L’articolo di Alberto Statera apparso su Repubblica del 27.2.2014 (lo trovate per intero alla fine di questo post) ) mi ha portato a riflettere su cosa rappresenta la burocrazia nel nostro Paese e sul come e perchè quella che viene formalmente definita come Pubblica Amministrazione (in breve P.A.) venga pressoché unanimente indicata come una delle principali cause del suo declino.
Ma, prima di tutto, cos’è la ‘burocrazia’? Il termine venne coniato verso la fine del XVIII secolo da Vincent De Gournay, un intellettuale prestato al pubblico servizio, unendo il termine greco ϰϱάτος, (kratos=dominio) e quello francese “bureau”. Come ben descritto nel bel saggio pubblicato nell’Enciclopedia Treccani delle scienze sociali, nacque in Francia, “la nazione che nel XVIII secolo occupava una posizione preminente in Europa, con una ricchezza e una popolazione in costante aumento, amministrata da una monarchia centralizzata e circondata da intellettuali sempre più sicuri di sé”. Quel sistema costituzionale autocratico produsse di fatto un corpo di funzionari relativamente autonomo. I requisiti tecnici del governo erano infatti divenuti troppo complessi perché il sovrano – che preferiva dedicarsi ai fasti e ai divertimenti della corte – potesse controllarli personalmente e si verificò “la totale abdicazione dell’autorità personale di fronte al funzionario illuminato ed esperto, che fondava la propria legittimazione sulla razionalità. Le regolamentazioni più fastidiose apparvero allora come necessità del governo, atte a stabilire singolarmente o collettivamente appropriati codici di comportamento e di amministrazione”.
Questo per quanto riguarda le origini: si può anche aggiungere che la burocrazia, intesa come insieme di regole semplici e chiare da un lato e competenze ordinate ed organizzate dall’altro, rappresenta il fondamento di una qualsiasi collettività. Ma il problema nasce quando la b. tende a perpetuarsi e ad avvitarsi su sè stessa: per difendersi o per manifestare la sua superiorità e conservare un potere – quello della conoscenza della norma – si dedica a complicare le procedure per renderle sempre più complesse e meno comprensibili al cittadino. In questo il governo dello Stato ha la sua responsabilità: dovrebbe vigilare sulla correntezza delle regole, normare con chiarezza e precisione, semplificare le procedure; in altre parole dovrebbe rappresentare il punto di vista del cittadino nei confronti dello Stato stesso, affinchè il colloquio, lo scambio tra le due parti avvenga nel modo più semplice e rapido possibile con vantaggio di tutti.
Purtroppo questo non è quanto avvenuto in Italia ed oggi ci troviamo di fronte ad un vero e proprio mostro indomabile: Filippo Ceccarelli la definisce “la riforma impossibile”, tracciando una breve storia dei tentativi che si sono succeduti nel nostro Paese dal dopoguerra in poi. Ma è davvero così? Davvero non esiste possibilità di successo?
Nell’epoca della comunicazione immediata, dell’informazione disponibile per tutti in tempo reale la pessimistica previsione di Ceccarelli mi appare infondata. Certo, non sarà affatto facile, le resistenze dei burocrati, consapevolmente o meno, saranno innumerevoli, ma esistono le strade e le modalità per riportare la b. al suo ruolo di strumento al servizio dei cittadini. Perchè è certo che l’Italia deve assolutamente provvedere a riorganizzare la sua burocrazia e renderla giusta ed efficiente se vuol sopravvivere: imprenditori e cittadini devono trovare la via per un rapporto con lo Stato che non sia basato sull’ottisa autorità che respinge ogni possibilità di miglioramento dei rapporti formali. Che senso ha che io sia costretto ogni volta che mi affaccio a uno sportello pubblico a ridare tutti (tutti) i miei dati anagrafici? Non è sufficiente che io porga la mia tessera sanitaria (nel cui chip è contenuto tutto ciò che mi riguarda) all’impiegato che in un secondo la passerà sotto il lettore ottico evitando trascrizioni, registri (spesso cartacei!), e comunque un inutile accumulo in banche dati che non comunicano tra loro? I danni di questa burocrazia sono gravissimi: la CGIA di Mestre ha valutato che solo gli imprenditori sprecano oltre 7.000 euro l’anno per adempiere a tutte le formalità (spesso inutili) richieste,
qualificandola come ‘la meno efficiente d’Europa’, definizione confermata dalle classifiche della Banca Mondiale, fa perdere montagne di tempo inutilmente. In sintesi, come dice bene un titolo de LINKIESTA, ‘la burocrazia ha trasformato i cittadini in schiavi’. E fermiamoci qui, per carità di patria.
