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Referendum: perché NO

25 Feb

Dal sito del Coordinamento per la democrazia costituzionale, copio e  riporto le risposte alle più ovvie e banali obiezioni che oggi si riscontrano.
La verità è che la legge che propone il taglio dei parlamentari è solo fatta coi piedi, perché non tiene conto delle sciagurate conseguenze che comporterebbe se approvata dal Referendum del 29 marzo.
Ecco perché ribadisco che bisogna respingere l’ennesimo proditorio attacco alla Costituzione, andare a votare e votare NO.

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FAQ sul referendum costituzionale del 29 marzo sul taglio dei parlamentari

Come è noto FAQ è un acronimo inglese (Frequently Asked Questions) che indica l’esistenza di domande frequenti che vengono poste attorno a una determinata questione. Qui ci riferiamo agli interrogativi che possono sorgere in una cittadina o in un cittadino che deve decidere come votare nel referendum che gli pone la secca domanda: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n.240 del 12 ottobre 2019?» Per tale referendum le operazioni di voto si svolgeranno domenica 29 marzo 2020, dalle ore 07:00 alle ore 23:00. Al quesito noi risponderemo No sulla base di molteplici motivazioni e argomentazioni che qui cerchiamo di riassumere per linee essenziali (B) immaginando di controbattere alle affermazioni (A) di coloro che sono favorevoli alla promulgazione della legge.

A: E’ perfettamente inutile andare a votare, tanto il quorum non verrà raggiunto e quindi la legge entrerà in vigore.

B: E’ falso perché nei referendum su modifiche della costituzione non è previsto alcun quorum, a differenza che nei referendum abrogativi di leggi ordinarie. Pertanto qualunque sia il numero dei votanti ciò che conta sarà il confronto tra il numero dei No e quello dei Sì. Se i No saranno in numero maggiore la legge non verrà promulgata quindi non entrerà in vigore.

A: La vittoria del Sì è sicura perché l’orientamento prevalente è ostile ai parlamentari e così ci dicono i sondaggi

B: Nessuno può predire con sicurezza chi vincerà. Se bastassero i sondaggi (fatti da chi? Come? Con quali metodi? Con quanti intervistati?) allora sarebbe persino inutile fare le elezioni politiche, perché il risultato si saprebbe già prima. Ma soprattutto, per quanto potente sia stata la propaganda qualunquista e populista gestita dalle forze dominanti, il corpo elettorale italiano si è già espresso in due occasioni contro proposte di revisione costituzionale che prevedevano tra le altre cose la riduzione del numero dei parlamentari. E le ha bocciate entrambe con una partecipazione al voto superiore alla metà degli aventi diritto, cioè il quorum, per quanto questo non fosse necessario in quelle consultazioni, dimostrando così una convinta volontà di difendere il testo costituzionale. Ci riferiamo al referendum che si svolse il 25 e 26 giugno 2006 in merito ad una proposta di legge avanzata dal centro-destra in cui era prevista una Camera composta da 518 deputati (in luogo dei 630 attuali) e un Senato di 252 senatori (in luogo degli attuali 315, considerando solo quelli elettivi, cioè al netto dei senatori a vita che sono cinque, cui va aggiunto il/i senatore/i di diritto e a vita ex Presidente/i della Repubblica). Il secondo caso è costituito dal referendum sulla proposta di legge Renzi-Boschi tenutosi il 4 dicembre del 2016. Anche in questa occasione si recò alle urne la maggioranza degli aventi diritto e la proposta venne bocciata. Questa, tra le altre cose, prevedeva di lasciare la Camera inalterata ma di modificare profondamente la composizione e il ruolo del Senato, prevedendo un organo composto da 95 membri elettivi di secondo grado, cioè eletti dai Consigli regionali o provinciali autonomi, tra i consiglieri regionali e i sindaci del territorio.

A: Sì ma questa volta non sono state neppure raccolte le firme per fare indire il referendum

B: Non c’è nulla di strano. Anche per il referendum del 2016 fu così. L’articolo 138 della Costituzione prevede tre possibilità per promuovere il referendum: un quinto dei membri di una Camera (in questo caso la richiesta è stata fatta da 71 senatori) o cinque Consigli regionali o cinquecentomila elettori. Ognuno dei tre è sufficiente e valido per indire il referendum costituzionale.

A: Bisogna votare sì perché i parlamentari in Italia sono troppi.

B: E’ falso. L’unico serio criterio per giudicare sul numero dei parlamentari è guardare al rapporto fra membri del parlamento e abitanti. Se facciamo un raffronto fra i paesi dell’Unione europea, considerando i componenti della Camera cosiddetta bassa – non potendo confrontare i dati del Senato perché troppo differenti da paese a paese sono le regole per la formazione e funzionamento della camera cosiddetta alta, laddove esiste – constatiamo che attualmente quel rapporto in Italia è pari a 1,0. Un valore che ci colloca a fianco dei paesi maggiori, ma sotto la maggioranza degli Stati membri della Ue che hanno un numero di parlamentari nettamente superiore. Se andasse in vigore la legge su cui verte il referendum tale rapporto scenderebbe allo 0,7% e collocherebbe l’Italia all’ultimo posto dei paesi della Ue. Espresso in numeri tale rapporto scenderebbe da un deputato ogni 96.006 abitanti a un deputato per 151.210 abitanti.

A: La riduzione del numero dei parlamentari non incide sulla rappresentanza, anzi la rende più autorevole.

