Archivio | gennaio, 2017

IL RUOLO PERDUTO DELLA POLITICA

31 Gen

Penso che Piero Ignazi sia uno dei più lucidi analisti della nostra realtà politica. L’eloquente quanto (a dir poco) sconfortante titolo di questo post infatti è di un suo commento pubblicato domenica su Repubblica, stranamente introvabile sul sito.

Poco male: proverò qui a darne una sintesi per chi non avesse avuto l’opportunità di leggerlo (n.b. il neretto è sempre mio).
Ignazi apre facendo notare come la nota conclusiva della sentenza della Corte sull’Italicum, che rende immediatamente applicabile la legge elettorale, “si scontra con il richiamo che il  Presidente della Repubblica ha espresso più volte ad armonizzare le leggi elettorali per la Camera ed il Senato prima di andare al voto”. La ragione è data dalla torsione che la politica subisce, lasciando spazi “ad interventi di organi diversi da quelli determinati dalla volontà popolare e quindi a perdere “legittimità propria”. Assistiamo quindi “ad un cedimento della politica per incapacità propria, e ad un ricorso esorbitante, ossessivo, supino, ad autorità esterne”. Gran parte della classe politica – prosegue Ignazi – ha ripetuto in questi mesi che occorreva “attendere la sentenza della Corte, come se il Parlamento fosse incapacitato a intervenire su questo tema che è squisitamente politico e di sua esclusiva competenza”.

Purtroppo, le premesse scoraggiano chiunque. Nel Pd “prevale il bisogno di rivincita e di riaffermazione dell’attuale leadership. Il segretario del partito democratico si dimostra del tutto disinteressato a favorire una intesa con gli altri partiti per una nuova, buona, condivisa legge elettorale che valga per i decenni futuri e non per le prossime elezioni.” E ciò nonostante che, per le regole uscite dalle sentenze della Corte Costituzionale, “intervenire per definire una legge che contempli i due principi cardine di ogni sistema elettorale – governabilità e rappresentatività – costituisce un vero imperativo per la classe politica”.  Infatti,”il riformismo elettorale ipercinetico di questi anni ha indirettamente delegittimato le istituzioni e la stessa classe politica”, diffondendo “l’idea che le norme si facciano per la convenienza del governante di turno.”

Occorre ribaltare questa prospettiva, afferma Ignazi. La legge elettorale che il Parlamento “deve” approvare non deve essere fatta “per favorire o inibire il successo di qualcuno”, come avvenne per il Porcellum di Calderoli. In questo percorso, va tenuta nella massima considerazione la necessità “di riannodare un rapporto fiduciario tra elettori ed eletti… un obbiettivo imposto dal clima di sfiducia imperante.. che certo non viene risolto con la soluzione del sorteggio indicata dalla Corte… per risolvere il problema delle pluricandidature, su cui, invece non si sono sollevate obiezioni. Una classe politica al punto più basso della fiducia e della stima necessita, almeno da parte delle sue componenti più consapevoli, di un colpo d’ala che dimostri di pensare al bene comune e non a quelli particolari.

Conclusione: “Andare alle elezioni subito, così, senza muovere un comma delle attuali norme elettorali ‘Frankenstein’” serve solo a dimostrare “di tenere in conto solo interessi di parte” e che “la politica ha perso ogni legittimità a disegnare il futuro”.

Fin qui il commento di Ignazi, che devo, purtroppo, condividere, sapendo di essere tutt’altro che solo. Ma c’è un’altra considerazione da fare, assai più pratica. e ci ha pensato l’istituto Demopolis guidato da Ilvo Diamanti con alcune simulazioni.
Qualora il Parlamento non riuscisse a modificare la legge risultante dalle censure della Consulta, il risultato del voto darebbe – con ogni probabilità – un parlamento impossibile, che non consentirebbe alcun tipo di governo.Appare oggi improbabile – spiega il direttore di Demopolis Pietro Vento – che una lista, da sola, possa raggiungere la soglia del 40%, in grado di garantire alla Camera il premio di maggioranza dopo l’abolizione del ballottaggio da parte della Corte Costituzionale. E, in ogni caso, se per ipotesi accadesse, la lista non avrebbe comunque una maggioranza al Senato dove si voterebbe con un proporzionale puro su base regionale, senza alcun premio di governabilità”.

E allora? Capi di partiti, deputati, senatori, confrontatevi con questi diagrammi e valutate voi. Gli elettori vi sapranno dire come vi hanno giudicato.

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In un piccolo borgo di montagna del nostro nord-est, un mondo chiuso e apparentemente quasi ostile, il giovane carabiniere Paternò si trova di fronte al duplice omicidio di due cacciatori. Paternò non è un carabiniere comune: nonostante la giovane età ha una storia alle spalle che pesa sulla sua esistenza, con angoli bui che non conosce o forse non vuole esplorare e le indagini cui si dedica senza il permesso dei suoi superiori conducono in diverse direzioni. Incontra così vari personaggi che rappresentano tutti insieme un conciso panorama delle due realtà di una certa Italia: retriva per un lato ma dall’altro generosa, ottusa per un verso ma per un altro aspetto aperta alle istanze sociali.
La storia si sviluppa su due piani paralleli scritti uno al passato e l’altro al presente, come la personalità di Paternò che si è sviluppata su due dimensioni: quella della tragedia familiare e quella intima e personale, che si sono intrecciate fino a costruire un insieme complesso che parlando di sé descrive come ‘una casa senza finestre’. Accade così che accanto all’indagine se ne sviluppi inconsapevolmente una seconda in cui Paternò insegue soprattutto due cose che non ha avuto dalla vita: giustizia e amore. Le incontrerà entrambe un poco alla volta attraverso piccole conquiste e sconfitte e alla fine riuscirà, dando un contributo fondamentale, a risolvere il caso e contemporaneamente a scoprire quel sentimento che ha rappresentato la chiave nascosta della sua ricerca.

