Archivio | dicembre, 2016

Roma 1984 – 2016. E buon anno a tutti.

31 Dic

I miei amici di Una cosa al giorno mi hanno mandato oggi questo messaggio:
“Ciao piero
oggi finisce il 2016 ed è uno di quei giorni in cui ci si ferma, anche solo per un secondo, a pensare “come passa il tempo”. La cosa di oggi è l’ultima cosa del 2016, ci rivedremo l’anno prossimo, tra un giorno.”

Claudia e Rocco stavolta si sono superati: guardate cos’hanno trovato.
1984-2016Guardate com’è cambiata Roma tra il 1984 e il 2016. E com’è cambiato il mondo: basta esplorare la mappa col cursore. Un grazie quindi anche a GoogleEarth e naturalmente a tutti voi che mi seguite, con i miei sinceri auguri per un 2017 sereno. Almeno questo. 🙂

 

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Come una casa senza finestre

 

 

 

 

Montepaschi: i debiti (e chi li pagherà), le responsabilità, le domande

30 Dic

Massimo Giannini (benedetto il momento in cui la Rai l’ha rispedito a Repubblica: è uno degli scarsi, scarsissimi motivi per cui ancora leggo questo giornale) mette in fila oggi fatti, persone, istituzioni coinvolte nel gigantesco crollo della banca più antica del mondo:  Padoan e Renzi, la Consob e Bankitalia, la BCE e il management MPS, senza dimenticare la presenza (laterale?) di J.P.Morgan nell’ancora troppo oscura faccenda. Ne nascono domande (solo alcune, per il momento) cui dovrà esser data risposta  prima o poi. Meglio prima (anche perché sarebbe, è, un diritto di noi contribuenti che saremo chiamati a pagare).

(N.B. Il neretto dell’articolo di Giannini è mio).

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Mps, le risposte che mancano

L’inizio della fine comincia con Mussari, che compra Antonveneta e fa esplodere i conti. La cronaca di questi mesi ha zone d’ombra e il salvataggio della banca avrà costi enormi, ancora incalcolabili

di MASSIMO GIANNINI

 

mps1ABBIAMO messo in sicurezza il risparmio”. Anche Paolo Gentiloni ricalca le orme di Matteo Renzi. Anche il nuovo premier, dopo aver varato il decreto salva-Mps, tira un sospiro di sollievo, come fece il vecchio premier il 22 novembre 2015, dopo aver varato il decreto salva-Etruria. Sollievo malriposto. Allora come oggi. Il salvataggio della banca più antica del mondo avrà costi enormi, ancora incalcolabili.

 

I20 MILIARDI stanziati sono nuovi debiti pubblici.