B: Completamente falso. Se si riduce il rapporto fra cittadini e parlamentari si incide profondamente sulla rappresentanza politica, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Perché si realizzi una vera rappresentanza politica, bisogna che i singoli parlamentari abbiano una relazione reale e continua con i problemi del territorio in cui è avvenuta la loro elezione e dei cittadini che ci vivono, nonché un rapporto costante, non limitato al momento del voto, con i propri elettori. Meno sono gli eletti e più difficile è realizzare quel rapporto. Questo inevitabilmente nuoce all’azione dei parlamentari sul piano qualitativo perché riduce la possibilità di una conoscenza dei problemi concreti. Quindi la rappresentanza politica ne risulta peggiorata.

A: La qualità del lavoro parlamentare non dipende dal numero di chi lo svolge ma dalle capacità dei parlamentari

B: Se si riducono del 37% il numero dei parlamentari la situazione si aggrava anziché risolversi. La scarsa qualità politica dei membri di un parlamento deriva dalle modalità della loro selezione. Se si svuotano di funzione i partiti, se si smantellano i luoghi di iniziativa sociale nel paese, cioè se si abbattono i corpi intermedi tra i cittadini e le istituzioni, come si è fatto in questi anni in Italia, vengono meno le possibilità di una vera selezione, maturata sul territorio, nelle lotte sociali, nel dibattito politico. Se i candidati vengono scelti con un “mi piace” cliccando un tasto del computer è ovvio che si ottiene un insieme di eletti di scarsa qualità. A questo vanno aggiunte le pessime leggi elettorali, tutte viziate da incostituzionalità che si sono succedute nel nostro paese. Infatti i cittadini non hanno avuto voce in capitolo né nella composizione delle liste, né nella scelta dei candidati. Le liste sono fatte dalle segreterie dei partiti, ridotti a un guscio vuoto, e i cittadini non possono esprimere preferenze. Così abbiamo un parlamento di nominati, non di eletti. La nuova proposta di legge elettorale che è stata recentemente presentata alla Camera non modifica queste condizioni. Anzi le peggiora, alzando persino la soglia di sbarramento al di sotto della quale non si può accedere alle camere, il famoso quorum (per la Camera si passerebbe dal 3% al 5%, per il Senato vi sarebbe un’ulteriore possibilità di accedervi, se si ottiene il 15% in almeno una regione). In questo modo si impedirebbe l’ingresso in Parlamento a intere forze politiche che esistono nella società, tagliando drasticamente la rappresentanza politica e la vita democratica del paese. Oltre a questo ogni parlamentare per risultare eletto, a causa della diminuzione complessiva dei membri del Parlamento, dovrebbe ricevere ben più voti che nella situazione attuale. Noi invece siamo per una legge elettorale proporzionale pura, cioè senza distorsioni maggioritarie.

A: Ma con una legge proporzionale i cittadini non saprebbero il giorno dopo le elezioni chi governa il paese e non lo potrebbero determinare

B: Questa logica è già stata respinta nei due referendum di cui abbiamo già parlato, del 2006 e del 2016. E’ la logica dei sistemi elettorali maggioritari o di quelli misti con forti distorsioni maggioritarie. Si vorrebbe fare prevalere il principio della governabilità su quello della rappresentanza. E’ una logica pericolosa, che porta inevitabilmente a concentrare il potere in poche mani, a sistemi oligarchici, a democrature, come si suole dire nel linguaggio degli studiosi delle istituzioni, a soluzioni post e anti-democratiche. Ed è una soluzione fallimentare, come dimostrano le vicende dei governi italiani e di altri paesi negli ultimi anni, nonché la “transumanza” di eletti da un gruppo all’altro e la creazione di nuovi gruppi politici e parlamentari senza passare dal vaglio elettorale. Infatti un governo solido può nascere solo se la rappresentanza politica, ovvero l’insieme del Parlamento, è composta in modo corretto ed è espressione non fittizia (come avvenuto con le ultime leggi elettorali) della volontà popolare. Solo se la divisione dei poteri è ben chiara, quello legislativo del Parlamento, quello giudiziario della Magistratura, quello esecutivo del Governo. Già ora quest’ultimo prevarica gli altri, in particolare il Parlamento con la pratica costante dei decreti legge. Nello stesso tempo, proprio perché il nostro paese fa parte dell’Unione europea – nella quale il ruolo del Parlamento europeo, che viene eletto su base proporzionale, viene poi ridimensionato dallo strapotere delle istituzioni non elettive – bisogna difendere la centralità del Parlamento nel nostro modello democratico perché possa anche essere di riferimento ad una democratizzazione delle istituzioni europee.

A: In ogni caso bisogna che il Parlamento operi in modo efficiente e produttivo e tutti sanno che in meno si lavora meglio.

B: Del tutto falso. Non solo perché un parlamento che non rispecchi la corretta rappresentanza politica dei cittadini, farebbe solo gli interessi di quelle forze politiche che sono riuscite a entrarci. Ma anche perché il nostro Parlamento lavora molto attraverso le Commissioni permanenti, che alla Camera sono 14, al Senato 12, cui vanno sommate le importantissime Giunte, le Commissioni speciali, quelle bicamerali. Ogni parlamentare deve partecipare a una delle commissioni permanenti, le quali possono lavorare in tre modi: in sede referente, votando emendamenti e testi e portando il testo finale alla discussione dell’Aula; in sede redigente, votando gli emendamenti e lasciando all’Aula solo il voto dei singoli articoli e quello finale; in sede legislativa, potendo licenziare la legge senza passare dall’Aula. Se si riducono i parlamentari è evidente che si consegna nelle mani di pochi, prevalentemente dei maggiori partiti, poteri enormi, compreso quello della legiferazione diretta. Qualcuno dice: diminuiremo il numero delle commissioni. Ma in questo modo viene meno il principio della competenza nella materia delle singole commissioni. Quindi si peggiora la qualità e gli esiti del lavoro parlamentare.

