio.it) (goo.gl/NomqOB)
  • Tutto il PD a vedere il film di Veltroni su Berlinguer. Non avevano mai visto un comunista. (Enrico Antonio Cameriere) (goo.gl/A1qJk9)

Gli schiavi di ieri e quelli di oggi

25 Ago

Sangue rosso

Ieri sera ho rivisto – per la quinta o sesta volta – Amistad di Spielberg. Un film sulla schiavitù e su come si possa, combattendo in tutti i modi, riconquistare la libertà. Quando è giunta la scena in cui i negrieri, accortisi che non hanno provviste sufficienti per tutti, gettano a mare un gruppo di schiavi Amistad Cinquè (2)incatenati, la mia mente è andata ai poveri morti dell’ennesimo naufragio sulle coste siciliane.

Mi è così improvvisamente apparso un parallelo tra gli schiavi di ieri e quelli di oggi: qual’è la differenza, mi sono chiesto, tra i poveri migranti che vediamo sbarcare nei nostri porti, resi schiavi dalla paura e dal bisogno, e quelli del film? Quale la differenza tra chi specula lucrando sul loro trasporto, stipandoli IMMIGRAZIONE: TUNISINI FANNO SCIOPERO FAME,VOGLIAMO RISPETTOall’inverosimile su bagnarole pericolanti e rischiosi gommoni, e i mercanti di carne umana che armavano i predoni e poi rivendevano ai ricchi proprietari delle piantagioni uomini liberi resi schiavi dalla sete del profitto?

Non ho trovato una risposta razionale e forse non c’è. Ma una conclusione posso azzardarla anche se scontata. Esistono nell’animo umano inestirpabili radici di malvagità che emergono talvolta di fronte all’avidità, talaltra per motivi apparentemente più nobili, come la religione. Homo homini lupus, dicevano i romani. Avevano ragione?

 

 

Più che un feticcio a me pare una stronzata

24 Ago

Nel suo articolo di oggi su Repubblica, “Oltre il feticcio del 3%“, Mariana Mazzuccato rivolge in apertura questa domanda:

Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero?

E’ una domanda che il Presidente Renzi – nella sua veste di Presidente del semestre europeo – dovrebbe rivolgere al Consiglio UE nella sua prima riunione. Ma dopo qualche tossicchiare imbarazzato non avrebbe alcuna  risposta, perché una vera  e razionale risposta non esiste. Lo spiegò bene, tra gli altri,  Federico Rampini in un articolo di sei mesi fa (utilizzando lo stesso termine usato oggi dalla Mazzuccato): “Quel numero feticcio che governa le nostre vite” (più sotto riportato integralmente). Il 3% – che forse poteva avere, ancorchè inventato di sana pianta, un senso in tempi in cui l’economia tirava – è un riferimento assurdamente obbligato, concordato senza guardare alle future evoluzioni dell’economia mondiale.

Oggi una delle teste più lucide ed apprezzate internazionalmente (la Mazzuccato, chi altri?) torna sull’argomento e incita i governi ad abolire una buona volta quell’assurdo limite per cui il deficit statale non può essere superiore al 3% del Pil: rispettarlo bovinamente equivale a un suicidio annunciato. Dopo averlo demolito con la semplice e apparentemente banale domanda che ho riportato all’inizio e averne dimostrato l’inconsistenza, aggiunge la ricetta per uscire – il prima possibile – dalla crisi: il vero e vitale obbiettivo per l’Europa (e in particolare per l’Italia) dev’essere rappresentato da produttività e lavoro. E per questo occorre chiudere con l’austerity e fornire investimenti e riforme strutturali (dove occorrono altri investimenti).

Anziché insistere infantilmente su questioni puramente formali (la Mogherini capirà e magari sarà pure contenta), il compito di Renzi dovrebbe essere proprio questo: usare tutta la sua abilità e e pervicacia per convincere i Paesi membri della UE a superare il vincolo che si sono dati venticinque anni fa e che impedisce di fronteggiare e superare una crisi allora impensabile. Avrà più alleati e sostenitori di quanti si possa oggi immaginare.

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N.b. Il neretto neli testi è mio.

Oltre il feticcio del 3%
di Mariana Mazzuccato

da la Repubblica del 24 agosto 2014

PERCHÉ il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere.

QUESTO dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico. Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, come vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.

Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.

Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro. Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.

Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa). E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!

È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.