Come una casa senza finestre

30 gennaio 2017

29 Gen

 

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In un piccolo borgo di montagna del nostro nord-est, un mondo chiuso e apparentemente quasi ostile, il giovane carabiniere Paternò si trova di fronte al duplice omicidio di due cacciatori. Paternò non è un carabiniere comune: nonostante la giovane età ha una storia alle spalle che pesa sulla sua esistenza, con angoli bui che non conosce o forse non vuole esplorare e le indagini cui si dedica senza il permesso dei suoi superiori conducono in diverse direzioni. Incontra così vari personaggi che rappresentano tutti insieme un conciso panorama delle due realtà di una certa Italia: retriva per un lato ma dall’altro generosa, ottusa per un verso ma per un altro aspetto aperta alle istanze sociali.
La storia si sviluppa su due piani paralleli scritti uno al passato e l’altro al presente, come la personalità di Paternò che si è sviluppata su due dimensioni: quella della tragedia familiare e quella intima e personale, che si sono intrecciate fino a costruire un insieme complesso che parlando di sé descrive come ‘una casa senza finestre’. Accade così che accanto all’indagine se ne sviluppi inconsapevolmente una seconda in cui Paternò insegue soprattutto due cose che non ha avuto dalla vita: giustizia e amore. Le incontrerà entrambe un poco alla volta attraverso piccole conquiste e sconfitte e alla fine riuscirà, dando un contributo fondamentale, a risolvere il caso e contemporaneamente a scoprire quel sentimento che ha rappresentato la chiave nascosta della sua ricerca.

Come una casa senza finestre

Per Giulio Regeni, un anno dopo

25 Gen

Nell’anniversario dell’insensato e crudele assassinio di Giulio Regeni, il sito di giornalismo indipendente Valigia Blu (1) pubblica la cronistoria di un anno di fatti e notizie.

Ad oggi, la verità è ancora nascosta nelle menzogne del criminale regime del dittatore Al-Sisi. Ogni giorno che passa, però, sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale e per l’istancabile opera degli investigatori si aggiungono nuovi tasselli e si susseguono, sempre più complete e dettagliate, le inchieste giornalistiche come quella di Jacona per PresaDiretta e quella di Floriana Buffon su l’Espresso. I goffi tentativi, i ripetuti depistaggi, le bugie della polizia, della sicurezza e delle varie autorità egiziane  implicate e dello stesso presidente (che – mentendo – aveva  più volte assicurato il suo personale impegno) hanno ormai vita breve.
Oggi ricordiamo un giovane italiano, coraggioso e pieno di talento. E nessuno può farlo meglio dei genitori di Giulio, la cui dignità e forza d’animo sono un esempio, ed ai quali ci uniamo tutti in un grande abbraccio collettivo.

letteragenitoriregeni(1) Valigia Blu. Senza editori, senza pubblicità. Per i lettori, con i lettori. Semplicemente giornalismo.

Giornalismo vero, aggiungo io.

 

 

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copertina-cucsfhttp://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/296575/come-una-casa-senza-finestre/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Costituzione, l’unica certezza

19 Gen

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“Bisogna volere mettere in opera la Costituzione. È questa la politica alla quale dovrebbe orientarsi con decisione una forza che si ispira a valori di solidarietà e di democrazia. Certo, non si tratta di progetti che stanno facilmente insieme a politiche liberiste, e che anzi mettono in discussione la filosofia degli 80 euro e anche buona parte della riforma cosiddetta della “buona scuola”. Partire dalla Costituzione è una condizione essenziale e non nebulosa per superare le divisioni e le fratture. Per recuperare la fiducia e credibilità dei cittadini, che non vogliono la luna o teorie sofisticate e astratte, ma una forza politica che si proponga di mettere in atto con intelligenza e passione le promesse della nostra democrazia.”

Con la consueta lucidità Nadia Urbinati ieri, su Repubblica, ha analizzato la situazione e il compito che attende la ‘sinistra’, se questa vuole recuperare credibilità e se saprà essere ancora la forza da cui si attende che si batta strenuamente per pari opportunità, solidarietà, diritti elementari, lavoro. 
Il lavoro: la pietra fondativa della Costituzione repubblicana, che oltre all’art. 1 e 4, con l’art. 35 afferma che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. E quindi è “da questa visione democratica e sociale che nasce infine l’idea che l’iniziativa economica sia soggetta a vincoli, nel senso che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» o in modo da «recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41).