Dall’anno prossimo peseranno sulle tasche di tutti i contribuenti. È giusto sacrificarsi per Siena. Ma a patto che si faccia luce sull’infinita catena di errori commessi in questi anni (magari proprio con quella famosa commissione d’inchiesta che Renzi lanciò a sproposito il 23 dicembre 2015). E a patto che si fissi almeno un punto fermo: chi ha sbagliato, una volta tanto, tolga il disturbo. A pagare il conto finale non può essere sempre e solo Pantalone. Pantalone siamo noi. Vorremmo almeno sapere, con qualche domanda, chi dobbiamo “ringraziare”.
IL TESORO.
In una lunga intervista al Sole 24 Ore, il ministro Padoan ripercorre a modo suo il calvario di Mps. Nulla c’è ancora di chiaro, sulle modalità con le quali saranno “coperti” gli obbligazionisti della banca, e quali saranno, anche in questo caso, i sommersi e i salvati. Per il resto, il ministro dice: “Non sono affatto pentito di aver sostenuto, nel rispetto del ruolo di tutti, l’operazione di mercato”. Ma non era forse già chiaro a luglio che la “strada privata” avrebbe portato a un vicolo cieco? Si può considerare il licenziamento di un amministratore delegato come Fabrizio Viola, deciso con una telefonata fatta “per conto” dell’allora premier Renzi il 7 settembre, una mossa “nel rispetto del ruolo di tutti”? O qui non c’è forse una clamorosa invasione di campo della politica, che invece di salvare la banca quando le condizioni lo consentivano si è avventurata in un’improbabile “operazione di mercato”? Padoan aggiunge: do il “pieno sostegno all’attuale management della banca”, compreso l’ad Marco Morelli. Considerato che in questi anni Mps ha bruciato 17 miliardi di patrimonio, non è il momento di attuare anche in Italia il metodo Obama, che nel 2009 varò il “Tarp”, un piano di intervento dello Stato nelle banche da 700 miliardi di dollari, che aveva come condizione l’azzeramento totale di tutti i vertici e la nomina di manager pro tempore scelti dallo Stato? Padoan si lamenta perché “nel nostro Paese non sono sanzionate abbastanza le responsabilità di singoli manager che hanno prodotto danni rilevanti a investitori, azionisti, risparmiatori”. Giusto, ma allora perché non presenta una legge che introduce e inasprisce queste sanzioni? Lui è il governo: ha l’obbligo politico e morale di parlare e di agire come il ministro del Tesoro, non come un cittadino qualunque.
LA BCE.
La Banca centrale europea ha avuto un ruolo cruciale, fa il suo mestiere. Ma il suo “accanimento terapeutico” nei confronti di Siena merita qualche chiarimento. Dopo gli stress test del 23 giugno, la Vigilanza europea guidata dalla francese Danièle Nouy impone la ricapitalizzazione da 5 miliardi entro il 31 dicembre. In base a quale criterio, solo 4 giorni fa, la Bce chiede per lettera al Monte di aumentare la ricapitalizzazione a 8,8 miliardi? Cosa è cambiato, in questo frattempo? E in base a quale principio Francoforte impone a Mps la stessa copertura patrimoniale (il Cet1, fissato all’8%) che nel 2015 applicò alle banche greche, mentre nelle stesse ore riduce dal 10,7 al 9,5% l’analogo parametro richiesto alla Deutsche Bank (la banca europea con il portafoglio più “zavorrato” dal peso dei titoli tossici)? Mario Draghi, giustamente, ha fatto della cosiddetta “accountability” la sua religione. Ma la necessità di “rendere conto” del proprio operato, a Francoforte, deve valere per tutti.
LA BANCA D’ITALIA.
Via Nazionale ha avuto un ruolo importante. Non tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che non ha fatto. Sul fronte “esterno”: il governatore Visco siede nel board di Francoforte, e l’italiano Ignazio Angeloni siede in quello della Vigilanza europea. Perché sono mancate comunicazioni puntuali tra l’Eurotower e Palazzo Koch? Sul fronte interno: la direttiva sul bail in (che scarica i costi dei fallimenti bancari su azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre i 100 mila euro) viene approvata dalla Ue nel 2014, e in Italia viene introdotta per la prima volta un anno dopo con il “decreto di risoluzione” su Banca Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti. Perché Bankitalia (che solo in seguito si dichiarerà contraria a quelle norme, applicate in modo retroattivo su tutti i risparmiatori) non fa una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica e convincere i governi a modificarla? E poi, più in particolare sull’affare Mps: perché il governatore ripete dal gennaio 2013 che la banca “non ha problemi di tenuta “, mentre nei due anni successivi Viola è costretto a chiedere aumenti di capitali per ben 8 miliardi? Perché in estate non si oppone alla cacciata dello stesso Viola, decisa da Renzi il 6 luglio dopo una colazione di lavoro a Palazzo Chigi con il presidente di Jp Morgan, Jamie Dimon? Perché in autunno non si oppone al rinvio dell’aumento da 5 miliardi, che Renzi decide di spostare a dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre, per evitare di dover mettere la faccia su un sicuro fallimento? Queste risposte sarebbero necessarie. Al contrario di quello che avviene per le ispezioni (sulle quali pure ci sarebbero tante domande da fare) non si viola nessun segreto d’ufficio.
LA CONSOB. 
La commissione che vigila sulle società e la Borsa non può chiamarsi fuori dalle responsabilità. Stendiamo un velo pietoso sui derivati Alexandria e Santorini, che cinque anni fa nessuno vide e nessuno bloccò. Anche negli ultimi mesi su Mps sono accadute anomalie che una Vigilanza seria avrebbe potuto e dovuto intercettare. Almeno due delle emissioni obbligazionarie a rischio (“Lower Tier 2”, a scadenza 2020) risultano vendute ai clienti al dettaglio della banca durante la gestione di Giuseppe Vegas. Se questo è vero, perché la Consob non le ha valutate e non le ha bloccate? E se invece non è vero, perché non smentisce e non chiarisce esattamente chi e quando ha autorizzato che cosa?
I VERTICI MPS.
Il “groviglio armonioso”, a Siena, ha radici antiche. L’inizio della fine, com’è noto, comincia con Giuseppe Mussari, che compra Antonveneta dal Santander per oltre 9 miliardi, la cifra folle che fa esplodere i conti. Questa ormai è storia. La cronaca di questi ultimi mesi presenta zone d’ombra non meno inquietanti. Da settembre, dopo la famigerata “telefonata di licenziamento” di Padoan, ai vertici Mps siede Marco Morelli, già dirigente della banca ai tempi di Mussari. Insieme a Jp Morgan e Mediobanca (finora curiosamente rimasta “al riparo” da critiche) è proprio Morelli a farsi garante della cosiddetta operazione “di mercato”, cioe del reperimento dei 5 miliardi di capitali privati. Ed è proprio Morelli a ventilare fino all’ultimo la possibilità che grandi fondi esteri intervengano nella ricapitalizzazione, nel ruolo di “anchor investor”, convincendo il Tesoro a rinviare fino all’ultimo un intervento pubblico su Mps che si poteva e si doveva fare almeno sei mesi fa.
Dunque: quando e con chi ha parlato Morelli, tra i rappresentanti del fondo sovrano del Qatar? Quali sono stati i suoi interlocutori nel fondo gestito da George Soros? E quali offerte concrete aveva in mano, quando il 7 dicembre il cda della banca ha chiesto alla Bce una proroga al 20 gennaio 2017, per il closing dell’operazione? È il minimo che si possa chiedere a un manager che ha un compenso fisso di 1,4 milioni, superiore a quello del suo pari grado di Bnp Paribas. Per gestire la peggiore delle grandi banche europee, guadagna più di quello che guida la migliore. Come direbbero un Longanesi o un Flaiano: ah, les italiens…

 

 

 
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Stoner: per me, un capolavoro

28 Dic

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Stoner” è forse il più bel romanzo che io abbia mai letto. Nella vita normale e quasi monotona del timido e grigio professor Stoner dell’Università  del Missouri ho ravvisato la vita di ognuno di noi, con le proprie ansie e le gioie, i fatti salienti e quelli insignificanti.   C’è ad ogni passo, insomma, la ricerca della nostra identità , capire chi siamo, ma è una ricerca tranquilla, non sconsiderata eppure piena di emozioni.  Ed è quindi una storia solo apparentemente banale: in verità, come ha scritto il biografo di Williams, Charles J. Shields,  Stoner è “il romanzo perfetto”.