( Traduzione di Fabio Galimberti)

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Quel numero feticcio che governa le nostre vite
di Federico Rampini

da la Repubblica del 20 febbraio 2014

 

       Siamo vittime del feticismo dei numeri e non ne conosciamo la ragione. Chi sa dire perché siamo soggetti all’implacabile vincolo del 3%, soglia massima nel rapporto deficit/ Pil? L’Italia con Matteo Renzi a Palazzo Chigi vorrà sondare i margini di flessibilità concessi da Bruxelles, rispetto a quel numero magico e crudele. Ma la validità originaria del 3% viene raramente rimessa in discussione. In Europa, s’intende: perché negli Stati Uniti la “dottrina 3%” è stata ignorata da Barack Obama, poi pubblicamente ripudiata perfino dal Fondo monetario internazionale.

La storia di quel numero “scolpito nella pietra” è complicata, opaca e misteriosa. Risale al 1991, quando viene firmato nella città olandese di Maastricht l’omonimo Trattato, fondamento per l’unione monetaria da realizzarsi nel 1999. Economisti e giuristi che lavorano a quei testi, sotto l’autorevole influenza di Tommaso Padoa Schioppa, esplorano le condizioni per “un’area monetaria ottimale”. In cerca di criteri di stabilità, finiscono per accordarsi sui seguenti parametri per l’accesso all’euro: inflazione non più alta di 1,5 punti rispetto ai tre paesi con il tasso d’inflazione più basso; deficit statale non superiore al 3% del Pil; debito pubblico non superiore al 60% del Pil; stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l’ingresso nell’unione monetaria; tassi d’interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto ai tre paesi dai tassi più bassi.

Di tutti questi criteri, alcuni non sono mai stati veramente applicati, come quello sul debito (neppure la Germania lo rispetta). Altri hanno perso rilevanza con la creazione dell’euro: i tassi d’interesse e la parità di cambio li decide la Bce a Francoforte, non sono più oggetto di politiche nazionali. E’ rimasta in piedi la dittatura del 3%, il rapporto deficit/Pil è il criterio che può far scattare (se non rispettato) una procedura d’infrazione, trasformare un paese in vigilato speciale, e così lanciare segnali d’allarme ai mercati. Fino a quando, con severe terapie di austerity, il reprobo non rientra nei ranghi. Il 3% è diventato l’unico sacro comandamento nella religione dell’austerity.

Eppure i dubbi su quella cifra furono forti dall’inizio. Uno dei più autorevoli venne dal grande economista italiano Luigi Pasinetti. In un importante saggio pubblicato sul Cambridge Journal of Economics, nel 1998 (un anno prima della nascita dell’euro) Pasinetti attaccò duramente “mito e follìa del 3%”. Non ci andava leggero, parlando di «regno del simbolismo», a proposito di una soglia deficit/ Pil «la cui validità non è mai stata dimostrata». I giudizi di Pasinetti erano implacabili: «Nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile, sul perché quelle cifre furono scelte». Per il 60% di debito/Pil la spiegazione sembrava essere banale: grosso modo era la media europea (e in particolare franco-tedesca) ai tempi in cui veniva negoziato il Trattato di Maastricht. Anche se di lì a poco la riunificazione delle due Germanie avrebbe fatto sballare il rapporto debito/ Pil tedesco… e quella cifra anziché “magica” divenne poco rilevante, fu interpretata subito con tanta flessibilità.

Un tentativo molto più recente di dare fondamento scientifico a quelle cifre, è finito in un clamoroso infortunio: due grandi economisti americani, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt, hanno dovuto ammettere di avere sbagliato calcoli elementari, omesso statistiche importanti, in un loro studio che doveva dimostrare il nesso tra crescita e rigore di bilancio. Anche in seguito a quell’incidente, il Fondo monetario ha preso le distanze dall’austerity.

Ma il dibattito non è teorico. La confutazione del dogma è avvenuta nei fatti. Negli Stati Uniti, tanto per cominciare. Nell’abisso della recessione del 2009, non appena arrivato alla Casa Bianca Barack Obama varò una maximanovra di investimenti pubblici. Riscoprì il verbo keynesiano, l’insegnamento appreso dall’Occidente nella Grande Depressione degli anni Trenta. Nel primo biennio della presidenza Obama il deficit/Pil schizzò fino a sfiorare il 12%, il quadruplo del limite ammesso dall'”euro-religione” dell’austerity. E la cura ha funzionato. Sia nel bilancio federale, sia in quelli della finanza locale, i conti pubblici americani oggi migliorano in modo spettacolare: grazie alla ripresa (+3% del Pil, più 8 milioni di posti di lavoro), non all’austerity. Stati come la California, città come New York, sono addirittura alle prese con un dilemma positivo: come usare l’improvviso attivo di bilancio, generato non dai tagli bensì dall’economia che cresce e gonfia le entrate fiscali. In modo simile ha reagito il Giappone, si sta risollevando dalla crisi proprio perché ha fatto l’esatto contrario di quel che prescrive la religione del 3%. In quanto agli esempi di “successi” conseguiti dalla terapia europea, di recente si cita l’Irlanda come il caso di una ammalata che si riprende dopo avere applicato disciplinatamente l’austerity. Ma la pseudo- rinascita irlandese è in parte un’illusione statistica: il mercato del lavoro sembra in migliori condizioni perché una consistente quota della popolazione attiva ha ripreso la strada dell’emigrazione (verso Stati Uniti, Canada, Australia) come nel primo Novecento.