A: Poche chiacchiere, riducendo il numero dei parlamentari si risparmia soldi pubblici

B: Ridicolo. Secondo calcoli di organismi qualificati la riduzione dei parlamentari porterebbe a un risparmio di appena lo 0,007 del bilancio dello stato. Non sono diversi i calcoli degli stessi uffici studi del Parlamento. Il che si tradurrebbe in un risparmio annuo per famiglia pari a 3,12 euro annui, ossia 1,35 euro a cittadino. Qualche centesimo in più di un buon caffè bevuto in piedi al banco. La democrazia ha i suoi costi e quando funziona sono sacrosanti. Vale ben di  più di un caffè una volta all’anno.  Se si vogliono ottenere risparmi di spesa veramente consistenti basterebbe, per esempio, abolire gli acquisti degli aerei di guerra F35, il che favorirebbe la causa della pace. Del resto non può funzionare se le si tolgono le risorse anche economiche necessarie. Il nostro compito non è restringerla ma ampliarla, rendendo più viva e attiva la partecipazione dei cittadini, difendendo, rendendo più trasparenti e accoglienti quei corpi intermedi, cioè le varie forme di associazione politica, sindacale, culturale con cui intrecciare democrazia diretta e delegata. Come si vede il nostro No è carico di significati che vanno nel senso della difesa e dell’estensione della democrazia, unendosi anche al No al progetto di autonomia differenziata di alcune regioni del Nord che minerebbe l’unità del paese e produrrebbe quella che è stata giustamente chiamata “la secessione dei ricchi”.

 

Un voto che rispetti – per quanto possibile – la Costituzione. La guida di Libertà e Giustizia

1 Mar


 

Libertà e Giustizia fornisce questa bellissima ed esauriente guida al voto. I principali articoli della Costituzione, la legge elettorale e i suoi limiti (inclusi gli estremi di incostituzionalità, tanto per cambiare), come verranno assegnati i voti e i seggi.  Come dice Tomaso Montanari nella presentazione “è davvero fortissima, a questa tornata elettorale, la tentazione di non andare a votare, o di annullare il voto. Una delle cause è una legge elettorale così orribile da rigettare anche i più volenterosi. E poi un’offerta politica nel complesso sconfortante e una campagna elettorale che arranca, mille miglia lontana dalle grandi questioni del Paese, incapace di mettere a confronto visioni diverse: che forse, semplicemente, non esistono.”

Eppure mai come ora è vitale, per la democrazia di questo nostro povero Paese, andare a votare. Ancora Montanari “Anche per un’associazione di cultura politica come Libertà e Giustizia non è facile affrontare questa marea montante di motivata disillusione. Eppure, crediamo che non sia tempo di disimpegno. Come gli ateniesi di Pericle anche noi siamo convinti che chi non partecipa al discorso pubblico non sia innocuo, ma inutile.”

Infine, c’è da aggiungere che comunque vada, per quel che ho capito,  difficilmente sapremo la stessa notte del 4 marzo chi ha vinto. Chi ha perso lo so già: ancora una volta noi elettori, defraudati di una legge chiara che ci consenta di esprimere liberamente la nostra volontà.

 

Non voglio un Parlamento di pecore, ne ho il diritto

12 Ott

 

Di Rosatellum, rispetto per la Costituzione, per le regole e per il popolo sovrano

L’art. 72 della Costituzione dispone: 
Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale.
Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza…..La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi.”

Non bastasse, il Regolamento della Camera prescrive:
1. il voto segreto per le leggi elettorali (art. 49): Sono altresì effettuate a scrutinio segreto, sempre che ne venga fatta richiesta, le votazioni sulle modifiche al Regolamento…nonché sulle leggi elettorali.
2. che la questione di fiducia non può essere chiesta per gli argomenti per cui è previsto il voto segreto (art. 116, comma 4):
La questione di fiducia non può essere posta su proposte di inchieste parlamentari ….. e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto. (*)

La Carta prevede quindi che ci sia un “esame”, il normale e doveroso confronto parlamentare, del disegno di legge elettorale (che pur essendo ‘ordinaria’ non è una legge come le altre: viene infatti equiparata ai “disegni di legge in materia costituzionale”). Il ricorso alla fiducia non è previsto affatto: è un infimo stratagemma che è un vero e proprio insulto alla nostra Costituzione e alla sovranità del Parlamento.

Altresì, con la fiducia si chiede alla Camera di approvare una legge senza averla mai discussa in Aula, visto che non c’è stata neanche la discussione generale. Abbiamo così un Parlamento ridicolizzato ed i suoi componenti ridotti al ruolo di schiacciabottoni. Ma se lo meritano quelli che hanno eseguito docilmente e servilmente l’ordine e voteranno la fiducia: siamo noi cittadini che non meritiamo un parlamento fatto di pecore obbedienti, oggi in parte, domani quasi del tutto,  se questa legge indecente dovesse passare e nel quale la mia fiducia (e quella di molti, molti altri) si ridurrebbe quasi allo zero.

l Pd e il suo segretario (cui aggiungo il presidente del Consiglio dei ministri) hanno commesso un errore mortale: immemori della catastrofe romana dopo aver fatto decadere un sindaco democraticamente eletto, ripercorrono la strada che condusse tanti elettori a una reazione viscerale aprendo la porta del Campidoglio al populismo. Alle prossime elezioni succederà lo stesso.
I 5 stelle ringraziano e già si fregano le mani.