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SINISTRA, RIPARTIRE DALLA CARTA PER COMBATTERE L’ESCLUSIONE

di Nadia Urbinati

Quel che manca alla Sinistra è prima di tutto la credibilità. Non solo dell’elettorato da conquistare ma anche dei suoi simpatizzanti che spesso (come è successo negli Stati Uniti ma anche in alcune tornate elettorali regionali nel nostro paese) decidono di astenersi perché non si riconoscono nei candidati, nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo del partito. Il risultato del referendum del 4 dicembre scorso parla anche di questo: gli italiani hanno mostrato di dare credibilità più al patto fondativo che a coloro che lo applicano. E hanno anche fatto capire che in un tempo di grandi incertezze, la Costituzione è probabilmente la maggiore certezza che hanno. Nel dubbio, meglio non rischiare: questa la logica in filigrana della vittoria del No. Che non è per nulla una parentesi o una tappa che interrompe un corso, quello cominciato dalla leadership renziana con la vittoria alle primarie e poi l’ascesa al governo. Non è una parentesi perché dal 2014 ad oggi è mancata una visione politica al di là dei destini della battaglia referendaria. Cominciamo da mille giorni fa.

Matteo Renzi ha esordito come presidente del Consiglio con una introduzione al volume di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, per l’occasione ristampato da Donzelli. Erano due i paradigmi centrali che facevano da architrave del suo pensiero sulla nuova sinistra: innanzi tutto la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza (sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia con la destra) e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/ sinistra. Destra e sinistra, scriveva Renzi, non coincidono più con la libertà individualistica in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia, aggiungeva, appartiene a un mondo in cui le menti e le idee era ordinate per classi; oggi, alle classi è subentrata la complessità e quelle due grandi idee — quelle che danno identità alla nostra come a tutte le costituzioni democratiche — non servono ad orientarci né nel giudizio politico né nelle scelte.

Finita la diade libertà/eguaglianza, quel che ci resta è un aggregato di individui distribuiti sulla scala sociale: Renzi usava paradigmi di posizione, come alto/basso: ci sono gli “ultimi” e i “primi”, diceva, e una sinistra moderna deve porsi l’obiettivo di attivare le energia individuali per portare gli ultimi a vincere lotta darwiniana e salire su. Questa era l’idea di “nuova sinistra” con la quale Renzi ha inaugurato il suo governo: una visione che ci riportava al ” self- made man” di ottocentesca memoria e che ha in effetti orientato le sue politiche redistributive, quelle sulla scuola e sul lavoro.

Nella recente intervista rilasciata a Repubblica Renzi è tornato sul luogo del delitto: ha sostenuto che di sinistra c’è bisogno, e ha provato a coniugarla con altre dicotomie: esclusi/inclusi, innovazione/identità, paura/speranza. «Gli esclusi sono la vera nuova faccia della diseguaglianza, dobbiamo farli sentire rappresentati» (solo farli sentire o farli essere?). Ma come fare questo? Una risposta (di sinistra) sarebbe quella di partire dalla Costituzione, che non è una carta di vuote promesse e che impegna i partiti e i cittadini, che con essi “concorrono” alla determinazione delle politiche, a mettere in atto scelte coerenti. Combattere l’esclusione significa, allora, dare vigore alla capacità di governo e di rappresentanza che si sprigiona dalla cittadinanza — a questo serve una legge elettorale coerente. Ma non basta: occorre prendere sul serio gli articoli 2 e 3 che spronano a promuovere coraggiose politiche di opportunità al lavoro e all’educazione. Non si tratta di una lotta per fare “primi” gli “ultimi” ma per dare a tutti/e le condizioni essenziali affinché la realizzazione personale non sia un’illusione o una vuota speranza.

In questo contesto sta la sinistra: il contesto delle politiche del lavoro e dello sviluppo delle capacità. Il lavoro è la condizione imprescindibile dei cittadini moderni, e alcune costituzioni, come la nostra, sono molto esplicite nel riconoscerlo. Amintore Fanfani (che comunista non era) difese l’articolo 1 dicendo con limpida chiarezza (che fa difetto alla sinistra attuale) che il lavoro è sinonimo di eguaglianza democratica, contro il privilegio e il parassitismo; è un dovere responsabile verso se stessi e la società, perciò luogo di diritti, tra i quali quelli a salari che consentano «una esistenza libera e dignitosa» (a questo proposito l’articolo 35 dice che «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»). È da questa visione democratica e sociale che nasce infine l’idea che l’iniziativa economica sia soggetta a vincoli, nel senso che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» o in modo da «recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41).

Bisogna volere mettere in opera la Costituzione. È questa la politica alla quale dovrebbe orientarsi con decisione una forza che si ispira a valori di solidarietà e di democrazia. Certo, non si tratta di progetti che stanno facilmente insieme a politiche liberiste, e che anzi mettono in discussione la filosofia degli 80 euro e anche buona parte della riforma cosiddetta della “buona scuola”. Partire dalla Costituzione è una condizione essenziale e non nebuslosa per superare le divisioni e le fratture. Per recuperare la fiducia e credibilità dei cittadini, che non vogliono la luna o teorie sofisticate e astratte, ma una forza politica che si proponga di mettere in atto con intelligenza e passione le promesse della nostra democrazia.

 

 

Ancora sulla disuguaglianza

16 Gen

Poco più di dieci giorni fa si parlava qui di povertà e di disuguaglianze. CarteinRegola,  grazie ai microfoni di Radio Impegno, se n’è occupata in una ‘Notte della povertà’. Oggi  Giorgia Furlan su Left rilancia l’argomento  prendendo lo spunto dall’ultimo rapporto Oxfam  International e il quadro che appare è disastroso. Giorni fa ne aveva parlato anche Alessandro Gilioli, come al solito con cruda lucidità, così concludendo:
“Eppure, forse, oggi – con i dati di realtà inoppugnabili sulla enorme concentrazione di ricchezze che è avvenuta negli ultimi trent’anni e sulla situazione drammatica in cui troviamo, anche in termini di stabilità e prospettive comuni – si potrebbe avanzare l’ipotesi che redistribuire un po’ sia utile non solo a chi se ne avvantaggia direttamente, ma a tutto il sistema economico.”