In Italia la religione del 3% ha avuto tanti sostenitori in buona fede, per un’altra ragione. Applicare la disciplina dell’austerity sembra un vincolo esterno salvifico, per impedirci di praticare vizi nazionali distruttivi: spese pubbliche parassitarie, clientelari, fonti di sprechi e corruzione. Ma il dogma del 3% impedisce un altro tipo di risanamento: che passa attraverso una consistente riduzione della pressione fiscale sul lavoro, onde restituire potere d’acquisto alle famiglie e rilanciare la crescita.

La bufala dei 45€ agli immigrati

23 Ago

Confesso che mi era sfuggito, ma rimedio ora e ringrazio di cuore l’autrice, Mara Sordini.

Non posso non commentare un post che appare su alcune bacheche, e che allude ai fantomatici 45 € che si afferma vengano elargiti ai “clandestini” sbarcati in Italia. Cercherò di farlo in modo chiaro e spero inequivocabile. Intanto non sono clandestini ma “richiedenti asilo”, profughi, rifugiati o lo status che le autorità riterranno di attribuire loro a seguito dell’istruttoria prevista dalla legge (Rif: Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, modificata dal Protocollo di New York del 31 gennaio 1967, reso esecutivo in Italia con legge 24 luglio 1954, n. 722, D.L.25 luglio 1986, n. 286 e successive modificazioni, D.L.30 dicembre 1989, n. 416, convertito dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39 e successive modificazioni).
Poi non hanno e non avranno 45 € al giorno, ma una diaria di 2,50 € che spesso mettono in comune per comprare una scheda telefonica e far sapere a casa che sono vivi. Le associazioni, enti che gestiscono le strutture che li ospitano, ricevono dallo Stato circa 30 € al giorno con cui provvedono ai loro bisogni e forniscono loro assistenza legale per mettersi in regola a norma di legge. Gli appartamenti, i 45 € e qualsiasi altro “privilegio” sono un’invenzione. I profughi di questa “ondata” sono in fuga dalla guerra e da morte certa e presto lasceranno il nostro paese per raggiungere parenti o amici nel nord europa. Credo che se non i princìpi religiosi, almeno quelli morali e civili dovrebbero indurci a compassione e solidarietà per chi di certo è meno fortunato di noi. Capisco l’indignazione di chi fatica ad arrivare alla fine del mese, ma questi non sono il nemico. I responsabili di questo tempo disgraziato sono ben altri, sono gli evasori, i politici corrotti, la supremazia della finanza sull’economia, e potrei allungare la lista all’infinito. Poi ognuno può continuare ad avere le proprie opinioni, ma almeno senza l’alibi di ignobili menzogne.

Hedy Epstein, il coraggio della coerenza

20 Ago

L’altro ieri Hedy Epstein, una signora che ha compiuto 90 anni il 15 agosto, ha salutato amici e parenti venuti a festeggiarla a St. Louis, si è recata a Ferguson a manifestare per Ferguson 1Michael Brown, un adolescente Ferguson 3afroamericano ucciso una settimana prima dalla polizia nonostante fosse disarmato e alle 16 e trenta è stata ammanettata e arrestata insieme ad altri otto dimostranti per essersi rifiutata di sciogliere l’assembramento.

“Sono molto, molto preoccupata per quello che sta succedendo – ha dichiarato a Newsweek – Questo è razzismo e ingiustizia”. E la Epstein di ingiustizia ne sa qualcosa: è probabilmente la più famosa attivista al mondo per i diritti civili. “Sono quello che sono – ha proseguito – per quello che mi hanno HEDY EPSTEINinsegnato i miei genitori e per quello che ho visto. Per me sono stati un esempio di vita e di come non si deve perseguitare nessuno. E mi piace pensare che sarebbero orgogliosi di me”. Negli anni ha partecipato alle manifestazioni per il diritto all’aborto, per la casa, per Haiti, come delegata per la pace è stata in Guatemala, Nicaragua, Cambogia ed è una strenua sostenitrice del Movimento per Gaza Libera. E questo è davvero abbastanza strano, visto che è una sopravvissuta all’Olocausto.