Perfetto come, ad esempio, questo brano:

“Quand’era giovanissimo, Stoner pensava che l’amore fosse uno stato assoluto dell’essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di  accedere. Durante la maturità, l’aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un’illusione né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno per giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore.” (Pag. 226)

C’è molto di autobiografico nella storia del protagonista, ma l’ho scoperto solo dopo. John Williams è nato nel 1922 a Clarksville, nel Texas. Rientrato in patria dopo la guerra – aveva servito come sergente nell’Army Air Corps in Asia– si iscrisse all’università di Denver e dopo la laurea a quella del Missouri, dove insegnò letteratura inglese. Nel frattempo aveva già pubblicato i suoi due primi libri,   nel 1948 il romanzo Nothing But the Night e l’anno dopo la raccolta di poesie The Broken Landscape. Rientrato all’Università di Denver, pubblicò nel 1960 il suo secondo romanzo Butcher’s Crossing,  e poi l’antologia English Renaissance Poetry.  La sua seconda raccolta di poesie, The Necessary Lie, è del 1965 e nello stesso anno esce Stoner.

Il libro non ebbe fortuna e vendette solo duemila copie. Il gran dolore di Williams fu solo in parte lenito dal ricevere, anni dopo, il National Book Award (ma a pari merito, per la prima volta nella storia del premio!) per Augustus.
Stoner aveva avuto una storia travagliata: ultimato nel 1963 col titolo originale “A flaw of light”, era stato rifiutato dai maggiori editori per essere accettato due anni dopo dalla Viking Press che però modifico brutalmente il titolo in quello attuale e per di più perse il manoscritto originale. Nella corrispondenza con la sua agente Marie Rodell (che non appariva neppure lei molto convinta: “la sua tecnica narrativa quasi monotona è desueta” gli scriveva) si leggono amarezza e speranze: “certo non mi illudo che possa essere un bestseller. Ma potrebbe essere una sorpresa”.

Avevano ragione entrambi. La prosa di Williams è ‘desueta’ perché assolutamente ‘normale’, tanto quanto il suo protagonista, ma allo stesso tempo è proprio questa equivalenza, o, meglio, l’unione perfetta tra il linguaggio e la figura di Stoner a creare la magìa del romanzo. E il parallelo tra autore e personaggio prosegue incredibilmente: dai fallimenti editoriali in vita (e il fallimento della vita di Stoner), al successo mondiale quarant’anni dopo l’uscita del libro e venti dopo la  morte, nel 1994, di Williams ed a quello a lui indissolubilmente collegato del protagonista del romanzo.

Dimenticato per quasi quarant’anni, Stoner riemerse nel 2003 grazie all’editore Vintage Classics. Tre anni dopo lo ripubblica  il “New York Review of Books Classics”. E da lì è cominciata la misteriosa e silenziosa ascesa di Stoner ai grandi livelli della letteratura, e delle copie vendute. Grazie al passaparola e ai social network in pochi anni è diventato un bestseller negli Stati Uniti per poi varcare l’oceano e fare altrettanto in Francia, Olanda, Spagna, Israele e molti altri paesi. In Italia, dove è stato pubblicato da Fazi editore nel 2012, ha superato le 200.000 copie.

Stoner ha raccolto l’ammirazione e il consenso di grandi scrittori contemporanei come Nick Hornby, Colum McCann, Bret Easton Ellis, Chad Harbach e molti, molti altri. In un’intervista apparsa su Repubblica nel 2013 Ian McEwan così rispondeva alle domande di Sarah Montague:
– Cosa c’è di così bello in questo romanzo?
Appena lo inizi a leggere senti di essere in ottime mani. Ha una prosa molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può suonare molto noiosa e un po’ troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più straordinaria scoperta per noi fortunati lettori“. E più avanti:
– Dunque il romanzo parla della vita di William Stoner, che appare relativamente povera di accadimenti.
Relativamente. Stoner viene da una povera famiglia di contadini, frequenta la scuola di agraria, dove accede nel 1910 e segue, come ne esistono in un altro migliaio di università americane, un corso di Lettere e Filosofia. Il professore di letteratura durante una lezione legge il sonetto di Shakespeare n. 73 (“In me tu vedi quel periodo dell’anno”) e qui lo studente ha un’epifania. Stoner lo ascolta e ne è trasformato, l’insegnante gli chiede cosa voglia dire il sonetto e tutto ciò che Stoner riesce a dire, flebilmente, è “significa…”. E l’insegnante capisce immediatamente che il ragazzo è stato colpito dalla letteratura inglese. Stoner poi diventa un professore associato all’università e insegnerà fino alla sua morte, che avverrà molte decadi più tardi. Si sposa, il matrimonio va male, ha una figlia e anche la figlia va male, entra in una faida amara, o meglio è perseguitato da un collega per venticinque anni e conosce l’unico momento di riscatto della sua vita in una tenerissima storia d’amore che poi svanirà. C’è tutta la sua vita“.  