(*) Aggiornamento. La Presidente della Camera, Boldrini, ha chiarito in un articolo su Il Manifesto, perché non ha potuto negare il voto di fiducia. Ne prendo atto, ma resta tutta la mia indignazione per l’aver utilizzato uno stratagemma – e non una norma chiara e inequivocabile – per porre la fiducia su una legge indecente che sottrae ancora una volta al popolo il diritto di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. Il risultato è che di tutto questo se ne avvantaggeranno il populismo più sbracato e la coppia Berlusconi-Salvini. Complimenti.

La memoria corta.

Governabilità, il nuovo totem

5 Ott

‘Governabilità’ è la nuova parola d’ordine che si aggira nei corridoi della politica. Non so quanti l’abbiano notato: una nuova parola d’ordine che viene ripetuta con più che sospettabile frequenza, vista la sua incongruità con la nuova (speriamo) legge elettorale. In suo nome, in nome della ‘governabilità’, si è infatti arrivati perfino a sostenere che il sistema elettorale deve servire a eleggere il governo. E quindi, che la legge elettorale di cui si discute dovrà essere concepita in modo da garantire la ‘governabilità’.

È un trucco. Come nel gioco delle tre carte si fa apparire una realtà che non esiste.

Andiamo per ordine. ‘Governare’ vuol dire ‘dirigere, condurre, guidare, gestire (una nave, una casa, perfino una stalla viene governata). ‘Governabilità’ è quindi l’insieme di condizioni per cui l’atto può essere realizzato. Afferma la Treccani: “Nel linguaggio della pubblicistica politica, l’esistenza di un complesso di condizioni sociali, economiche, politiche e sim., tali da rendere possibile il normale governo di un paese.” Tutto qui: non si aggiunge che la governabilità sia una condizione necessaria ed obbligata come invece, con un trucco da fiera paesana, si tenta di insinuare subdolamente nella mente degli elettori.

Non basta. Nell’intera Costituzione questo concetto – non solo la parola – è assente del tutto. Perché la Costituzione prevede tutt’altro: dispone l’irrinunciabile rappresentanza nel Parlamento cioè la presenza – in proporzione ai voti espressi – dei rappresentanti delle forze politiche attive nel paese. Dispone pertanto che il Parlamento sia liberamente (art. 48) eletto dai cittadini, dal popolo sovrano, affinché esso sia effettivamente rappresentativo della volontà degli elettori che non può essere stravolta.  È quindi la rappresentatività la principale condizione  cui deve ispirarsi la legge elettorale. Dispone infine la Carta che sia il Presidente della Repubblica a nominare il capo del governo e che esso governo debba avere la fiducia del Parlamento, essendovi subordinato. Questo – e non altro – afferma la nostra Costituzione.

È il Parlamento che controlla l’operato del governo, non il contrario: se così fosse,  non ci si dovrebbe scandalizzare  dei 314 deputati supinamente fedeli a Berlusconi (ma non leali verso il loro mandato) che si dissero convinti che Ruby era la nipote di Mubarak.

Si tenta insomma di metter da parte il dettato costituzionale per far  primeggiare una supposta e mai dimostrata prevalenza della governabilità sulla rappresentatività: progressivamente, attraverso sistemi elettorali indegni di questo nome, con liste bloccate e ingiustificabili premi di maggioranza ” i gruppi politici al potere vanno cercando di persuaderci che è più importante un governo stabile rispetto al fatto che i cittadini scelgano i loro rappresentanti liberamente e proporzionalmente secondo le loro opinioni e spesso perfino che i cittadini possano essere effettivamente i protagonisti nella scelta dei loro rappresentanti.”(1)

La legge elettorale non serve a eleggere il governo; essa deve rispondere unicamente a requisiti irrinunciabili di neutralità, affinché la rappresentanza del Parlamento sia il più possibile fedele alla volontà popolare. E per rispondere a questa irrinunciabile quanto vitale esigenza, piaccia o non piaccia  c’è solo il sistema elettorale proporzionale.

 

(1) Una falsa democrazia: governabilità vs rappresentatività
Prof. Giovanni Levi , Università Ca’ Foscari, Venezia

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In un piccolo borgo di montagna del nostro nord-est, un mondo chiuso e apparentemente quasi ostile, il giovane carabiniere Paternò si trova di fronte al duplice omicidio di due cacciatori. Paternò non è un carabiniere comune: nonostante la giovane età ha una storia alle spalle, con angoli bui che non conosce o forse non vuole esplorare. La storia si sviluppa su due piani paralleli, come la personalità di Paternò che si è evoluta su due dimensioni: quella della tragedia familiare e quella intima e personale, che si sono intrecciate fino a costruire un insieme complesso. Accade così che accanto all’indagine ne progredisca inconsapevolmente una seconda in cui Paternò insegue soprattutto due cose che non ha avuto dalla vita: giustizia e amore. Le incontrerà entrambe un poco alla volta attraverso piccole conquiste e sconfitte e alla fine riuscirà a risolvere il caso e contemporaneamente a trovare ciò che ha rappresentato la chiave nascosta della sua ricerca.