Nata  Freiburg in Germania nel 1924, aveva solo otto anni quando Hitler prese il potere. Lentamente ma inesorabilmente la persecuzione degli ebrei ebbe inizio e sei anni dopo i suoi genitori riuscirono a farla espatriare in Inghilterra con un Kindertransport, un’operazione di salvataggio britannica che portò al sicuro oltre 10.000 bambini ebrei. Nessuno della sua famiglia, oltre venti persone, è sopravvissuta: dopo essere stati internati in Francia furono probabilmente sterminati ad Auschwitz. Alla fine della guerra tornò in Germania come ricercatrice e interprete ai processi di Norimberga e nel 1948 arrivò negli Stati Uniti. Il primo giorno di lavoro chiese ad una collega afroamericana di andare a pranzo insieme, ma la donna rifiutò l’invito. La cosa si ripetè più volte nei giorni seguenti fin quando Hedy non le chiese se le stava antipatica e la donna le spiegò che non poteva frequentare il suo stesso ristorante. “Ma siamo nel 1948 – Hedy osservò – Lincoln ha eliminato la schiavitù più di ottant’anni fa!”

Quello fu l’inizio. Da allora Hedy non ha mai cessato di battersi per i diritti degli oppressi. “Nel 1982 – ha raccontato nel 2010 al Los Angeles Times – ho sentito dei massacri dei rifugiati a Sabra e Shatila in Libano ed Hedy Epstein, 85, (L) a a US activist anho voluto saperne di più su quanto era successo in Palestina tra il 1948 e il 1982. Man mano che andavo avanti  cresceva il mio dissenso verso la politica di Israele e del suo esercito. Così nel 2003 sono andata per la prima volta nella West Bank [Cisgiordania] e ci sono tornata cinque volte da allora”. E a chi l’accusa di essere anti-Israele ribatte: “Tu puoi criticare ogni altro paese, compresi gli Stati Uniti, ma non Israele, ma che roba è questa?”

Questa è logica. E coerenza. E soprattutto coraggio delle idee.

 

Un Paese senza memoria è un Paese senza orgoglio

20 Ago

L’Archivio di Stato corre il rischio di chiudere e anche la Biblioteca Nazionale non sta messa bene. In questa documentata inchiesta di Repubblica, troviamo tutti i mali che nessun governo si è mai interessato di sanare: il disinteresse, l’incuria, l’incapacità. Povera Italia.

Solo quattro anni sprecati? Magari

20 Ago

Oggi su Repubblica, Luciano Gallino analizza gli ultimi quattro anni di governo dell’Italia e i risultati raggiunti dai Presidenti del Consiglio che si sono succeduti, Berlusconi, Monti, Letta. La sintesi è penosa. Tuttavia, potrebbe insegnare qualcosa all’attuale guida del Governo, Renzi, e cioè quanto sia non più rinviabile un serio e completo piano di rilancio dell’economia. Quindi basta con le riforme costituzionali che non portano da nessuna parte, create solo per dare maggior potere dell’esecutivo (del momento, non dimentichiamolo) e si pensi a creare nuovi posti di lavoro, a sostenere le imprese con indicazioni e progetti, a rilanciare la scuola e la ricerca: come dice Mariana Mazzuccato, lo Stato diventi innovatore e imprenditore. L’alternativa la conosciamo già, anzi siamo già dentro la sua anticamera: la recessione.

 

QUATTRO ANNI SPRECATI

di Luciano Gallino

QUALCOSA come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.

Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.

Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.

Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro — quelle tedesche — che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.

Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.

Tranquillo Scalfari, Renzi non ci deluderà (purtroppo)

17 Ago

Nel suo editoriale di oggi su Repubblica (“Roosevelt  non ci riuscì, ora ci prova lo scout italiano“), Scalfari conclude così:

“Nel frattempo temo che il governo impieghi una parte preziosa del suo tempo alla riforma della legge elettorale che così come la stanno pensando servirà soltanto a rafforzare il potere esecutivo. Ma di questo ho già parlato e ormai me ne è passata la voglia. Un esecutivo forte è quanto ci vuole per farci uscire dalla depressione; se invece il suo principale miraggio è quello di rafforzarsi sempre di più, allora bisognerà ridiscutere non solo di depressione e di deflazione ma anche di democrazia individuale e sovranità popolare fittizia, una strada che rischiamo d’aver già imboccato riducendo il Senato a un’istituzione che prima sarà del tutto abolita e meglio sarà.”

Mi permetto di dissentire vigorosamente dal fondatore di Repubblica: il governo ha già dilapidato una buona parte del poco tempo  a disposizione nell’inutile riforma della Costituzione e del Senato. E quindi Renzi farà lo stesso con la legge elettorale (peraltro pessima, oltre che concordata con Forza Italia) mettendo in secondo piano l’economia. Intanto il Paese langue e si avvicina pericolosamente al baratro.

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