Se in questi anni non abbiamo fatto altro che sognare

22 Set

Nel 1978 Eugenio Finardi pubblicò questa canzone, Cuba, all’interno dell’album Blitz. Ma non immaginava certo che riferendosi al “disagio dovuto al riflusso culturale nell’Italia di quegli annisarebbe tornato malinconicamente d’attualità diversi decenni dopo. A questi giorni.

Cuba

Forse è vero che a Cuba non c’è il paradiso
Che non vorremmo essere in Cina a coltivare riso
Che sempre più spesso ci si trova a dubitare
Se in questi anni non abbiamo fatto altro che sognare

È che viviamo in un momento di riflusso
E ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso
Che tutto quel cantare sul cambiar la situazione
Non sia stato che un sogno o un’illusione

Ma no non è un’utopia
Non è uno scherzo della fantasia
No, non è una bugia
È solo un gioco dell’economia

E se in questi anni tanti sogni son sfumati
In compenso tanti altri li abbiamo realizzati
C’è chi silenziosamente s’è infilato dentro al gioco
E ogni giorno lentamente lo modifica di un poco

Ed è normale che ci si sia rotti i coglioni
Di passare la vita in dibattiti e riunioni
E che invece si cerchi di trovare
Nella pratica un sistema per lottare

Ma no non è un’utopia
Non è uno scherzo della fantasia
No, non è una bugia
È solo un gioco dell’economia

Forse è vero che a Cuba non c’è il paradiso
Che non vorremmo essere in Cina a coltivare riso
Che sempre più spesso ci si trova a dubitare
Se in questi anni non abbiamo fatto altro che sognare

È che viviamo in un momento di riflusso
E ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso
Che tutto quel cantare sul cambiar la situazione
Non sia stato che un sogno o un’illusione

Ma no non è una bugia
Non è uno scherzo della fantasia
No non è un’utopia
È solo un gioco dell’economia.

NO.

14 Set

Piaccia o no, la nostra è una repubblica parlamentare e la Costituzione è disegnata sulla democrazia rappresentativa.
Mi rendo conto che per i tifosi del sì, quelli che sbraitano di parlamentari nullafacenti e hanno preso contatto con la Costituzione in questi giorni per la prima volta, siano concetti astrusi, ma questo è.

Intervenire sulla Carta manomettendola brutalmente – non diversamente da quanto fu fatto nel 2005 con la riscrittura infelice del Titolo V – è non solo rischioso, ma peggio.
Per modificarla occorrono le menti brillanti di giuristi, intellettuali e politici come quelli che vi lavorarono per due anni con passione e spirito di servizio nel 1946. Invece oggi bastano i beneficiati da una indecente legge elettorale che votano a comando rispondendo a stimoli pavloviani.

27 dicembre 1947: la Costituzione è realtà

Nessun rispetto neppure per il Parlamento – il luogo dove dovrebbero incontrarsi i migliori tra i cittadini: ma questo è l’esito di una campagna sotterranea che per anni ha puntato a squalificarlo.

La vera casta, i capipartito che non hanno mai inteso attuare la Costituzione, consapevoli dei fragili e risibili motivi addotti a giustificazione dello scempio (il risparmio, la maggiore efficienza, il confronto con altri parlamenti) hanno recentemente sganciato quella che credono possa essere l’arma finale: la caduta del governo Conte qualora vinca il NO.

E qui è la loro miseria: quella minaccia non ha alcun senso perché il pericolo consiste casomai nel risultato delle elezioni regionali e quella sconfitta – se dovesse verificarsi – sarà solo una loro responsabilità.

#IovotoNO consapevolmente e orgogliosamente.

Il Pd di Roma, le primarie e la sindrome dell’Okavango

12 Set

L’anno prossimo, come è noto, i romani saranno chiamati a eleggere chi succederà all’attuale sindaca Virginia Raggi, che ha già provveduto a ricandidarsi.
Finora, nessuna delle forze politiche si è espressa con i rispettivi candidati: per la precisione, non sono neppure state formalizzate le eventuali coalizioni. Sembrerebbe di stare ancora in alto mare, quindi.

