Penso che Piero Ignazi sia uno dei più lucidi analisti della nostra realtà politica. L’eloquente quanto (a dir poco) sconfortante titolo di questo post infatti è di un suo commento pubblicato domenica su Repubblica, stranamente introvabile sul sito.
Poco male: proverò qui a darne una sintesi per chi non avesse avuto l’opportunità di leggerlo (n.b. il neretto è sempre mio).
Ignazi apre facendo notare come la nota conclusiva della sentenza della Corte sull’Italicum, che rende immediatamente applicabile la legge elettorale, “si scontra con il richiamo che il Presidente della Repubblica ha espresso più volte ad armonizzare le leggi elettorali per la Camera ed il Senato prima di andare al voto”. La ragione è data dalla torsione che la politica subisce, lasciando spazi “ad interventi di organi diversi da quelli determinati dalla volontà popolare e quindi a perdere “legittimità propria”. Assistiamo quindi “ad un cedimento della politica per incapacità propria, e ad un ricorso esorbitante, ossessivo, supino, ad autorità esterne”. Gran parte della classe politica – prosegue Ignazi – ha ripetuto in questi mesi che occorreva “attendere la sentenza della Corte, come se il Parlamento fosse incapacitato a intervenire su questo tema che è squisitamente politico e di sua esclusiva competenza”.
Purtroppo, le premesse scoraggiano chiunque. Nel Pd “prevale il bisogno di rivincita e di riaffermazione dell’attuale leadership. Il segretario del partito democratico si dimostra del tutto disinteressato a favorire una intesa con gli altri partiti per una nuova, buona, condivisa legge elettorale che valga per i decenni futuri e non per le prossime elezioni.” E ciò nonostante che, per le regole uscite dalle sentenze della Corte Costituzionale, “intervenire per definire una legge che contempli i due principi cardine di ogni sistema elettorale – governabilità e rappresentatività – costituisce un vero imperativo per la classe politica”. Infatti,”il riformismo elettorale ipercinetico di questi anni ha indirettamente delegittimato le istituzioni e la stessa classe politica”, diffondendo “l’idea che le norme si facciano per la convenienza del governante di turno.”
Occorre ribaltare questa prospettiva, afferma Ignazi. La legge elettorale che il Parlamento “deve” approvare non deve essere fatta “per favorire o inibire il successo di qualcuno”, come avvenne per il Porcellum di Calderoli. In questo percorso, va tenuta nella massima considerazione la necessità “di riannodare un rapporto fiduciario tra elettori ed eletti… un obbiettivo imposto dal clima di sfiducia imperante.. che certo non viene risolto con la soluzione del sorteggio indicata dalla Corte… per risolvere il problema delle pluricandidature, su cui, invece non si sono sollevate obiezioni. Una classe politica al punto più basso della fiducia e della stima necessita, almeno da parte delle sue componenti più consapevoli, di un colpo d’ala che dimostri di pensare al bene comune e non a quelli particolari.”
Conclusione: “Andare alle elezioni subito, così, senza muovere un comma delle attuali norme elettorali ‘Frankenstein’” serve solo a dimostrare “di tenere in conto solo interessi di parte” e che “la politica ha perso ogni legittimità a disegnare il futuro”.
Fin qui il commento di Ignazi, che devo, purtroppo, condividere, sapendo di essere tutt’altro che solo. Ma c’è un’altra considerazione da fare, assai più pratica. e ci ha pensato l’istituto Demopolis guidato da Ilvo Diamanti con alcune simulazioni.
Qualora il Parlamento non riuscisse a modificare la legge risultante dalle censure della Consulta, il risultato del voto darebbe – con ogni probabilità – un parlamento impossibile, che non consentirebbe alcun tipo di governo. “Appare oggi improbabile – spiega il direttore di Demopolis Pietro Vento – che una lista, da sola, possa raggiungere la soglia del 40%, in grado di garantire alla Camera il premio di maggioranza dopo l’abolizione del ballottaggio da parte della Corte Costituzionale. E, in ogni caso, se per ipotesi accadesse, la lista non avrebbe comunque una maggioranza al Senato dove si voterebbe con un proporzionale puro su base regionale, senza alcun premio di governabilità”.
E allora? Capi di partiti, deputati, senatori, confrontatevi con questi diagrammi e valutate voi. Gli elettori vi sapranno dire come vi hanno giudicato.
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In un piccolo borgo di montagna del nostro nord-est, un mondo chiuso e apparentemente quasi ostile, il giovane carabiniere Paternò si trova di fronte al duplice omicidio di due cacciatori. Paternò non è un carabiniere comune: nonostante la giovane età ha una storia alle spalle che pesa sulla sua esistenza, con angoli bui che non conosce o forse non vuole esplorare e le indagini cui si dedica senza il permesso dei suoi superiori conducono in diverse direzioni. Incontra così vari personaggi che rappresentano tutti insieme un conciso panorama delle due realtà di una certa Italia: retriva per un lato ma dall’altro generosa, ottusa per un verso ma per un altro aspetto aperta alle istanze sociali.
La storia si sviluppa su due piani paralleli scritti uno al passato e l’altro al presente, come la personalità di Paternò che si è sviluppata su due dimensioni: quella della tragedia familiare e quella intima e personale, che si sono intrecciate fino a costruire un insieme complesso che parlando di sé descrive come ‘una casa senza finestre’. Accade così che accanto all’indagine se ne sviluppi inconsapevolmente una seconda in cui Paternò insegue soprattutto due cose che non ha avuto dalla vita: giustizia e amore. Le incontrerà entrambe un poco alla volta attraverso piccole conquiste e sconfitte e alla fine riuscirà, dando un contributo fondamentale, a risolvere il caso e contemporaneamente a scoprire quel sentimento che ha rappresentato la chiave nascosta della sua ricerca.
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