Nel suo articolo di oggi su Repubblica, “Oltre il feticcio del 3%“, Mariana Mazzuccato rivolge in apertura questa domanda:
Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero?
E’ una domanda che il Presidente Renzi – nella sua veste di Presidente del semestre europeo – dovrebbe rivolgere al Consiglio UE nella sua prima riunione. Ma dopo qualche tossicchiare imbarazzato non avrebbe alcuna risposta, perché una vera e razionale risposta non esiste. Lo spiegò bene, tra gli altri, Federico Rampini in un articolo di sei mesi fa (utilizzando lo stesso termine usato oggi dalla Mazzuccato): “Quel numero feticcio che governa le nostre vite” (più sotto riportato integralmente). Il 3% – che forse poteva avere, ancorchè inventato di sana pianta, un senso in tempi in cui l’economia tirava – è un riferimento assurdamente obbligato, concordato senza guardare alle future evoluzioni dell’economia mondiale.
Oggi una delle teste più lucide ed apprezzate internazionalmente (la Mazzuccato, chi altri?) torna sull’argomento e incita i governi ad abolire una buona volta quell’assurdo limite per cui il deficit statale non può essere superiore al 3% del Pil: rispettarlo bovinamente equivale a un suicidio annunciato. Dopo averlo demolito con la semplice e apparentemente banale domanda che ho riportato all’inizio e averne dimostrato l’inconsistenza, aggiunge la ricetta per uscire – il prima possibile – dalla crisi: il vero e vitale obbiettivo per l’Europa (e in particolare per l’Italia) dev’essere rappresentato da produttività e lavoro. E per questo occorre chiudere con l’austerity e fornire investimenti e riforme strutturali (dove occorrono altri investimenti).
Anziché insistere infantilmente su questioni puramente formali (la Mogherini capirà e magari sarà pure contenta), il compito di Renzi dovrebbe essere proprio questo: usare tutta la sua abilità e e pervicacia per convincere i Paesi membri della UE a superare il vincolo che si sono dati venticinque anni fa e che impedisce di fronteggiare e superare una crisi allora impensabile. Avrà più alleati e sostenitori di quanti si possa oggi immaginare.
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N.b. Il neretto neli testi è mio.
Oltre il feticcio del 3%
di Mariana Mazzuccato
da la Repubblica del 24 agosto 2014
PERCHÉ il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere.
QUESTO dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico. Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, come vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.
Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.
Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro. Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.
Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa). E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!
È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.
( Traduzione di Fabio Galimberti)
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Quel numero feticcio che governa le nostre vite
di Federico Rampini
da la Repubblica del 20 febbraio 2014
Siamo vittime del feticismo dei numeri e non ne conosciamo la ragione. Chi sa dire perché siamo soggetti all’implacabile vincolo del 3%, soglia massima nel rapporto deficit/ Pil? L’Italia con Matteo Renzi a Palazzo Chigi vorrà sondare i margini di flessibilità concessi da Bruxelles, rispetto a quel numero magico e crudele. Ma la validità originaria del 3% viene raramente rimessa in discussione. In Europa, s’intende: perché negli Stati Uniti la “dottrina 3%” è stata ignorata da Barack Obama, poi pubblicamente ripudiata perfino dal Fondo monetario internazionale.
La storia di quel numero “scolpito nella pietra” è complicata, opaca e misteriosa. Risale al 1991, quando viene firmato nella città olandese di Maastricht l’omonimo Trattato, fondamento per l’unione monetaria da realizzarsi nel 1999. Economisti e giuristi che lavorano a quei testi, sotto l’autorevole influenza di Tommaso Padoa Schioppa, esplorano le condizioni per “un’area monetaria ottimale”. In cerca di criteri di stabilità, finiscono per accordarsi sui seguenti parametri per l’accesso all’euro: inflazione non più alta di 1,5 punti rispetto ai tre paesi con il tasso d’inflazione più basso; deficit statale non superiore al 3% del Pil; debito pubblico non superiore al 60% del Pil; stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l’ingresso nell’unione monetaria; tassi d’interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto ai tre paesi dai tassi più bassi.