Ma non è esattamente così. Anche se il momento vede tutti i partiti concentrati sull’esito delle imminenti elezioni regionali e del referendum, sottotraccia, nei corridoi o davanti a un caminetto, ovunque l’argomento dà luogo a ipotesi e discussioni, si abbozzano trattative. È sempre stato così, non c’è da scandalizzarsi più di tanto.

Cosa faranno le destre? Lega e Fratelli d’Italia esprimeranno un candidate comune? E Forza Italia? E cosa faranno le sinistre? Sapranno esprimere una coalizione che dia luogo a primarie con degne candidature per strappare il Campidoglio ai 5 stelle o contenderlo alla destra? Questi e molti altri interrogativi cominceranno ad avere qualche risposta all’indomani del 21 settembre, quando i risultati della duplice tornata elettorale saranno ufficiali e il Pd, che dovrebbe guidare l’auspicata coalizione di centro sinistra dovrà uscire dal suo poco comprensibile mutismo.

Poco comprensibile perché, come affermato nello Statuto del Partito democratico di Roma:
Art. 16. 1. Il Partito Democratico di Roma assume le primarie come elemento costitutivo della propria rappresentanza e della propria proposta politica affinché le stesse traggano legittimazione e vitalità dal rapporto diretto con i cittadini elettori.
Lo stesso identico articolo, pari pari, viene ribadito dall’art. 16, comma 1, dello  Statuto del PD – Unione regionale del Lazio, mentre l’art. 24 dello Statuto del PD nazionale dichiara che:
1. I candidati alla carica di Sindaco e Presidente di Regione vengono scelti attraverso il ricorso alle primarie di coalizione.

 Va anche precisato che lo Statuto nazionale prevede che qualora non ci sia una coalizione o la coalizione non concordi sullo svolgimento di Primarie subentrino soluzioni alternative.
Ma il punto focale è rappresentato proprio dalla necessità vitale di realizzare la coalizione per potersi confrontare adeguatamente con la grande sfida che presenta l’attuale situazione: occorre una mobilitazione generale dell’elettorato di centro sinistra, serve offrire ai romani un progetto  che guardi al futuro, proporre un programma credibile di riscatto della città, credere nell’imperativo categorico di recuperare la dignità di Capitale offesa da anni di governo imbelle. E per questo occorrono figure in grado di poter garantire gli obbiettivi per le accertate capacità, le competenze, le esperienze, le intime motivazioni. Non servono i grandi nomi di facciata che non si sa quanto possano attrarre effettivamente, servono persone che abbiano dato prova di saper fare, che abbiano la visione dei problemi della città, primo fra tutti il decentramento amministrativo.

Una buona parte di responsabilità di tutto questo ricade, va detto, sul Pd romano. Se non riuscirà ad essere protagonista nella decisione delle primarie, oppure se sarà subalterno a logiche che non appartengono alla città, se non riuscirà a rivitalizzare il suo elettorato – mortificato dall’indecente vicenda notarile – se non avrà uno scatto di orgoglio, se non saprà superare sè stesso e dare una prova d’amore per Roma, se subirà ancora una volta i meschini giochi di potere delle correnti e dei signori delle tessere, la partita si presenterà difficile (per usare un eufemismo).
Le primarie di coalizione aperte a tutto il potenziale elettorato potranno essere la dimostrazione solare che il Pd romano ha cambiato rotta di 180° e che si rivolge ai cittadini con fiducia, restituendo loro il diritto di scegliere e rispettando la loro volontà.

Foto del dr. Thomas Wagner

Sta al Pd decidere. Può tornare ad essere a Roma un grande partito protagonista o ridursi a  ricordare malinconicamente i tempi migliori restando nel piattume dei comprimari e negandosi colpevolmente la missione di guida che si era data.

Come l’Okavango, il grande fiume africano che scorre per 1600 km dall’Angola al Botswana e sfocia nel deserto del Kalahari creando una palude: unico tra tutti gli altri fiumi, non raggiunge mai il mare.