Dunque, bisogna fare qualcosa. Nel suo blog ‘Che futuro!‘ l’avvocato Ernesto Belisario illustra sinteticamente i tre punti basilari su cui dovrebbe fondarsi la revisione dell’apparato burocratico. Belisario si occupa di diritto delle nuove tecnologie e di innovazione nella Pubblica Amministrazione, in particolare dei profili giuridici dell’e-gov e dell’open-gov. Insegna all’Università della Basilicata ed è Presidente dell’Associazione Italiana per l’Open Government e Segretario Generale dell’Istituto per le Politiche dell’Innovazione.
Riferendosi alle recenti dichiarazioni sulla riforma della b. del Presidente del Consiglio, Renzi, ‘avv. Belisario commenta che oggi “non basterebbe più rendere la pubblica amministrazione digitale e semplificare i rapporti con i cittadini, anche se aiuterebbe a costruire un rapporto più sereno con i cittadini e a porre in essere una seria spending review. L’Agenda Digitale, per quanto importante, è solo una tessera del mosaico di una strategia ben più ampia che attiene il funzionamento della nostra democrazia”. E aggiunge: “Se Renzi vuole davvero dare un segnale forte per cambiare “mentalità”, la riforma della burocrazia deve essere immediatamente tradursi in una seria strategia di open government che segni un evidente cambio di passo rispetto al passato” che si basi su tre punti: trasparenza, partecipazione e collaborazione che possono essere posti in essere “immediatamente (ben prima che cambino le norme) e che servirebbero anche a ricostruire la legittimazione popolare di un esecutivo a cui in tanti addebitano il “peccato originale” di essere nato senza l’investitura delle urne. Vincere la battaglia contro la burocrazia, nel 2014, significa completare la transizione verso un’amministrazione aperta. Aperta all’innovazione, certo, ma anche – e anzi soprattutto – alla trasparenza, alla partecipazione e alla collaborazione”.
Qui di seguito i tre punti:
1. TRASPARENZA: Open Siope e il “file excel”
Nel suo discorso in Senato, il premier Renzi ha parlato espressamente di Freedom of Information Act (che i lettori di CheFuturo conoscono già) e accountability, impegnandosi a mettere on line tutte le spese. Una delle prime priorità è quindi quella di fornire trasparenza sul “come” vengono utilizzati i soldi delle tasse dei cittadini. Non si tratta di voyeurismo, ma di una misura che consente di migliorare la qualità della spesa e di individuare più facilmente gli sprechi.
In realtà, alcune norme degli ultimi anni (dal Decreto “Sviluppo-bis” al “Decreto Trasparenza”) hanno già imposto a tutte le amministrazioni di pubblicare bilanci e dati di spesa sui propri siti web. Ma – come dimostrano le parole di Renzi – queste norme non hanno funzionato: non tutti gli Enti pubblicano le informazioni tempestivamente e, troppo spesso, si tratta di dati disomogenei e quindi inconfrontabili. Per non parlare del fatto per cui la frammentazione delle informazioni tra decine, se non centinaia, di siti diversi impedisce – di fatto – la loro confrontabilità e il loro riutilizzo.
Per questo motivo, se il Governo vuole davvero dare pubblicità a questi dati, deve farlo in modo diverso. Magari aderendo alle richieste di chi – da anni – chiede l’apertura dei dati di SIOPE, il sistema informativo sulle operazioni degli Enti pubblici che raccoglie i dati degli incassi e dei pagamenti effettuati da tutte le amministrazioni. Il SIOPE, partito nel 2003, è un potentissimo strumento di monitoraggio dei conti pubblici, nato per la rilevazione in tempo reale dei loro fabbisogni.
Finora, i dati di SIOPE sono accessibili solo da chi gestisce il sistema (Banca d’Italia, Ragioneria Generale dello Stato e ISTAT) oltre che da tutti gli Enti coinvolti nella rilevazione. Eppure, se quei dati fossero aperti, pubblicati cioè come open data, il valore di SIOPE potrebbe rappresentare:
1. uno strumento di trasparenza, innescando forme di controllo diffuso che consenta ai cittadini di verificare, in modo agevole, i dati relativi alle spese dei singoli Enti;
2. uno strumento di semplificazione che permetta, attraverso l’apertura di una sola banca dati, di pubblicare di dati di tutte le pubbliche amministrazioni, senza onerare ciascun Ente di esporre i propri dati (con tutte le problematiche legate ai costi e alla complessità per enti piccoli o piccolissimi).
3. un contributo alla crescita del settore privato, dal momento che le informazioni contenute in SIOPE potrebbero essere riutilizzate per creare app e servizi.