Come una casa senza finestre

 

 

 

Legge elettorale: promesse, impegni e chiacchiere

5 Giu

Chi ha detto:

  1. “Vogliamo dimezzare subito il numero e le indennità  dei parlamentari  e sceglierli noi con i voti, non farli decidere a Roma con gli inchini al potente di turno” (18 ottobre 2010);
  2. “Occorre una legge elettorale per scegliere direttamente gli eletti  e un tetto di tre mandati parlamentari, senza eccezioni” ( 3 aprile 2011);
  3.  “L’importante è dare ai cittadini la possibilità di scegliere liberamente, non necessariamente di incasellarsi in destra o sinistra. Comunque la pensi, puoi scegliere chi votare di volta in volta in base alla personalità di chi si candida, delle idee che esprime, del programma” (7 novembre 2012); 
  4. “La nuova legge elettorale consenta ai cittadini di scegliere i parlamentari in modo libero, come succede nei Comuni. I partiti devono consentire alla gente di scegliersi le persone, perché un cittadino possa guardare in faccia i propri rappresentanti. Poi se fa bene lo conferma, se fa male lo manda a casa e magari i politici proveranno l’ebbrezza di tornare a lavorare, che non è un’esperienza mistica, la fanno tutti gli italiani e possono farla anche i politici che perdono le elezioni” (26 aprile 2012);
  5. “Firmo per cancellare la vergogna del Porcellum, un meccanismo per cui non importa essere bravi o avere voti, basta essere fedeli e obbedienti al capo corrente e si va in Parlamento. La classe parlamentare è fatta di dirigenti cooptati, cioè messi lì per andare a fare i parlamentari tanto non c’è bisogno dei voti, perché i voti li prende la lista. Io credo che questo sistema non vada bene”(16 settembre 11) ?

 

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I racconti, le storie brevi, sono come quegli sguardi lanciati da una finestra aperta che permettono di vivere quanto accade giù nella strada, nella vita di tutti i giorni, di immaginare i pensieri dell’ignoto passante o il dialogo dell’altrettanto ignota coppia mentre vengono percorsi i pochi metri che la visuale consente.
In questi dieci racconti c’è quasi sempre Roma, come sfondo o protagonista, ma i personaggi, con le loro personalità, le manie, le loro storie personali, potrebbero esistere ovunque: per conoscerli, e conoscere le loro storie, basta affacciarsi a questa finestra.

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/racconti/322551/la-finestra-aperta-3/

 

Il Pd e il “fattore di instabilità”

7 Apr

Mesi fa, come ha ricordato anche Cuperlo in un’intervista, Orlando dichiarò che il Pd rischiava di passare da fattore di stabilità politica a fattore di instabilità. Tutto era legato alla metabolizzazione o meno della sconfitta referendaria. Oggi, all’indomani dell’elezione di Torrisi alla presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato, l’ipotesi di Orlando pare materializzarsi.

Sta a dimostrarlo l’incredibile richiesta del presidente del Pd (e attuale reggente della segreteria), cioè il sempre servizievole Orfini, di un incontro col presidente Mattarella, per valutare gli effetti della bocciatura del candidato Pd sulla tenuta della maggioranza. Cioè la ricerca di una scusa (risibile) per far precipitare la situazione e far tornare all’ordine del giorno l’ipotesi di elezioni anticipate. Che non sono altro che il pallino di Renzi, non avendola mai abbandonata: subito dopo il 4 dicembre parlò di elezioni a marzo, poi andando avanti di giugno, ora si vocifera di ottobre. Tutto questo senza un minimo di senso di responsabilità vero il Paese e gli appuntamenti che l’attendono, dal Def  al G7.

Renzi intende far sentire la sua presenza in ogni modo, con le nomine sulle aziende statali, con la rimozione della bruciante sconfitta al referendum sostituita da queste primarie che l’elettorato (Pd e non) sta osservando con stanchezza se non con noia, la fa sentire incaricando il fido Orfini di una commissione al Quirinale. Il povero Orfini pensava di replicare l’iniziativa del notaio con cui fece cadere Marino, il sindaco di Roma, facendosi beffe della sovranità popolare che l’aveva eletto con una maggioranza schiacciante, ma Mattarella non è un notaio a parcella e ignorandolo ha fatto capire quanto lo valuti. 

Non sembra capire, l’ex-segretario del Pd, che l’unica strada per riconquistare una credibilità politica non è rilanciare sfide, non nuovi appelli al “con me o contro di me”, non le manovre dietro le quinte per ritardare la legge elettorale e via cantando. L’unica strada sarebbe presentare all’Italia un serio programma di politica economica, con l’addio agli interventi a pioggia, ai bonus erga omnes, con un piano che riduca le disuguaglianze, combatta l’evasione e la corruzione, risollevi l’occupazione, prima di tutto quella giovanile, eccetera eccetera. 

Al momento, sembra che a tutto questo ci stia pensando Gentiloni e sorge il sospetto che a Renzi questo non garbi: hai visto mai che qualcuno noti la differenza nella concretezza dell’agire (e magari anche nello stile)? Ecco, così si potrebbero spiegare certe intromissioni (sui progetti di Padoan, ad esempio); certe reazioni un po’ scomposte, certe irrazionali accelerazioni verso il voto. L’uomo è fatto così, non conosce mezze misure, non vede alternative oltre quelle in cui lui crede, cerca la vittoria smagliante come alibi anche degli errori passati. Ma una cosa è la vittoria nel suo partito, ben altra quella nel Paese. E quindi il rischio, se Renzi non dovesse rendersene conto, di un Pd protagonista sì, ma di instabilità. Il tweet è pronto: “Paolo, stai sereno”.
Ma Mattarella, per nostra fortuna, non è Napolitano.

AGGIORNAMENTO
Leggo solo ora, con colpevole ritardo, questo pezzo di De Marchis su Repubblica, che mi conferma le sensazioni esplicitate qui sopra.

 

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In questi dieci racconti c’è quasi sempre Roma, come sfondo o protagonista, ma i personaggi, con le loro personalità, le manie, le loro storie personali, potrebbero esistere ovunque: per conoscerli, e conoscere le loro storie, basta affacciarsi a questa finestra.

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Una legge elettorale degna di questo nome

1 Feb

Cioè, come scriveva pochi giorni da Piero Ignazi su Repubblica, “una nuova, buona, condivisa legge elettorale che valga per i decenni futuri e non per le prossime elezioni”, invitando la politica ad agire perché  “intervenire per definire una legge che contempli i due principi cardine di ogni sistema elettorale – governabilità e rappresentatività – costituisce un vero imperativo per la classe politica.