Ma i grandi del mondo – fatta eccezione per papa Francesco – lo capiranno? Temo di no: tocca a noi.

disuaglianza

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Rapporto Oxfam. Quando la ricchezza di pochi è un freno per il benessere di tutti

Otto uomini da soli possiedono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, cioè la metà più povera dell’intera popolazione mondiale. Ecco qualche dato diffuso con l’ultimo rapporto Oxfam alla vigilia dell’apertura del World Economic Forum di Davos (prevista per il 17 gennaio) che fa riflettere su quanto siano in aumento la diseguaglianza sociale e la povertà.

Dal 2015 l’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza netta del resto del pianeta.
Come ha ricordato Barack Obama lo scorso settembre di fronte all’assemblea della Nazioni Unite: «un mondo in cui l’1% possiede la stessa ricchezza del restante 99% è un mondo che non può essere stabile».

Le disuguaglianze sono destinate ad aumentare. Secondo le stime di Oxfam infatti nei prossimi 20 anni 500 persone trasmetteranno ai propri eredi circa 2.100 miliardi di dollari, una somma superiore al prodotto interno lordo dell’India dove vivono 1,3 miliardi di persone, la maggior parte delle quali in situazioni di estrema povertà.

Negli ultimi vent’anni i redditi del 10% più povero dell’umanità sono aumentati di meno di 3 dollari l’anno. Quelli dell’1% più ricco della popolazione di 187 volte. Mentre negli Usa, negli ultimi trent’anni, a quanto riporta l’economista francese Thomas Piketty, se da un lato i redditi del 50% più povero della popolazione sono cresciuti dello 0%, quelli invece dell’1% più ricco sono aumentati del 300%.

Un amministratore delegato di una delle cento società principali quotate in borsa (quelle dell’Ftse 100 che possiedono circa l’80% della capitalizzazione di mercato del London Stock Exchange, una principali piazze finanziarie al mondo, nonché la prima in Europa per capitalizzazione) guadagna tanto quanto guadagnano in media circa 10mila lavoratori di una fabbrica qualsiasi di abbigliamento in Bangladesh.
A dicembre 2016 qualcuno ha osato protestare: migliaia di operai bengalesi sono scesi in piazza per scioperare contro le condizioni di lavoro disumane alle cui erano sottoposti e i salari bassissimi con cui venivano retribuiti dai grandi marchi di abbigliamento per i quali lavoravano (Gap, H&M e Zara, per nominarne qualcuno). I risultato sono stati licenziamenti di massa, almeno 1500 persone sono state licenziate in tronco per aver partecipato alle manifestazioni sindacali che in molti casi sono state addirittura dichiarate illegali dalle autorità locali.

In Vietnam la persona più ricca del Paese guadagna in un solo giorno più di quanto la persona più povera guadagna in 10 anni.

E poi ci sono loro, gli 8 paperoni che insieme possiedono quanto la metà più povera del pianeta. Al primo posto troviamo il fondatore di Microsoft Bill Gates con un patrimonio di 75 miliardi di dollari, più o meno lo stesso Pil dell’intera Libia, sette volte il Pil del Burkina Faso. Al secondo posto il proprietario di Zara, Amacio Ortega, uno che prima ha costruito la sua fortuna dal nulla e poi sul basso costo della manodopera delle sue fabbriche in Bangladesh, ha un patrimonio di 67 miliardi di dollari. Oltre a Zara possiede Bershka, Massimo Dutti, Pull and Bear, Stradivarius e Oysho. È invece Warren Buffett con 60,8 miliardi di dollari il terzo uomo più ricco al mondo. Segono i tre miliardari sul podio in ordine di ricchezza: Carlos Slim, proprietario del Grupo Carso, oggi il più importante colosso della telefonia dell’America Latina, Jeff Bezos papà di Amazon, Mark Zuckerberg ideatore di Facebook, Larry Ellison cofounder ed ex Ceo di Oracle Corporation e Micheal Bloomberg.

La disuguaglianza ha assunto dimensioni intollerabili, economia e politica si intrecciano aprendo così a scenari di instabilità. Si legge nel report di Oxfam: «Dalla Brexit al successo della campagna presidenziale di Donald Trump, da una preoccupante avanzata del razzismo alla sfiducia generalizzata nella classe politica, sono tanti i segnali che indicano come sempre più persone, nei Paesi industrializzati, non siano più disposte a tollerare lo status quo». E ancora: «Se lasciata senza controllo, la crescente disuguaglianza minaccia di lacerare le nostre società, causa un aumento della criminalità e dell’insicurezza e pregiudica l’esito della lotta alla povertà».
La sfida è dunque a tutti gli effetti la riduzione del divario fra ricchi e poveri, una sfida che rimette in discussione l’intero sistema occidentale di accumulo della ricchezza, ma che conviene a tutti, anche ai super ricchi. Come scrive infatti su agi.it il condirettore dell’agenzia di stampa Marco Pratellesi: «Questa estremizzazione nella distribuzione delle ricchezze travalica ogni contrapposizione tra ricchi e poveri per diventare essa stessa un freno allo sviluppo e alla crescita, all’innovazione e alla pacifica convivenza. Il paradosso è che l’attuale sistema economico, che beneficia sempre più ristrette cerchie di pochi fortunati, finisce per danneggiare anche quest’ultimi, sempre più attratti dalla moltiplicazione finanziaria dei profitti, piuttosto che dalla ricerca di nuovi spazi di economia reale, innovazione e sviluppo sui quali investire e sperimentare».