Aprire SIOPE, quindi, ma non solo. Il Governo ha anche la possibilità di mostrare in modo tangibile che la trasparenza serve – innanzitutto – a creare una classe dirigente responsabile in grado di rendere conto di quanto fatto durante il mandato.
Sarebbe quindi sicuramente un bel segnale la pubblicazione, sul sito di Palazzo Chigi, di una sezione dedicata all’attuazione del programma di Governo (il famoso “file excel” di cui ha parlato Renzi), con tanto di tempi previsti per l’attuazione delle singole azioni, nomi di Ministri e burocrati responsabili e provvedimenti adottati. La vera valutazione di amministratori e dirigenti, ormai, può essere fatta direttamente dai cittadini, a condizione che questi abbiano le informazioni per controllare l’operato del Governo.
2. PARTECIPAZIONE: accorciare le distanze tra cittadini e istituzioni
La burocrazia si combatte anche superando la contrapposizione tra Governo e cittadini che – da controparti – diventano partner.
Molto spesso ci si lamenta della distanza delle istituzioni rispetto ai cittadini: l’agenda dell’esecutivo è spesso drammaticamente distante dai problemi del “Paese reale”, per non parlare del fatto che i cittadini non vengono mai consultati nel corso dell’iter per la formazione dei provvedimenti del Governo.
Le nuove tecnologie e gli strumenti dell’Open Government possono venire in soccorso da questo punto di vista e conferire nuova legittimità al processo decisionale. Una delle azioni da intraprendere potrebbe essere la creazione, in seno al portale governativo, di una piattaforma di petizioni.
Diversi sono gli esempi internazionali: tutte le petizioni caricate su We the People (la piattaforma del Governo Americano) che vengono sottoscritte, in trenta giorni, da almeno 25mila persone ricevono una risposta dal Governo federale (un meccanismo simile è quello delle e-petitions del Governo britannico).
Anche a prescindere da ogni obbligo giuridico, Renzi potrebbe vincolare sé e i suoi Ministri a prendere posizione sulle petizioni che abbiano raggiunto un determinato quorum, in un termine certo (ad es. nei trenta giorni successivi alla chiusura della petizione). Una misura di questo tipo avrebbe l’indubbio vantaggio di creare un canale di comunicazione pubblico privilegiato con il Governo, che non consista nella mera possibilità di inviare mail o tweet, ma di condizionare realmente le scelte e l’agenda dell’esecutivo.
3. COLLABORAZIONE: i cittadini possono aiutare Ministri e burocrati
La burocrazia si sconfigge anche sovvertendo il tradizionale metodo gerarchico che vuole che i cittadini apprendano dell’adozione degli atti del governo (dai decreti legge ai regolamenti) solo in seguito alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Se per ciascuna delle riforme volute da Renzi si aprisse una consultazione pubblica (non necessariamente solo telematica), sicuramente questo consentirebbe di valorizzare l’enorme bagaglio di professionalità e competenze che – attualmente – rimangono al di fuori degli uffici legislativi e di staff dei diversi ministeri, evitando riforme “bureaucracy driven” e non orientate a risolvere i problemi dei cittadini e delle imprese. Oltre a marginalizzare il ruolo di quelle potenti lobby che, pur tanto demonizzate, sono riuscite fin qui a bloccare le riforme di cui tutti parlano.
Si tratta di tre punti che non richiedono tempi lunghi e che possono essere realizzati anche fin da subito. Lavorare in questa direzione significherebbe rendere irreversibile la guerra contro la “cattiva burocrazia” e il percorso di digitalizzazione ed innovazione della nostra democrazia. Azioni concrete, efficaci – probabilmente – più di cento norme e conferenze stampa.
Perché, come disse Sandro Pertini (ricordato proprio da Matteo Renzi), “il Paese ha bisogno di esempi, non di prediche”.
Francamente, non saprei cosa aggiungere, salvo uno scaramantico “speriamo bene”.