Una vita racchiusa nell’incipit:

“William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido. Quando morì, i suoi colleghi donarono alla biblioteca dell’università un manoscritto medievale, in segno di ricordo. Il manoscritto si trova ancora oggi nella sezione dei “Libri rari”, con la dedica: ‘Donato alla Biblioteca dell’Università del Missouri in memoria di William Stoner, dipartimento di Inglese. I suoi colleghi.’
Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplce domanda occasionale. I colleghi di Stomer, che da vivo non l’avevano stimato gran che, oggi ne parlano  raramente; per i più vecchi il suo nome è il monito della fine che attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono, che non evoca alcun passato o identità particolare cui associare sè stessi o le loro carriere.”

Come scrive Peter Cameron nella post-fazione all’edizione italiana, “…Stoner attraversa con grazia e delicatezza il cuore del lettore, ma la traccia che lascia è indelebile e profonda.

 

 

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Tutte le strade portano a Roma

25 Dic

I miei amici Rocco e Claudia assicurano che è proprio così.
Hanno trovato infatti per il loro impagabile sito Una cosa al giorno, che ogni mattina fornisce gentilmente un argomento interessante oppure un elemento di riflessione o ancora una semplice curiosità, la conferma del vecchio detto. Se volete saperne di più seguite il link.

tuttelestradearoma

http://roadstorome.moovellab.com/countries?utm_source=Una+cosa+al+giorno&utm_campaign=c55ae84868-straderoma&utm_medium=email&utm_term=0_170e3ab091-c55ae84868-191261297&mc_cid=c55ae84868&mc_eid=a9eddddb25

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Lettera aperta al ministro Poletti

21 Dic

Non l’ho scritta io (magari fossi così bravo) ma  Marta Fana, una ricercatrice italiana emigrata a Parigi. 
E’  così bella, carica di civile indignazione e allo stesso tempo di dignità e detrminazione, che non ho potuto fare altro che, ammirato, copiarla pari pari.
Grazie Marta. E grazie a l’Espresso.

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Caro Poletti, avete fatto di noi i camerieri d’Europa

«Prima ci avete costretto ad andarcene. Poi ci sbeffeggiate, dicendo che è meglio se ci siamo tolti da piedi. No, ministro, le sue scuse non sono accettate. Perché le vostre politiche sono uguali a quelle sue parole».
La lettera aperta di una ricercatrice italiana emigrata in Francia

DI MARTA FANA*

20 dicembre 2016

Caro Poletti, avete fatto di noi i camerieri d'Europa

Caro Ministro Poletti,

le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano.

Siamo quelli per cui il Novecento è anche un patrimonio cinematografico invidiabile, che non inseguiva necessariamente i botteghini della distribuzione di massa, e lì imparammo che le parole sono importanti, e lei non parla bene.

Non da oggi.

A mia memoria da quando il 29 novembre 2014 iniziò a dare i numeri sul mercato del lavoro, dimenticandosi tutti quei licenziamenti che i lavoratori italiani, giovani e non, portavano a casa la sera.

Continuò a parlare male quando in un dibattito in cui ci trovammo allo stesso tavolo dichiarò di essere “il ministro del lavoro per le imprese”, era il 18 aprile del 2016.

Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più, non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci.

Parlo dei voucher, Ministro.

E poi, sa, anche tra di noi che ce ne siamo andati, qualcuno meno fortunato esiste. Si chiamava Giulio Regeni, e lui era uno dei migliori. L’hanno ammazzato in Egitto perché studiava la repressione contro i sindacalisti e il movimento operaio. L’ha ammazzato quel regime con cui il governo di cui lei fa parte stringe accordi commerciali, lo stesso governo che sulla morte di Giulio Regeni non ha mai battuto i pugni sul tavolo, perché Giulio in fin dei conti cos’era di fronte ai contratti miliardari?

Intanto, proprio ieri l’Inps ha reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando lei è ministro, ne sono stati venduti 265.255.222: duecentosessantacinquemilioniduecentocinquantacinquemiladuecentoventidue.Non erano pistole, è sfruttamento.

Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa. È un ragazzo di ventuno anni, non ha diritto alla malattia, a niente, perché faceva il saldatore a voucher. Oggi, senza quattro dita, lei gli offrirà un assegno di ricollocazione da corrispondere a un’agenzia di lavoro privata. Magari di quelle che offrono contratti rumeni, perché tanto dobbiamo essere competitivi.

Quelli che sono rimasti sono coloro che per colpa delle politiche del suo governo e di quelli precedenti si sono trovati in pochi anni da generazione 1000 euro al mese a generazione a 5000 euro l’anno.

Lo stesso vale per chi se n’è andato e forse prima o poi vi verrà il dubbio che molti se ne sono andati proprio per questo.