La Corte e l’art. 18

12 Gen

consultapalazzoIl titolo di questo post è tratto da un articolo scritto da Domenico Gallo, presidente del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale,  per Micromega.
Lo propongo a quanti, io tra di essi, sono rimasti a dir poco delusi dalla sentenza della Consulta circa la non ammissibilità del referendum sull’art.18.

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Se la politica non funziona, se le domande di diritti non vengono ascoltate dagli organi della democrazia rappresentativa, inevitabilmente si carica un peso da novanta sugli organi giurisdizionali di garanzia che non sempre sono in grado di reggerlo. In particolare una responsabilità particolarmente delicata è calata sulla Corte costituzionale che negli ultimi anni è dovuta intervenire più volte, in contrapposizione all’establishment politico, per tutelare l’ordinamento dagli effetti nefasti delle leggi ad personam e i diritti dei cittadini compressi dall’uso disinvolto dei poteri governativi.

Addirittura la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/2014 è stata costretta ad intervenire in un terreno gelosamente custodito dalla politica, quale il funzionamento dei sistemi elettorali, per restituire ai cittadini l’eguaglianza nell’esercizio del voto ed il diritto di scegliere i propri rappresentanti, che la politica aveva sottratto al popolo sovrano per conferirlo ai capi di partito. In questi tempi difficili, caduti i rimedi della politica, venuti meno i partiti di massa a base popolare, indeboliti i corpi intermedi, reso impermeabile il Parlamento alle voci del popolo, la Corte costituzionale è l’ultima spiaggia per la difesa dei diritti dei cittadini.

Per questo siamo fortemente delusi per la sentenza con la quale la Corte ha sancito l’inammissibilità del referendum promosso dalla CGIL volto a restaurare le garanzie dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, cancellate da una politica subalterna ai poteri finanziari, e richiesto da quasi un milione di cittadini.

Sull’importanza della posta in gioco è intervenuto il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli che ha scritto: “È anzitutto in questione, con la garanzia reale della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, la migliore e più rilevante attuazione dell’art. 1 della Costituzione che fa del lavoro il fondamento della Repubblica. Non si tratta, infatti, di una qualsiasi garanzia. Si tratta di un principio che, anche con gli artt. 4 e 35 della Costituzione e con l’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione Europea, ha cambiato radicalmente la natura del lavoro, non più trattabile come una merce, ma trasformato in un valore non monetizzabile. Il referendum in discussione intende difendere questo valore su cui si fonda la Repubblica, affidando tale difesa al voto degli elettori, cioè all’esercizio diretto della sovranità popolare. (..) La sostituzione, operata dalle norme sottoposte al referendum, della garanzia reale della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato senza giusto motivo con la garanzia patrimoniale del pagamento di una somma di denaro ha annullato la dignità del lavoro, trasformando il lavoratore da persona in cosa, dotata non già di un valore intrinseco ma di un valore monetario. Nel momento in cui si dà un prezzo all’ingiusto licenziamento, cioè alla persona di cui il datore di lavoro intende sbarazzarsi come se fosse una macchina invecchiata, si toglie dignità al lavoro e alla persona del lavoratore trasformandoli in merci.”

La tesi dell’inammissibilità del referendum – che evidentemente la Corte ha accolto – si basa sul supposto carattere innovativo o propositivo della normativa che sarebbe risultata dall’abrogazione delle norme contestate. Tale tesi venne respinta dalla Corte Costituzionale con la sentenza  n. 41 del 2003, che ammise un referendum sull’estensione dell’articolo 18 di portata innovativa e propositiva ancor più ampia di quella proposta dalla richiesta attuale. Dopo 14 anni, la Corte ci ripensa ed impedisce il referendum. In questo modo toglie le castagne dal fuoco alla politica, salvando le scelte liberiste di queste classi dirigenti, ma viene meno alla sua funzione di guardiana della Costituzione, dimostrando che nel lungo periodo la salvezza non può venire dai giudici.

Domenico Gallo

Disuguaglianze: cause e rimedi

7 Gen

Per come la vedo io, la questione non riguarda tanto i (pochi) straricchi che diventano sempre più ricchi. E’ stato sempre così, da che mondo è mondo: ogni tanto l’arrivo inatteso di una crisi economica rimescola le carte rivoluzionando le classifiche mondiali dei paperoni. E poi tutto ricomincia. La questione, o meglio, il problema sta oggi nel fatto che quasi ovunque nel mondo e anche in Italia la ricchezza si stia pericolosamente concentrando nelle mani di di un sempre minor numero di individui; contemporaneamente, la povertà sta aumentando ad un ritmo accelerato coinvolgendo un crescente numero di persone e assai poco – quasi nulla –  si stia facendo per contrastare questa tendenza, per colpire alla radice e arrestare, se non altro, il processo. La disuguaglianza è uno dei principali problemi contemporanei e non è certo un caso se gli economisti si stiano dedicando al suo studio con un’attenzione che non ha precedenti.

lavoro

Le cause. Non sarò certamente esaustivo, ma credo che sia possibile indicare sommariamente le principali cause di questo deterioramento della condizione sociale. Per mia, e soprattutto vostra, fortuna, quest’estate mi sono imbattuto nel testo di due economisti e docenti universitari, Maurizio Franzini e Mario Pianta (“Disuaglianze – Quante sono, come combatterle”, Laterza, 2016). Essi individuano quattro forze alla radice della disuguaglianza che definiscono “motori” e sono:
– Lo squilibrio del rapporto capitale-lavoro
– L’irrefrenabile ascesa del capitalismo oligarchico
– L’individualizzazione delle condizioni economiche
– L’arretramento della politica.