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BUROCRAZIA
La consorteria dei mandarini più forte di qualsiasi governo
di Alberto Statera
Li chiamano mandarini. E a ragione, perché l’organizzazione delle burocrazie fu importata originariamente in Europa dai missionari cattolici provenienti dalla Cina, dove avevano osservato il complesso sistema di selezione dei mandarini e dalla durata delle loro cariche pubbliche. Ora Matteo Renzi, con giovanile impeto, giura che per lui la “madre di tutte le battaglie” sarà riformare «l’albero mortifero della burocrazia», come lo chiamò Gaetano Salvemini. Bella sfida, con la quale si sono misurati invano nei decenni decine di presidenti del Consiglio e di ministri, dando vita anche ad episodi di rara comicità. Come quando nel 1964 il ministro per la Riforma della Pubblica amministrazione del primo governo Moro, il socialdemocratico Luigi Preti, indisse un concorso a premi tra tutti i cittadini (150 mila lire) per le migliori idee di riforma dell’apparato burocratico dello Stato. Il povero Preti forse immaginava quella immensa “macchina senz’anima” descritta da Max Weber come un esercito di Policarpo De’ Tappetti ufficiale di scrittura, l’impiegato ministeriale della Roma Umbertina interpretato da Macario in un film di Mario Soldati. E non come una consorteria di potenti grand commis inamovibili che i ministri se li bevevano in un sorso nei pochi mesi in cui questi restavano in carica. Il professor Sabino Cassese, massimo esperto di Pubblica amministrazione, ricorda spesso come il ministro del Tesoro Gaetano Stammati prendesse ordini in quasi tutto dal ragioniere generale dello Stato Vincenzo Milazzo e per il resto da Luigi Bisignani, che già stava mettendo in piedi il suo “nominificio”.
Naturalmente dell’ingenuo concorso di Preti non si seppe più nulla. Poi a partire dal 1998 leggi diverse hanno disposto che i dirigenti dello Stato più alti in grado siano legati alla durata dei governi, mentre gli altri possono essere nominati nell’incarico per non meno di tre e non più di cinque anni. Ma non molto è cambiato con l’applicazione di un minispoil system nel quale consiglieri di Stato, consiglieri della Corte dei conti, giudici dei Tribunali amministrativi, avvocati dello Stato e giuristi vari, si alternano – più o meno sempre gli stessi – nei gabinetti ministeriali e negli uffici legislativi, come nella porta girevole di un Grand Hotel.
Anche il governo Renzi dovrà fare il suo spoils system nel prossimo mese. E sarà curioso vedere alla prova Marianna Madia, quella giovane eterea messa al ministero per la Pubblica amministrazione e la semplificazione alle prese con mandarini astuti, potenti anonimi, alcuni dei quali affetti dalla sindrome della “leadership tossica”, come la chiama lo psicologo Andrea Castiello d’Antonio, e esperti cultori di“sabotaggio burocratico”.
Le premesse, per la verità, non sono le più incoraggianti. Il ministro ciellino Maurizio Lupi ha già confermato alle Infrastrutture Ercole Incalza, che calca i corridoi di quel ministero fin dai tempi del socialista Claudio Signorile. Mentre l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray è caduto nella rete di Salvo Nastasi, giovane padrone di fatto del ministero, appartenente alla squadra di Gianni Letta, che adesso Dario Nardella, prossimo sindaco di Firenze, preme su Renzi chissà perché per far confermare.
Il primo è la corruzione. Ma nche questo non scherza. Ma si sa, la legge si applica per tutti e si interpreta per gli amici. Solo tre esempi, per ora, in attesa di vedere che cosa il nuovo governo saprà fare almeno nelle cinquanta poltrone più importanti nella Pubblica amministrazione. Ma già Luigi Einaudi avvertiva: «Il vero ostacolo per l’attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi che non sono in grado di compierla da soli. Per quanto siano bravi, per riformare devono fidarsi di qualche funzionario, o competente, non interessato, devoto al Paese il quale dica ad essi che cosa devono fare». Sarà brava la Madia, o lo stesso Renzi che rispetto ai suoi ministri sembra comportarsi come un uomo solo al comando? O sarà vero, come dice qualche suo amico, che Matteo si è già innamorato della sacralità di certi legulei capi di gabinetto? Alcuni sono notoriamente «sabotatori burocratici », come li ha definiti sempre Cassese, il quale racconta di un noto capo di gabinetto – forse il suo quando fu ministro della P.A. – contrario a certi cambiamenti nell’amministrazione previsti da una legge appena approvata: «Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge». Ne sanno qualcosa Mario Monti e Enrico Letta che hanno lasciato in eredità 852 decreti necessari per rendere operative le norme varate dai loro governi, scritte peraltro come sempre in ostrogoto, il burocratese che solo i mandarini ministeriali sanno interpretare.
Sono in tutto 3,2 milioni i dipendenti statali e costano 165 miliardi. Pochi credono davvero che il giovane Matteo con la candida Madia possa essere capace di condurli all’efficienza o addirittura a ridurli di 10 mila, cominciando dai capi (e di sfoltire le migliaia di leggi e leggine), per assumerne 1.000 meno adusi ai vicoli oscuri della giurisprudenza e più capaci di adattarsi al nuovo. Lodevole velleità, ma Matteo Renzi deve sapere che “la madre di tutte le battaglie” è contro una mostruosità autorigenerante che Robert King Merton descrisse come un «circolo vizioso disfunzionale» che vive di«incapacità addestrata».
a.statera@repubblica.it
Repubblica del 27.2.2014
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