Di tutti questi criteri, alcuni non sono mai stati veramente applicati, come quello sul debito (neppure la Germania lo rispetta). Altri hanno perso rilevanza con la creazione dell’euro: i tassi d’interesse e la parità di cambio li decide la Bce a Francoforte, non sono più oggetto di politiche nazionali. E’ rimasta in piedi la dittatura del 3%, il rapporto deficit/Pil è il criterio che può far scattare (se non rispettato) una procedura d’infrazione, trasformare un paese in vigilato speciale, e così lanciare segnali d’allarme ai mercati. Fino a quando, con severe terapie di austerity, il reprobo non rientra nei ranghi. Il 3% è diventato l’unico sacro comandamento nella religione dell’austerity.
Eppure i dubbi su quella cifra furono forti dall’inizio. Uno dei più autorevoli venne dal grande economista italiano Luigi Pasinetti. In un importante saggio pubblicato sul Cambridge Journal of Economics, nel 1998 (un anno prima della nascita dell’euro) Pasinetti attaccò duramente “mito e follìa del 3%”. Non ci andava leggero, parlando di «regno del simbolismo», a proposito di una soglia deficit/ Pil «la cui validità non è mai stata dimostrata». I giudizi di Pasinetti erano implacabili: «Nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile, sul perché quelle cifre furono scelte». Per il 60% di debito/Pil la spiegazione sembrava essere banale: grosso modo era la media europea (e in particolare franco-tedesca) ai tempi in cui veniva negoziato il Trattato di Maastricht. Anche se di lì a poco la riunificazione delle due Germanie avrebbe fatto sballare il rapporto debito/ Pil tedesco… e quella cifra anziché “magica” divenne poco rilevante, fu interpretata subito con tanta flessibilità.
Un tentativo molto più recente di dare fondamento scientifico a quelle cifre, è finito in un clamoroso infortunio: due grandi economisti americani, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt, hanno dovuto ammettere di avere sbagliato calcoli elementari, omesso statistiche importanti, in un loro studio che doveva dimostrare il nesso tra crescita e rigore di bilancio. Anche in seguito a quell’incidente, il Fondo monetario ha preso le distanze dall’austerity.
Ma il dibattito non è teorico. La confutazione del dogma è avvenuta nei fatti. Negli Stati Uniti, tanto per cominciare. Nell’abisso della recessione del 2009, non appena arrivato alla Casa Bianca Barack Obama varò una maximanovra di investimenti pubblici. Riscoprì il verbo keynesiano, l’insegnamento appreso dall’Occidente nella Grande Depressione degli anni Trenta. Nel primo biennio della presidenza Obama il deficit/Pil schizzò fino a sfiorare il 12%, il quadruplo del limite ammesso dall'”euro-religione” dell’austerity. E la cura ha funzionato. Sia nel bilancio federale, sia in quelli della finanza locale, i conti pubblici americani oggi migliorano in modo spettacolare: grazie alla ripresa (+3% del Pil, più 8 milioni di posti di lavoro), non all’austerity. Stati come la California, città come New York, sono addirittura alle prese con un dilemma positivo: come usare l’improvviso attivo di bilancio, generato non dai tagli bensì dall’economia che cresce e gonfia le entrate fiscali. In modo simile ha reagito il Giappone, si sta risollevando dalla crisi proprio perché ha fatto l’esatto contrario di quel che prescrive la religione del 3%. In quanto agli esempi di “successi” conseguiti dalla terapia europea, di recente si cita l’Irlanda come il caso di una ammalata che si riprende dopo avere applicato disciplinatamente l’austerity. Ma la pseudo- rinascita irlandese è in parte un’illusione statistica: il mercato del lavoro sembra in migliori condizioni perché una consistente quota della popolazione attiva ha ripreso la strada dell’emigrazione (verso Stati Uniti, Canada, Australia) come nel primo Novecento.
In Italia la religione del 3% ha avuto tanti sostenitori in buona fede, per un’altra ragione. Applicare la disciplina dell’austerity sembra un vincolo esterno salvifico, per impedirci di praticare vizi nazionali distruttivi: spese pubbliche parassitarie, clientelari, fonti di sprechi e corruzione. Ma il dogma del 3% impedisce un altro tipo di risanamento: che passa attraverso una consistente riduzione della pressione fiscale sul lavoro, onde restituire potere d’acquisto alle famiglie e rilanciare la crescita.
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