1.  Lo squilibrio del rapporto capitale-lavoro. Nasce dal diffuso pensiero che la disuguaglianza sia una conseguenza ineludibile della competizione, che a sua volta genera benessere generale. Un male necessario, quindi, per ottenere quest’ultimo. E’ su questa base che negli anni ’80 ebbe avvio il neoliberismo con l’avvento quasi contemporaneo della Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli USA. Deregolamentazione e liberalizzazione hanno avuto via libera per infrangere il sistema innestatosi nel primo dopoguerra basato sulla solidarietà e misure di controllo su finanza e capitale, sostegno al lavoro, redistribuzione delle ricchezze, servizi di assistenza. Soprattutto il trasferimento del capitale dalla produzione alla finanza ha consentito la degenerazione che ha condotto agli eccessi delle speculazioni nelle Borse (giungendo perfino a nefaste invenzioni come quella dei derivati). E’ così che “il nuovo potere del capitale sul lavoro ha portato dagli anni Ottanta a oggi a uno spostamento di almeno dieci punti percentuali di prodotto interno lordo (PIL) dalla quota dei salari a quella del capitale nei paesi avanzati.” Da qui il valore crescente dei profitti delle attività finanziarie e gli inauditi compensi dei manager e altre categorie di privilegiati che hanno aumentato la disuguaglianza.

2. Il capitalismo oligarchico. Il modo con cui la ricchezza viene ottenuta è sempre meno il risultato di processi tradizionali della produzione e sempre più quello di “rendite monopolistiche, protezioni della concorrenza, bolle immobiliari e finanziarie. I ‘super ricchi hanno sempre più le caratteristiche di oligarchi, la cui ricchezza proviene dal potere e dal privilegio.” Viene così a crearsi un ‘capitalismo oligarchico’ dove le fortune accumulate spesso non sono dovute al merito, oppure sono trasmesse per via ereditaria, e dove si sta diffondendo l’importanza delle relazioni sociali per trovare lavoro, avanzare nelle carriere, ottenere aumenti di stipendio e soprattutto che porta a una minore efficienza e crescita. “Ancora più preoccupante – concludono gli autori – è la prospettiva che gli oligarchi possano sempre più influenzare i processi politici, condizionando i governi e determinando un drammatico indebolimento dei sistemi democratici.”

3. L’individualizzazione. Finora si è parlato dell’aumento del divario tra i più ricchi e tutti gli altri, maggiormente con i più poveri. Ma le distanze sono aumentate anche nella parte bassa della distribuzione del reddito. Questo è invece il processo che ha condotto i lavoratori ad attività precarie, con ampie varietà di forme contrattuali, le giovani generazioni a percorsi professionali sempre più incerti, alla polarizzazione delle competenze e delle qualifiche, ad un’ampia disparità salariale. L’indebolimento del sindacato ha portato a contratti con le singole imprese e alla riduzione della protezione legislativa sul lavoro. I meccanismi tradizionali che creavano identità collettive e solidarietà, sindacalizzazione di settore o addirittura aziendale, attivismo locale, mobilitazione sociale sono stati smontati dall’individualizzazione: altro segno del nuovo potere del capitale sul lavoro.

4. L’arretramento della politica. Lo Stato ha svolto, fino alla fine degli anni ’70, un ruolo fondamentale nella riduzione delle disuguaglianze. La sua azione andava oltre la definizione di regole e norme, fornendo servizi pubblici come la sanità, l’istruzione, le pensioni, l’assistenza sociale, la tutela dell’ambiente e gestendo infrastrutture come acqua, energia, comunicazioni. Tutto ciò contribuiva in misura significativa a contenere le disuguaglianze. Dagli anni ’80 la spinta verso la privatizzazione di imprese e servizi pubblici e l’esternalizzazione della fornitura di servizi-base ha collocato queste attività in un contesto di mercato, con le conseguenze che conosciamo.
L’impatto sulla disuguaglianza dell’arretramento della politica è stato enorme, accelerando e aggravando l’intero processo che ci ha condotto fin qui.