A chi mi chiede perché voterò NO al referendum

19 Ago

Semplice: perché non c’è uno solo dei motivi dei sostenitori del sì che – a esser buoni – sia convincente.
Spiego perché, ma prima però devo fare una premessa.

Il 15 luglio 1946 l’Assemblea Costituente che reggeva le sorti dell’Italia istituì la Commissione per la Costituzione composta di 75 membri. C’erano le menti più brillanti della cultura e della politica italiana che operarono suddivisi in tre sottocommissioni (diritti e doveri dei cittadini, organizzazione dello Stato e rapporti economici e sociali), mentre un comitato di redazione fu incaricato di coordinare I loro lavori. Le discussioni furono appassionate e competenti: ognuno dei partecipanti era consapevole del momento storico, tutti erano spinti dal fervente e disinteressato desiderio di ricostruire l’Italia e darle una Carta che avrebbe consentito al nostro Paese di recuperare la dignità smarrita sotto il fascismo e ripresentarsi al mondo.

La Costituzione, legge fondamentale dello Stato, fu il frutto di una straordinaria opportunità che vide tutte le forze politiche collaborare generosamente. È una macchina ben disegnata, solida, ma allo stesso tempo delicata: non si può pensare di sostituirne impunemente un pezzo senza considerare i contraccolpi che l’intera struttura riceverebbe. Come in una macchina, non puoi sottrarre una ruota dentata sostituendola con una più economica biella senza conseguenze nel breve o nel lungo periodo. Basti pensare alla sciagurata riforma del Titolo V attuata troppo frettolosamente dal centro-sinistra nel 2001.
La nostra Costituzione viene generalmente  definita democratica e programmatica, per la rilevanza data alla sovranità popolare e perché offre un programma che dovrà essere reso effettivo dal Parlamento e dalle forze politiche. Va sempre ricordato, infatti, che la nostra è una repubblica parlamentare ispirata alla democrazia rappresentativa. È il Parlamento che disegna e definisce i provvedimenti legislativi, affidandone l’attuazione al governo. Ecco perché il mito della ‘governabilità’ nato in questi ultimi decenni stride con l’impianto costituzionale.

Perché, invece, molti la ritengono inadeguata? A mio avviso c’è in questo un inganno. Sono i principali attori della vita politica, i partiti, che si dimostrano inadeguati ogni giorno di più. Rileggiamo l’art. 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”  Ma i partiti, di proprietà e non, si sono trasformati in macchine di potere e basta ricordare come fu gestita la questione del finanziamento – bocciato dal referendum e resuscitato con I “rimborsi elettorali” – o la nefanda legge elettorale, che contribuisce in gran parte ad affollare il Parlamento di figure di assai scarsa qualità, per preparazione e solidità morale (salvo le scarse quanto lodevoli eccezioni): le liste dei candidati vengono predisposte in funzione della loro fedeltà, non dell’esperienza e della competenza sottraendo al popolo – sovrano solo a parole – la facoltà di scegliere i propri rappresentanti.

E ora torno al punto, iI minacciato taglio dei parlamentari. In sintesi, a favore del taglio si adducono tre principali argomenti.
1. La riduzione dei costi della politica.
2. Lo snellimento dell’intero processo legislativo.
3. Equiparare il numero dei parlamentari a quello degli altri Paesi.


Sul primo punto il M5s si è spinto a dichiarare addirittura un miliardo di risparmio, salvo poi rimangiarselo chiarendo che occorreranno dieci anni per ottenerlo, trattandosi di 500 milioni a legislatura. Vabbe’.

Sta di fatto che qualcuno più affidabile come L’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli ha ricondotto il risparmio a 285 milioni nei cinque anni, facendo notare che “il vero risparmio per lo Stato deve essere calcolato al netto e non al lordo delle imposte e dei contributi pagati dai parlamentari”. Solo un piccolo particolare, eh?
Resta tuttavia una domanda: ma non sarebbe stato più semplice (e redditizio per le casse dello Stato, visto che si ha tanto a cuore il risparmio) ridurre di un terzo indennità e rimborsi spese dei parlamentari? Tanto per la cronaca, si tratta mediamente di 13-14.000 euro al mese al netto delle tasse.