Quelli che sono rimasti sono gli stessi che lavorano nei centri commerciali con orari lunghissimi e salari da fame.
Quelli che fanno i facchini per la logistica e vedono i proprio fratelli morire ammazzati sotto un tir perché chiedevano diritti contro lo sfruttamento. Sono quelli che un lavoro non l’hanno mai trovato, quelli che a volte hanno pure pensato “meglio lavorare in nero e va tutto bene perché almeno le sigarette posso comprarle”.

Sono gli stessi che non possono permettersi di andare via da casa, o sempre più spesso ci ritornano, perché il suo governo come altri che lo hanno preceduto, invece di fare pagare più tasse ai ricchi e redistribuire le condizionmateriali per il soddisfacimento di un bisogno di base e universale come l’abitare, ha pensato bene di togliere le tasse sulla casa anche ai più ricchi e prima ancora di approvare il piano casa.

È lo stesso governo che spende lo zero percento del Pil per il diritto all’abitare.

È lo stesso governo che si rifiuta di ammettere la necessità di un reddito che i garantisca a tutti dignità.

Ma badi bene, non sono una “redditista”, solo che a fronte di 17 milioni di italiani a rischio povertà, quattro milioni in condizione di povertà assoluta, mi pare sia evidente che questo passaggio storico per l’Italia non sia oggi un punto d’arrivo politico quanto un segno di civiltà.

Ma vorrei essere chiara, il diritto al reddito non è sostituibile al diritto alla casa, sono diritti imprescindibili entrambi.

E le vorrei sottolineare che non è colpa dei nostri genitori se stiamo messi così, è colpa vostra che credete che siano le imprese a dover decidere tutto e a cui dobbiamo inchinarci e sacrificarci.

I colpevoli siete voi che pensate si possano spostare quasi 20 miliardi dai salari ai profitti d’impresa senza chiedere nulla in cambio – tanto ci sono i voucher – e poi un anno dopo approvate anche la riduzione delle tasse sui profitti. Così potrete sempre venirci a dire che c’è il deficit, che si crea il debito e che insomma la coperta è corta e dobbiamo anche smetterla di lamentarci perché, mal che vada, avremo un tirocinio con Garanzia Giovani.

I colpevoli siete voi che non credete nell’istruzione e nella cultura, che avete
tagliato i fondi a scuola e università, che avete approvato la buona scuola e ora imponete agli studenti di andare a lavorare da McDonald e Zara.
Sa, molti di quei centomila che sono emigrati lavorano da McDonald o Zara, anche loro hanno un diploma o una laurea e se li dovesse mai incontrare per strada chieda loro com’è la loro vita e se sono felici. Le risponderanno che questa vita fa schifo. Però ecco: a differenza di quel che ha decretato il suo governo, questi giovani all’estero sono pagati.Ma il problema non è neppure questo, o quanto meno non il principale.Il problema, ministro Poletti, è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare a gratis.

A me pare chiaro che lei abbia voluto insultare chi è rimasto piuttosto che noi che siamo partiti. E lo fa nel preciso istante in cui lei dichiara che dovreste “offrire loro l’opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare”.

La cosa assurda è che non è chiaro cosa significhi per lei capacità, competenze e saper fare.

Perché io vedo milioni di giovani che ogni mattina si svegliano, si mettono sul un bus, un tram, una macchina e provano ad esprimere capacità, competenze, saper fare. Molti altri fanno la stessa cosa ma esprimono una gran voglia di fare pure se sono imbranati. Fin qui però io non ho capito che cosa voi offrite loro se non la possibilità di essere sfruttati, di esser derisi, di essere presi in giro con 80 euro che magari l’anno prossimo dovranno restituire perché troppo poveri.

Non è chiaro, Ministro Poletti, cosa sia per lei un’opportunità se non questa cosa qui che rasenta l’ignobile tentativo di rendere ognuno di noi sempre più ricattabile, senza diritti, senza voce, senza rappresentanza. Eppure la cosa che mi indigna di più è il pensiero che l’opportunità va data solo a chi ha le competenze e il saper fare.

Lei, ma direi il governo di cui fa parte tutto, non fate altro che innescare e sostenere diseguaglianze su tutti i fronti: dalla scuola al lavoro, dalla casa alla cultura, e sì perché questo succede quando si mette davanti il merito che è un concetto classista e si denigra la giustizia sociale.

Perché forse non glielo hanno mai spiegato o non ha letto abbastanza i rapporti sulla condizione sociale del paese, ma in Italia studia chi ha genitori che possono pagare e sostenere le spese di un’istruzione sempre più cara. E sono sempre di più, Ministro Poletti.

Lei non ha insultato soltanto noi, ha insultato anche i nostri genitori che per decenni hanno lavorato e pagato le tasse, ci hanno pagato gli asili privati quando non c’erano i nonni, ci hanno pagato l’affitto all’università finché hanno potuto.

Molti di questi genitori poi con la crisi sono stati licenziati e finita la disoccupazione potevano soltanto dirci che sarebbe andata meglio, che ce l’avremmo fatta, in un modo o nell’altro. In Italia o all’estero. Chieda scusa a loro perché noi delle sue scuse non abbiamo bisogno.