I rimedi.
Franzini e Pianta non si sono limitati a indicare quelle che secondo loro (ed anche secondo me) sono le cause principali (non le uniche, quindi) delle crescenti disuguaglianze nel mondo e ovviamente in Italia. In chiusura offrono un ampio panorama delle misure che la politica nazionale ed internazionale dovrebbe intraprendere per arrestare il trend. In sintesi e in  rapporto ai quattro grandi motori della disuguaglianza sono queste che seguono.
    1) –  Si devono riequilibrare i rapporti capitale-lavoro, con misure che ridimensionino la finanza, limitino le posizioni di rendita, assicurino ai salari una parte dei benefici che (anche mediante la tecnologia) vengono dalla produttività, introducano un salario minimo efficace e riconoscano un ruolo maggiore ai contratti di lavoro nazionali.
    2) –  Un secondo insieme di politiche deve fermare l’ascesa del ‘capitalismo oligarchico’, mettendo un limite ai super-redditi milionari di top manager, re-introducendo significative imposte di  successione, fortemente progressive, che riducano l’attuale trasmissione ereditaria di gran parte della ricchezza, combattendo frontalmente l’evasione fiscale, Non solo quella all’interno ma anche il ricorso al trasferimento dei profitti nei paesi con una compiacente legislazione fiscale, i cosiddetti “paradisi”.
    3) –  Il terzo tipo di azioni deve contrastare l’individualizzazione delle condizioni economiche, che hanno fatto aumentare le disparità anche all’interno dei percettori di salari, riducendo la frammentazione dei contratti di lavoro. Una particolare cura dovrà essere data a un deciso miglioramento di un’istruzione pubblica egualitaria, per offrire a tutti le stesse opportunità di accesso a una formazione di qualità. L’istruzione è la molla che agisce sulla mobilità sociale, che crea lavoratori più preparati ed efficienti, accresce la competitività nelle carriere.
    4) –  La politica deve tornare a assicurare efficaci politiche di redistribuzione: 1. tassando in modo appropriato la ricchezza a livello nazionale ed internazionale; 2. accrescendo la progressività delle imposte sul reddito delle persone fisiche; 3. Introducendo il reddito minimo.

Non sono conclusioni diverse da quelle indicate da molti grandi economisti tra cui Tony Atkinson (scomparso solo pochi giorni fa e forse il maggior studioso dei problemi legati alla povertà ed alla disuguaglianza),  Thomas Piketty (autore del best-seller mondiale Il capitale nel XXI secolo e che fu allievo di Atkinson), dal premio Nobel Joseph Stiglitz (che ha spesso collaborato con Atkinson), e anche Mariana Mazzuccato, solo per dire i maggiori che mi vengono in mente.

Ma ora tocca a noi cittadini. La conclusione di Franzini e Pianta (pag. 177) è memorabile:

La società civile, con le sue preoccupazioni e il suo attivismo, ha tenute vive queste idee nei decenni delle disuguaglianze inarrestabili… Il cambiamento politico è la condizione necessaria per rovesciare l’andamento della disuguaglianza….la maggior parte dei partiti politici, dei parlamenti e dei governi si è finora mostrata piuttosto tiepida nei confronti della tesi secondo cui la disuguaglianza è un male per la società nel suo insieme… La lotta per l’uguaglianza è molto più che una semplice questione di politica economica. Si tratta di valori fondamentali, chiaramente affermati nelle Costituzioni della maggior parte dei paesi avanzati. E si tratta di fare in modo che il processo politico sia sensibile alle rivendicazioni sociali, cioè che la democrazia funzioni. Sulla disuguaglianza, in realtà, si gioca una partita decisiva: quella che oppone la democrazia e la giustizia sociale all’ascesa del ‘capitalismo oligarchico’.

Tenetelo a mente.

 

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La povertà in Italia: dal dramma alla tragedia?

5 Gen

Se vorrete leggere le poche note che seguono concorderete che non è allarmismo. La verità – banale nella sua brutale crudezza – è che se non verranno poste rapidamente in atto adeguate misure a difesa dei ceti più fragili la frattura della disuguaglianza continuerà implacabilmente ad ampliarsi fino a conseguenze inimmaginabili. Una ricerca di Demopolis per Oxfam Italia afferma che: “Oggi 62 paperoni possiedono la stessa ricchezza della metà più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone. In Italia, l’1% più ricco è in possesso del 23,4% della ricchezza nazionale netta. Si tratta di una disuguaglianza preoccupante e insana, sia da un punto di vista economico, che da uno animato da considerazioni più etiche. Dall’indagine realizzata con Demopolis, emerge la netta percezione della disuguaglianza e delle dispari opportunità. La classe politica non può più permettersi di ritardare l’adozione di rimedi ambiziosi in materia di giustizia fiscale, contrastando gli abusi fiscali in Italia e a livello internazionale che alimentano la grande disuguaglianza dei nostri tempi.”
lavoro

E infatti, a guardare i dati sull’avanzare della povertà la prospettiva è agghiacciante.  Negli ultimi dieci anni, di pari passo con l’avanzare della crisi economica, la condizione di ‘povertà assoluta‘,  quella che secondo l’ISTAT non consente l’acquisto di un paniere di beni di prima necessità, è drammaticamente cresciuta del 141% (avete letto bene).
Nel 2005 colpiva poco meno di 2 milioni di persone: nel 2015 sono diventate 4,6 milioni, quasi l’8% della popolazione. Una impressionante massa di persone che non possono permettersi spese essenziali come quelle per gli alimenti, la casa, i vestiti, i mezzi per spostarsi, le medicine. E sono quasi raddoppiati i bimbi sotto i 6 anni con gravi privazioni materiali.

Il rapporto di Openpolis “Poveri noi”da cui ho tratto questi numeri fornisce una devastante immagine del nostro Paese. Si legge, nel rapporto:
“Dopo oltre 8 anni di crisi economica, la povertà non può più essere considerata un fatto straordinario, che riguarda pochi sfortunati. Ha numeri da fenomeno di massa, e il nostro welfare, concepito in un altro momento storico, sembra poco efficace per contrastarla. Poche risorse vengono destinate alle famiglie in difficoltà, ai senza lavoro e in generale alle situazioni di disagio. Le misure contro l’esclusione sociale sono diverse e frammentate, a volte temporanee, prive di un disegno organico che le tenga insieme.