Non mi pare che finora si sia manifestato qualcuno interessato a farlo ed è questo il segnale principe che la nostra classe politica sa dare il meglio (!) di sè stessa nell’incitare l’antipolitica. I 100 capilista previsti dall’Italicum ricondizionato dalla Consulta porterebbero alla Camera altrettanti docili rappresentanti non dei cittadini (e già questo sarebbe errato), bensì dei segretari e leader dei rispettivi partiti. La simulazione di Demopolis mi aiuta:

demopoliscamera

In teoria (ma non tanto, temo), solo gli eccedenti i 1oo del Pd e del M5s sarebbero tra quelli scelti dagli elettori:  92+85, 175 deputati in tutto, “indipendenti” si fa per dire, perché anche loro difficilmente potrebbero evitare le pressioni dei rispettivi vertici.

Una via d’uscita c’è, per quei partiti che volessero rispettare il diritto degli elettori di scegliersi i propri rappresentanti. L’indicazione dei 100 capilista – per quel che se ne può capire oggi – non è obbligatoria: nulla impedirebbe di presentare liste ordinate in  ordine alfabetico rispettando la parità di genere. E sarebbe una ricoluzione copernicana che sarebbe premiata dai cittadini.

Nonostante tutto mi smentisca, voglio ancora sperare che si possa improvvisamente manifestare in più d’uno dei nostri leader un soprassalto di coscienza e venga ascoltato il monito conclusivo di Ignazi: “Una classe politica al punto più basso della fiducia e della stima necessita, almeno da parte delle sue componenti più consapevoli, di un colpo d’ala che dimostri di pensare al bene comune e non a quelli particolari.
iovotochimifascegliere

 
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COME UNA CASA SENZA FINESTRE
In un piccolo borgo di montagna del nostro nord-est, un mondo chiuso e apparentemente quasi ostile, il giovane carabiniere Paternò si trova di fronte al duplice omicidio di due cacciatori. Paternò non è un carabiniere comune: nonostante la giovane età ha una storia alle spalle che pesa sulla sua esistenza, con angoli bui che non conosce o forse non vuole esplorare e le indagini cui si dedica senza il permesso dei suoi superiori conducono in diverse direzioni. Incontra così vari personaggi che rappresentano tutti insieme un conciso panorama delle due realtà di una certa Italia: retriva per un lato ma dall’altro generosa, ottusa per un verso ma per un altro aspetto aperta alle istanze sociali.

La storia si sviluppa su due piani paralleli scritti uno al passato e l’altro al presente, come la personalità di Paternò che si è evoluta su due dimensioni: quella della tragedia familiare e quella intima e personale, che si sono intrecciate fino a costruire un insieme complesso che parlando di sé descrive come ‘una casa senza finestre’. Accade così che accanto all’indagine ne origini inconsapevolmente una seconda in cuicopertina-cucsf
Paternò insegue soprattutto due cose che non ha avuto dalla vita: giustizia e amore. Le incontrerà entrambe un poco alla volta attraverso piccole conquiste e sconfitte e alla fine riuscirà, dando un contributo fondamentale, a risolvere il caso e contemporaneamente a scoprire quel sentimento che ha rappresentato la chiave nascosta della sua ricerca.

Come una casa senza finestre

IL RUOLO PERDUTO DELLA POLITICA

31 Gen

Penso che Piero Ignazi sia uno dei più lucidi analisti della nostra realtà politica. L’eloquente quanto (a dir poco) sconfortante titolo di questo post infatti è di un suo commento pubblicato domenica su Repubblica, stranamente introvabile sul sito.

Poco male: proverò qui a darne una sintesi per chi non avesse avuto l’opportunità di leggerlo (n.b. il neretto è sempre mio).
Ignazi apre facendo notare come la nota conclusiva della sentenza della Corte sull’Italicum, che rende immediatamente applicabile la legge elettorale, “si scontra con il richiamo che il  Presidente della Repubblica ha espresso più volte ad armonizzare le leggi elettorali per la Camera ed il Senato prima di andare al voto”. La ragione è data dalla torsione che la politica subisce, lasciando spazi “ad interventi di organi diversi da quelli determinati dalla volontà popolare e quindi a perdere “legittimità propria”. Assistiamo quindi “ad un cedimento della politica per incapacità propria, e ad un ricorso esorbitante, ossessivo, supino, ad autorità esterne”. Gran parte della classe politica – prosegue Ignazi – ha ripetuto in questi mesi che occorreva “attendere la sentenza della Corte, come se il Parlamento fosse incapacitato a intervenire su questo tema che è squisitamente politico e di sua esclusiva competenza”.

Purtroppo, le premesse scoraggiano chiunque. Nel Pd “prevale il bisogno di rivincita e di riaffermazione dell’attuale leadership. Il segretario del partito democratico si dimostra del tutto disinteressato a favorire una intesa con gli altri partiti per una nuova, buona, condivisa legge elettorale che valga per i decenni futuri e non per le prossime elezioni.” E ciò nonostante che, per le regole uscite dalle sentenze della Corte Costituzionale, “intervenire per definire una legge che contempli i due principi cardine di ogni sistema elettorale – governabilità e rappresentatività – costituisce un vero imperativo per la classe politica”.  Infatti,”il riformismo elettorale ipercinetico di questi anni ha indirettamente delegittimato le istituzioni e la stessa classe politica”, diffondendo “l’idea che le norme si facciano per la convenienza del governante di turno.”