Noi la sua arroganza, ma anche evidente ignoranza, gliel’abbiamo restituita il 4 dicembre, in cui abbiamo votato No per la Costituzione, la democrazia, contro l’accentramento dei poteri negli esecutivi e abbiamo votato No contro un sistema istituzionale che avrebbe normalizzato la supremazia del mercato e degli interessi dei pochi a discapito di noi molti.

Era anche un voto contro il Jobs Act, contro la buona scuola, il piano casa, l’ipotesi dello stretto di Messina, contro la compressione di qualsiasi spazio di partecipazione.

E siamo gli stessi che faranno di tutto per vincere i referendum abrogativi contro il Jobs Act, dall’articolo 18 ai voucher, la battaglia è la stessa.

Costi quel che costi noi questa partita ce la giochiamo fino all’ultimo respiro.

E seppure proverete a far saltare i referendum con qualche operazioncina di maquillage, state pur certi che sugli stessi temi ci presenteremo alle elezioni dall’estero e dall’Italia.

Se nel frattempo vuole sapere quali sono le nostre proposte per il mondo del lavoro, ci chiami pure. Se vi interessasse, chissà mai, ascoltare.

*Ricercatrice italiana a Parigi

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Come una casa senza finestre

8 Dic

Che strano titolo per un post. vero? A cosa può riferirsi? Che c’è sotto?
Facciamo un gioco: provate a intuire di cosa si tratti.

Vediamo. Potrebbe essere un modo di dire. Oppure una metafora.  E se invece si volesse descrivere uno stato d’animo? Oddio, potrebbe anche essere il titolo di un film, o di un libro… un libro? ALT! Ci siete arrivati, complimenti, non era mica facile. 🙂

Esatto. E’ un libro, o meglio, è una storia (chiamarlo romanzo sarebbe da presuntuosi). E qui sotto troverete l’inizio. Se dovesse incuriosirvi e voleste saperne di più, seguendo il link potrete leggere anche il seguito.
In questo caso vi chiedo però un favore: che vi piaccia o no, lasciate una recensione e siate sinceri più che potete. E comunque vada grazie fin d’ora.

Giovanni Fattori - "In vedetta" - 1872

Giovanni Fattori – “In vedetta” – 1872

PRIMO

   “Siffatto”. Quel termine così inusuale, forse ancora presente solo nel gergo di burocrati e vecchi avvocati, riemerso chissà come, da dove e per quale recondito motivo, continuava a vagabondare tra le sue circonvoluzioni cerebrali e non voleva saperne di sloggiare. Come può capitare talvolta con il refrain di una canzone dimenticata e che d’improvviso ritorna a galla senza un preciso motivo insediandosi arrogante nell’inconscio, così quella parola si ripresentava insistente e fastidiosa. Almeno fosse servita a distrarre dal freddo insistente che era ormai penetrato ovunque, perfino attraverso le spesse suole degli anfibi d’ordinanza. Ma come poteva fare ancora tanto freddo, maledizione, ormai era maggio, imprecò. E chissà se si potrà dire un “siffatto” freddo fetente, si chiese poi subito dopo, continuando a marciare.
L’umidità implacabile del bosco e della notte, che l’alba sorta da poco non aveva ancora avuto alcun modo di contrastare, avvolgeva tutto nei suoi invisibili filamenti come un gigantesco bozzolo, era densa, gelatinosa, gocciolava dalle foglie e dalle frasche, appariva solida nelle piccole e sottili lastre di ghiaccio che ogni tanto contornavano una pozza d’acqua.

Il carabiniere Paternò si sentiva i piedi gelati. Procedeva lentamente e con cautela nella mezza oscurità del bosco sullo stretto e contorto sentiero in salita tracciato chissà da chi e chissà quanto prima, calpestando un folto tappeto di sterpi e foglie morte fradice d’acqua (‘forse qui ha piovuto’ pensò), aiutandosi talvolta con la luce della torcia e facendo attenzione ai rami più bassi. Ogni tanto perveniva alle sue spalle l’ansimare del maresciallo, interrotto frequentemente da un’imprecazione alternata a una maledizione. ‘Ormai dovrebbe mancare poco’ – rifletté – era quasi mezz’ora che avevano lasciato l’auto giù sulla strada. L’avevano parcheggiata accanto a una elegante e lucida berlina Mercedes (che lì pareva un po’ incongrua, a dire il vero) e al vecchio fuoristrada Toyota rosso del cacciatore che aveva dato l’allarme. Improvvisamente intravide nella leggera foschia una radura imbiancata dalla brina e dopo pochi passi ancora apparvero nell’incerta luce del primo mattino due figure umane come in attesa che guardavano nella loro direzione, certo attirate dal rumore che producevano avanzando. Dovevano certo essere in loro attesa e infatti appena uscirono dalla boscaglia il primo dei due, quello più alto, gli si fece incontro per salutarli. Indossava uno stinto e liso giaccone mimetico stretto in vita da una cartucciera, in testa un cappello a larghe tese e dalla spalla pendeva una vecchia doppietta. Ai suoi  piedi un consunto zaino militare. Avvicinandosi lo riconobbe subito dalla grande e folta barba grigia: era Pino, il vecchio benzinaio in pensione.

– “Sono lì”. L’uomo fece un cenno con la mano verso lo spiazzo. “Devo aspettare?”