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L’aumento della povertà e delle disuguaglianze nelle economie sviluppate è una tendenza assodata da circa un trentennio, ma finché l’economia girava, la crescita occupazionale ne attutiva le conseguenze sul corpo sociale. Nel 2008, all’inizio della grande recessione, l’Ocse scriveva che “l’impatto di più ampie disparità di reddito salariale sulla disuguaglianza del reddito è stato attenuato da un più alto tasso di occupazione”.

La crisi, distruggendo posti di lavoro, ha rimosso quest’ultimo freno all’espansione di povertà e disparità sociali. I primi a essere colpiti sono stati gli elementi più deboli sul mercato del lavoro: i lavoratori meno qualificati, i giovani e le persone in cerca di occupazione. Tra le famiglie di chi cerca lavoro il tasso di povertà assoluta è più che raddoppiato, passando dal 9,4% del 2005 al 19,8% del 2015. Ma l’elemento più significativo è l’aumento del rischio povertà anche tra chi lavora, un fenomeno che il nostro paese condivide con altri grandi stati europei come la Germania. Una prima evidenza che lavorare non sempre è sufficiente per uscire da una condizione di povertà assoluta è ricavata dal dato delle famiglie la cui principale fonte di reddito è uno stipendio da operaio o assimilato. Di queste nel 2005 era in povertà assoluta il 3,9%, una quota non trascurabile ma contenuta. Oggi più di una famiglia operaia su dieci non può permettersi un livello di vita minimamente accettabile.

Anche la struttura del mercato del lavoro che si è affermata dopo la crisi, con la crescita dei contratti da poche ore alla settimana, può aver contribuito ad aumentare il rischio povertà tra i lavoratori.  Chi lavora con meno tutele – per esempio con contratti precari, voucher e partite iva che mascherano forme di lavoro dipendente – necessita di un nuovo sistema di welfare che si faccia carico delle nuove situazioni di sottoccupazione.”

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Il rapporto dimostra anche come la crisi e la disoccupazione colpiscano maggiormente i giovani:

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Nel 2005 i più poveri erano gli anziani sopra i 65 anni (4,5% circa), e comunque fino al 2011 non si registravano grosse differenze di povertà tra le varie fasce d’età. La crisi, distruggendo posti di lavoro, ha capovolto questa situazione: in un decennio il tasso di povertà assoluta è diminuito tra gli anziani (scesa al 4,1%), mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni. Tra le cause, anche l’altissima percentuale di persone che non studiano, non lavorano e non sono in formazione (i cosiddetti neet). Nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni l’Italia è il paese dell’Unione europea con la più alta percentuale di neet, mentre in quella tra 15 e 29 anni è seconda dopo la Bulgaria.

Non diversa la situazione per quael che riguarda il lavoro femminile: “La percentuale di donne in povertà assoluta è raddoppiata tra 2005 e 2015, in linea con l’andamento nell’intera popolazione. In questi anni è aumentato il divario salariale di genere (dal 5,1% del 2007 al 6,5% 2014), anche se resta più contenuto rispetto ad altri paesi. In Italia la povertà femminile spesso deriva dal mancato accesso delle donne al mercato del lavoro, soprattutto dopo la maternità. Nella classifica delle lavoratrici con un figlio siamo penultimi in Europa, seguiti solo dalla Grecia. Nel 2015 la quota di donne con un figlio che lavorano (56,7%) è inferiore alle lavoratrici con almeno tre figli in Danimarca (81,5%).”

Come reagisce lo Stato di fronte a questo dramma che sta avanzando implacabilmente? La risposta di Openpolis è senza appello:
“Vista la crescita delle difficoltà economiche diventa cruciale il ruolo dello stato sociale nel ridurre il tasso di povertà. L’Italia spende in protezione sociale (al netto della spesa sanitaria) il 21,4% del pil, cioè sopra la media Ue pari al 19,5%. Ma in termini di riduzione della povertà, il nostro paese potrebbe fare di più: prima dei trasferimenti sociali si trova a rischio povertà il 45,8% della popolazione, mentre dopo si scende al 19,4%. Il welfare francese riduce il rischio povertà dal 44,4% al 13,3%, quello svedese dal 44% al 15,1%. È importante sottolineare che poca della nostra spesa sociale viene destinata ai soggetti che, con la crisi, hanno subìto maggiormente l’impoverimento. In Italia la tutela dalla disoccupazione e dal rischio esclusione impiega il 6,5% della spesa in protezione sociale, contro il 15,8% della Spagna, il 12,1% della Francia, l’11,7% della Germania e il 10,9% del Regno Unito. La quota di spesa sociale destinata alle famiglie, ai bambini e al diritto alla casa supera la doppia cifra negli altri stati europei, mentre da noi si ferma al 6,5%.

E’ vitale agire, prima che sia troppo tardi.

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Un viaggio, la vita. Itaca.

3 Gen

Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca

devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
tu toccherai terra per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d’ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo,per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Kostantinos Kavafis 

 

 

 

(Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863 – Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933)

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Il viaggio come metafora della vita e la vita come esperienza da assaporare momento per momento. Ognuno di noi – come Ulisse – deve avere un sogno e realizzarlo è importante quanto saper cogliere le opportunità, gustare le gioie e soffrire le avversità che dovremo incontrare. E quand’anche quel sogno dovesse infine deludere, tuttavia avremo conosciuto noi stessi superando i dubbi e timori della gioventù e saremo più ricchi della saggezza raccolta negli anni.

 

 

 

 

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