Occorre ribaltare questa prospettiva, afferma Ignazi. La legge elettorale che il Parlamento “deve” approvare non deve essere fatta “per favorire o inibire il successo di qualcuno”, come avvenne per il Porcellum di Calderoli. In questo percorso, va tenuta nella massima considerazione la necessità “di riannodare un rapporto fiduciario tra elettori ed eletti… un obbiettivo imposto dal clima di sfiducia imperante.. che certo non viene risolto con la soluzione del sorteggio indicata dalla Corte… per risolvere il problema delle pluricandidature, su cui, invece non si sono sollevate obiezioni. Una classe politica al punto più basso della fiducia e della stima necessita, almeno da parte delle sue componenti più consapevoli, di un colpo d’ala che dimostri di pensare al bene comune e non a quelli particolari.

Conclusione: “Andare alle elezioni subito, così, senza muovere un comma delle attuali norme elettorali ‘Frankenstein’” serve solo a dimostrare “di tenere in conto solo interessi di parte” e che “la politica ha perso ogni legittimità a disegnare il futuro”.

Fin qui il commento di Ignazi, che devo, purtroppo, condividere, sapendo di essere tutt’altro che solo. Ma c’è un’altra considerazione da fare, assai più pratica. e ci ha pensato l’istituto Demopolis guidato da Ilvo Diamanti con alcune simulazioni.
Qualora il Parlamento non riuscisse a modificare la legge risultante dalle censure della Consulta, il risultato del voto darebbe – con ogni probabilità – un parlamento impossibile, che non consentirebbe alcun tipo di governo.Appare oggi improbabile – spiega il direttore di Demopolis Pietro Vento – che una lista, da sola, possa raggiungere la soglia del 40%, in grado di garantire alla Camera il premio di maggioranza dopo l’abolizione del ballottaggio da parte della Corte Costituzionale. E, in ogni caso, se per ipotesi accadesse, la lista non avrebbe comunque una maggioranza al Senato dove si voterebbe con un proporzionale puro su base regionale, senza alcun premio di governabilità”.

E allora? Capi di partiti, deputati, senatori, confrontatevi con questi diagrammi e valutate voi. Gli elettori vi sapranno dire come vi hanno giudicato.

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In un piccolo borgo di montagna del nostro nord-est, un mondo chiuso e apparentemente quasi ostile, il giovane carabiniere Paternò si trova di fronte al duplice omicidio di due cacciatori. Paternò non è un carabiniere comune: nonostante la giovane età ha una storia alle spalle che pesa sulla sua esistenza, con angoli bui che non conosce o forse non vuole esplorare e le indagini cui si dedica senza il permesso dei suoi superiori conducono in diverse direzioni. Incontra così vari personaggi che rappresentano tutti insieme un conciso panorama delle due realtà di una certa Italia: retriva per un lato ma dall’altro generosa, ottusa per un verso ma per un altro aspetto aperta alle istanze sociali.
La storia si sviluppa su due piani paralleli scritti uno al passato e l’altro al presente, come la personalità di Paternò che si è sviluppata su due dimensioni: quella della tragedia familiare e quella intima e personale, che si sono intrecciate fino a costruire un insieme complesso che parlando di sé descrive come ‘una casa senza finestre’. Accade così che accanto all’indagine se ne sviluppi inconsapevolmente una seconda in cui Paternò insegue soprattutto due cose che non ha avuto dalla vita: giustizia e amore. Le incontrerà entrambe un poco alla volta attraverso piccole conquiste e sconfitte e alla fine riuscirà, dando un contributo fondamentale, a risolvere il caso e contemporaneamente a scoprire quel sentimento che ha rappresentato la chiave nascosta della sua ricerca.

Come una casa senza finestre

Zagrebelsky: una lezione di stile e di saggezza

1 Ott

Ieri sera ho avuto l’occasione di ascoltare e riflettere, ammirando la pazienza, la sapienza e soprattutto lo stile della lezione impartita dal vecchio professore, arrivando quasi a commuovermi quando ha ricordato con passione cosa è una Costituzione, quanto il suo fine sia unire e non dividere, quanto sia vitale per una nazione che essa rappresenti l’unità e la coerenza delle leggi, prima fra tutte quella elettorale. Mi sono piaciuti il tono pacato, l’esposizione serena, l’atteggiamento dialogante.

Peccato quindi che il suo interlocutore, chiuso nella sua smisurata autoammirazione, di quella lezione non abbia colto quasi nulla. Solo quando il professore gli ha fatto notare la straordinaria rivoluzione culturale compresa nella differenza tra  “vincere le elezioni” e “assumere la responsabilità di guidare il Paese” ho notato in lui  una certa perplessità, ma non saprei dire se fosse incredulità, supponenza o derisione. Per costui la priorità è data dal fare in fretta le leggi, non dal farle bene, evitare i ping pong e le lungaggini delle procedure, non il rispetto delle norme e dei diritti di chi non la pensa come lui. In questo mi ha ricordato un suo sciagurato predecessore che ce l’aveva con quello che definiva “il teatrino della politica”, in quanto lui (il predecessore) era per “la politica del fare”.

La sicumera e l’evidente fastidio con cui il più giovane rispondeva all’accorato appello del professore alla ragionevolezza mi hanno dato la misura del baratro in cui potrebbe precipitarci lo sconvolgimento della Carta costituzionale – unito alla nuova legge elettorale – proposto dal governo contro ogni regola democratica e fatto approvare da un docile parlamento composto in maggioranza da fedeli e disciplinati. Ma tanto più costui mi ha sorpreso perché ancora una volta ha fatto ricorso a a frasi fatte e atteggiamenti, a quel modo di porsi che in televisione privilegia l’aspetto esteriore delle discussioni e tende a compiacere i propri tifosi e simpatizzanti, nulla aggiungendo alla discussione, o meglio, alla visione. Che resta quindi miope, di breve durata: quando il vecchio professore ha ammonito sulla possibilità che la riforma accompagnata dalla legge elettorale possa un giorno favorire forze politiche che non hanno in gran conto la democrazia, l’interlocutore ha evitato di replicare, nonostante avesse dichiarato con enfasi di guardare al futuro. Ma forse si riferiva solo al proprio.