Il maresciallo gli rispose di sì, che sarebbe stato meglio. Il vecchio borbottò qualcosa al compagno che era rimasto in disparte, quasi rispettoso, poi cominciò ad armeggiare con la pipa. Paternò intanto aveva cercato di togliere da sotto le suole un po’ dello spessore di fango e foglie che vi si erano incollati, strusciando e battendo i piedi sull’erba del prato, poi seguì il maresciallo che si era inoltrato e scorsero subito un corpo bocconi, seminascosto da un cespuglio di ginepro. Alzarono lo sguardo guardandosi intorno e videro, tutto sulla destra a non più di venti metri, una massa scura sotto una quercia: era un secondo corpo, rannicchiato su sé stesso, quasi nella posizione di difesa che si assume quando ci si vuol proteggere da un colpo.

– “Che facciamo, chiamiamo la scientifica?” chiese Paternò.

Il maresciallo fece una smorfia di evidente fastidio: ”Ma chi vuoi chiamare. Vedi di non toccare niente e fai attenzione a dove metti i piedi. Aspettiamo il giudice e poi vediamo cosa vuol fare lui. Richiama tutti, intanto, digli di muoversi, quando arrivano?”. C’era parecchio nervosismo, nel suo tono. A Paternò venne spontaneo pensare che – a parte l’alzataccia –  la faccenda aveva mandato fuori giri il vecchio graduato che doveva sentirsi quantomeno impensierito per l’accaduto. Ma non fece una piega e si accinse  a telefonare.

– “Non c’è campo, qui”. La voce di Pino giunse da lontano mentre stava digitando il numero sul cellulare. Avrebbe dovuto ricordarselo: il collega che aveva ricevuto la chiamata era stato istruito dal cacciatore sia sulla strada da fare che sulle difficoltà di comunicazione nella zona e aveva riferito tutto con precisione. Registrò la prima figuraccia della giornata, augurandosi che il maresciallo, preso dai suoi pensieri, non avesse sentito.

– “Faccio qualche foto, maresciallo?” domandò con finta ingenuità. “Per caso, ho la mia macchinetta appresso” si scusò goffamente. Ma quale caso, se l’era messa in tasca apposta e infatti non potè sfuggire al commento ironico del graduato che appariva sempre più irritato da tutto quello spirito d’iniziativa.

– “Per caso, eh?. Fai come ti pare, basta che non fai casino intorno ai cadaveri, se no poi il capitano  s’incazza”  si sentì rispondere. Paternò cercò di ricapitolare rapidamente quello che aveva appreso al corso si fotografia alla scuola allievi, poi decise che, dando per scontato che tanto nessuno le avrebbe mai usate, poteva benissimo fare come veniva meglio. Tenendosi a una  distanza di rispetto cominciò a scattare, inquadrando  prima il corpo sotto la quercia. Poi girò intorno all’albero per osservare la scena dall’altro lato e  inciampò col  piede in qualcosa nascosto dall’erba alta. Si chinò per capire e con sorpresa sì accorse che era un fucile. Si affrettò a fare alcuni scatti da diverse angolazioni, poi risalì il lieve pendìo avvicinandosi all’altro cadavere e, sempre tenendosi a distanza, fece una serie di foto da tutti i lati. In meno di cinque minuti aveva finito e si rimise in tasca la macchina fotografica: Si rivolse allora al graduato:

– ”Maresciallo…” Non poté finire.

(segue qui: non dimenticate la recensione e grazie ancora.
Se poi vorrete addirittura comprarlo, grazie mille!  🙂 )

“Una città” da salvare (o almeno da aiutare)

7 Dic

Il titolo potrebbe apparire fuorviante, quindi chiarisco subito.
Una città” è una pubblicazione cui tempo fa mi sono abbonato. Nasce nel marzo 1991 a Forlì per iniziativa di un gruppo di amici, già impegnati politicamente a sinistra in anni giovanili che, senza alcun rimpianto per la militanza di un tempo né, tantomeno, per l’ideologia che l’aveva sostenuta, erano accomunati dalla curiosità “per quel che succede”, e dal desiderio di discuterne con altri, senza pregiudizio alcuno. Non essendo né intellettuali né giornalisti, quindi un po’ per necessità (l’incapacità a fare saggi o reportage), un po’ per una buona intuizione (l’idea che in un tempo di dubbi e domande più che di certezze, l’intervista fosse un genere che “si prestava”) la rivista nasce come “mensile di interviste”.

Accade ora che mi arrivi questa lettera. E’ una richiesta di aiuto, accorata ma piena di dignità: vi prego di leggerla e, se appena potrete, di dare un contributo abbonandovi. E’ una delle poche voci superstiti della vera stampa libera.
Il costo è contenuto, 30 euro, e sono soldi spesi bene, ve lo assicuro: date un’occhiata al sito  e alla copia di saggio e mi darete ragione.  
Grazie, intanto, comunque vada, per il tempo che mi avete dedicato.