Preferirei una democrazia in cui non vige potere assoluto della maggioranza, ma il confronto quotidiano” ha detto a un certo punto il professore. Ecco, la chiave di volta sta tutta qui, secondo me. In un atteggiamento aperto, nel rispetto di chi non la pensa come te, nell’essere pronti ad ammettere errori e perfino ad accogliere proposte migliori delle proprie, ancorché provengano dagli avversari. Comincio invece a temere che dall’altra parte tutto si riduca tristemente a qualcosa di simile alla storica e ben nota affermazione del marchese del Grillo.


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Sindaci “a condizione che”.

29 Mag

Il significativo pseudonimo mi impedisce purtroppo di complimentarmi direttamente con l’autore di questo breve articolo che ha il pregio di dimostrare, una volta per tutte, la deriva autoritaria che ha ormai travolto ogni limite democratico dei partiti e dei movimenti che ancora si agitano disordinatamente sulla scena della politica italiana. N.b. Il neretto è tutto mio.

Sindaci nelle mani delle segreterie di partito

La legge che prevede l’elezione diretta dei sindaci dei comuni con oltre quindicimila abitanti fu approvata dalle Camere sull’onda di due referendum in materia elettorale, del 1991 e del 1993. I giovani di oggi ricordano poco o nulla, ignorano o quasi chi sia Mario Segni, che quell’ondata referendaria promosse con tenacia e testardaggine sarda, trasformando l’iniziale irrisione delle forze politiche in un’adesione tanto massiccia quanto calcolata ed autoconservativa. Il carro del vincitore si affollò come non mai di migranti e rifugiati politici di qualsiasi provenienza e mediocre prospettiva. Rimase a terra, orgoglioso del suo carattere controcorrente, il solo Bettino Craxi, tra i cui difetti non rientrò mai quello del muoversi per convenienza al seguito di altri. Assieme alla legge chiamata Mattarellum, ma ben più di questa,la legge sui sindaci iniettò nel pigro e comodo proporzionalismo del nostro ordinamento dosi massicce di spirito maggioritario, non disgiunte da un’evidente e non dissimulata tendenza presidenzialistica: che lì, al livello dei sindaci, si arrestarono, dopo avere influenzato l’elezione dei presidenti di regione. Non a caso da quel giorno chiamati pomposamente governatori, a pedissequa emulazione dei presidenzialissimi Stati Uniti. Che la ventata maggioritaria sia stata subita, anzichè promossa dalle forze politiche, lo rivelò la deriva partitocratica che, con una legge elettorale regressiva, portò la coalizione berlusconiana a confinare la sovranità degli elettori nell’adesione passiva ed umiliante ad un intangibile elenco di persone confezionato dalle segreterie dei partiti. Elenco da prendere o da lasciare per intero: con l’effetto della recisione chirurgica di qualsiasi legame diretto tra elettori ed eletti. Rappresentati e rappresentanti, da allora, non si conobbero più. MarinoCampidoglioIl legame diretto è rimasto, sulla carta integro, tra i cittadini ed il proprio sindaco, ed ha il significato di trasferire il potere sull’eletto e sulla sua sorte dal partito che lo ha candidato agli elettori che lo hanno votato. Con una deroga: la via per riprendere il controllo da parte del partito è prevista e disegnata, ma richiede la trasparenza di un dibattito pubblico e di una decisione in sede di consiglio comunale. Procedura ben diversa da quella adottata, per fare un esempio, dal partito democratico per sbarazzarsi dell’ultimo sindaco eletto,con una motivazione generica, indimostrata e soggettiva; ed attraverso atti singoli e privati dei propri docili consiglieri. Ancora più differente, quella procedura, dalle scomuniche con finale espulsivo in uso disinvolto, anche nei confronti di sindaci, eletti presso il movimento cinquestelle, ad opera di soggetti o organismi del tutto anonimi e giuridicamente clandestini. Nel più plateale disprezzo per le istituzioni. Eppure, se la legge sull’elezione diretta non piaceva, bastava che qualcuno proponesse di cambiarla, cercando una maggioranza che peraltro non si sarebbe mai configurata. Perché violare una legge, e tanto più una legge “popolare”, è più facile, silenzioso e meno compromettente che non dichiarare di volerla cambiare e agire di conseguenza. A meno di due settimane dal voto, non vi è alcuna garanzia che Raggi, Giachetti, Meloni e Marchini- i possibili sindaci della capitale, stando ai sondaggi -, una volta eletti siano al sicuro da atti di forza dei rispettivi partiti. Si preferisce far credere ai cittadini che, almeno nel caso dei sindaci, la politica concede loro quello che ha tolto nell’elezione di deputati e senatori: anziché mostrare che, di quel potere generosamente riconsegnato, la chiave deve rimanere ben stretta nelle mani dei partiti. Che oggi hanno l’occasione per assicurare che il sindaco eletto lo sia, per quel che li riguarda, per l’intera durata del mandato. A scanso di abusi. Così come i candidati hanno la simmetrica occasione per dichiarare sospesa, per l’identica durata, la loro dipendenza dai partiti di appartenenza. È troppo chiedere, agli uni ed agli altri, un gesto che ridia un minimo di credibilità ad una politica in debito di legittimità?

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