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UNA CITTA’ mensile di interviste
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per discutere sui problemi che ci sono
per raccontare ciò che di buono si fa in giro
per ascoltare voci che solitamente non si sentono
per restar fedeli agli ideali umanitari di giustizia e libertà
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Gentile signora/e,
Lei riceve la newsletter del nostro mensile che, purtroppo di questi tempi, naviga in cattive acque.
Il programma di Una città è nei quattro propositi che si leggono qui sopra. Non sempre riusciamo a rispettarli, ma facciamo il possibile. Non abbiamo finanziamenti di sorta, dipendiamo dagli abbonamenti e questo è ciò che ci rende indipendenti. Ma ora siamo in difficoltà.
Gli abbonamenti sono calati, anche se di poco (siamo a 953) e non coprono più neanche i due costi principali: tipografia e i due part-time. Così non potremo andare avanti a lungo.
Siamo ancora convinti che fare questa rivista abbia un qualche senso.
Abbiamo bisogno di raccogliere 500 nuovi abbonamenti (a 30 euro) o l’equivalente in abbonamenti sostenitori e donazioni.

Se volesse aiutarci sottoscrivendo un abbonamento “primo ingresso” o regalandolo ad amici ecco la nostra proposta:
-abbonamento “primo ingresso” 30 €
-abbonamento-regalo 30 €

Se interessato le possiamo inviare una copia-omaggio per farsi un’idea più
precisa della rivista.
(Ci mandi il suo indirizzo)

Può anche sfogliare l’ultimo numero della rivista, cliccando su questo link: 
https://redazioneunacitta.files.wordpress.com/2016/11/unacittacc80-234-flip.pdf

Modalità di pagamento:
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Fratelli d’Italia

5 Dic

“L’Italia s’è desta” è il titolo di questa bella nota di Tomaso Montanari sull’Huffington Post.
Merita alcune riflessioni, da entrambe le parti, da chi ha votato per il sì e da chi ha votato per il no. Vorrei che tutti lo facessero, perché oggi è il momento in cui il nostro popolo deve ritrovare l’unità e demolire l’assurda e fratricida contrapposizione tra ‘noi’ e ‘loro’: il “derby d’Italia”, la sciagurata espressione che mi ha indignato, ha dimostrato quanto valesse. Io provo qui, timidamente, a proporre le mie prime considerazioni.
La prima riguarda la partecipazione. Qui, è innegabile, una parte dell’astensionismo cronico dei delusi e degli incazzati ha deciso che era il caso di intervenire. Quanto vale questo fatto? Molto, moltissimo a mio sommesso avviso. Poi c’è la Costituzione: hai voglia a dire che gli italiani non la conoscono: forse non ne conosceranno gli aspetti più articolati e complessi, ma la conoscono e, soprattutto, la amano.  Poi c’è da valutare la lezione impartita in anticipo ai futuri leader che si presenteranno sulla scena: che non ci provino più a fare colpi di mano; comincino invece ad avere rispetto per i cittadini e dargli quello che si aspettano.
“La sovranità appartiene al popolo” dice l’articolo 1. Che se lo ricordino sempre.

bandiera-costituzione

L’Italia s’è desta


L’Italia s’è desta.
Ha vinto la Costituzione. Ha perso il plebiscito.
Ha vinto il popolo. Ha perso il populismo cinico.
Ha vinto la sovranità del popolo. Ha perso il dogma per cui non ci sarebbe alternativa.
Ha vinto la voglia di continuare a contare. Di continuare a votare. Ha perso chi voleva prendersi una delega in bianco.
Ha vinto la partecipazione, il bisogno di una buona politica. Ha perso la retorica dell’antipolitica brandita dal governo.
Ha vinto un’idea di comunità. Ha perso il narcisismo del capo.
Ha vinto la mobilitazione dal basso, senza mezzi e senza padrini. Ha perso chi ha messo le mani sull’informazione, chi ha abusato delle istituzioni senza alcun ritegno.
Ha perso Giorgio Napolitano: che avrebbe dovuto unire, e invece ha scelto di dividere.
Ha perso Matteo Renzi, con tutta la sua corte: ma solo perché hanno voluto cercare nello sfascio della Costituzione una legittimazione che non avevano mai avuto nelle urne elettorali.
Un presidente del Consiglio che si dimette perché ha intrecciato irresponsabilmente la sorte di un governo e la riforma della Costituzione. Rivelatore il suo discorso: Renzi non ha detto di aver sbagliato. Ha detto di aver perso (difficile dire il contrario).
Ma non hanno vinto la Lega, il Movimento 5 Stelle o la Sinistra. Hanno vinto tutti i cittadini. Anche quelli che hanno votato Sì: perché tutti continuiamo ad essere garantiti da una Costituzione vera. Che protegge tutti: e in particolare proprio chi perde. Chi è in minoranza. Chi non ce la fa.
E ora non raccontateci che l’Italia non vuole guardare avanti. È vero il contrario: l’Italia ha capito che questo non era un cambiamento.
Ha vinto l’Italia che vuole cambiare verso. Ma davvero.
E ora che succede? Succede che la Costituzione rimane quella scritta da Calamandrei, La Pira, Basso, Moro e Togliatti. Non quella riscritta dalla Boschi e da Verdini.
E succede che Maurizio Landini fa i cappelletti, il piatto della festa. Perché oggi è un giorno di festa. Per tutti: nessuno escluso.
Il campo da gioco c’è ancora. Da domani si gioca.

5 Dicembre 2016

http://www.huffingtonpost.it/tomaso-montanari/litalia-se-desta_b_13420232.html

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copertina-cucsfhttp://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/296575/come-una-casa-senza-finestre/

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