Sul secondo punto verrebbe da sorridere pensando alle menti semplici che lo hanno faticosamente elaborato, se non fosse che nel retroterra di questo concetto dev’essere salda l’idea che la discussione su un provvedimento legislativo o, ancora peggio, il fruttuoso e democratico confronto delle idee sia tempo perso. Quindi obiezioni, osservazioni, critiche, emendamenti sono da ridurre il più possibile. Il Parlamento deve diventare, contraddicendo l’impianto fondativo dei costituenti, un centro decisionale cioè un luogo dove si approva bovinamente quanto deciso altrove. Questa è una vecchia idea di Berlusconi che aveva addirittura proposto di far votare solo i capigruppo delle due Camere, ma l’ipotesi ebbe vita breve. Il giovane Casaleggio l’ha ripescata e fatta propria, spingendosi pericolosamente ben più avanti:“In futuro il Parlamento non servirà più”. Il taglio su cui voteremo dovrebbe quindi essere il primo passo in questa direzione?

Quanto al terzo punto si potrebbe rispondere con una semplice domanda: ma cosa ce ne frega di come sono strutturati I Parlamenti degli altri Paesi, con altre culture, altre storie alle spalle, altre Costituzioni? Per quanto interessante, non sarebbe però una risposta adeguata per cui rinvio al Dossier A.C. 1585-B (Riduzione del numero dei Parlamentari – Elementi per l’esame in Assemblea) predisposto dagli Uffici studi di Camera e Senato. Riporto qui solo due tabelle, relative alla rappresentanza dei parlamentari in rapporto alla popolazione. Per fare solo un esempio, oggi in Lombardia un senatore  rappresenta 198.043 cittadini: con il taglio prospettato diventerebbero 313.097. Nella circoscrizione Lombardia 1 un deputato rappresenta attualmente 95.147 cittadini: dopo il taglio passerebbero a 152.235.

 

 

 

 

 

 

 

 


Quindi un Parlamento sempre più distaccato dal popolo, sempre più torre d’avorio dove i nostri pseudo-rappresentanti saranno sempre più ostaggio dei vertici dei partiti che li hanno nominati in funzione della loro fedeltà (o dovrei dire servilismo? Ricordatevi il voto per Ruby nipote di Mubarak) per sottoporli poi alla beffa del nostro voto: la sovranità popolare si esprime solo nella scelta del partito, non in quella di chi ci dovrebbe rappresentare.

Infine. Nessuno si è ancora peritato di rispondere come verrà gestita la questione delle Commissioni delle due Camere, di come e quando adeguarne i Regolamenti interni, di come verranno ridisegnate le circoscrizioni e i collegi, quando – soprattutto – ci verrà data una legge elettorale degna di questo nome e rispettosa della Costituzione. Se il NO non dovesse sfortunatamente prevalere ci ritroveremo un Parlamento intrappolato in un pasticcio inestricabile.

E ora, votate NO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un commento di Merlo

15 Ago

Cinque anni fa, press’a poco di questi tempi, leggevo stupefatto – come tanti romani – del concentrico attacco mediatico al sindaco Marino. Al coro si aggiunse, a un certo punto, anche uno stimato commentatore come Francesco Merlo, che su Repubblica non esitò a definirlo ‘fragile‘, ‘tontolone’, ‘inadeguato‘ e altro ancora in una serie di articoli che grondavano gratuite quanto inspiegabili acidità. Una volta persi la pazienza: fu quando definii Merlo “il merlo roditore“, riferendomi all’ennesimo intervento dell’illustre firma in quel caso clamorosamente errato .

Oggi Merlo ci ha riprovato, accostando Marino ad Alemanno e alla Raggi. Fatte le dovute proporzioni, mi è venuta in mente la recente proposta approvata dal consiglio comunale di Terracina di dedicare una piazza a Berlinguer e Almirante.
Per carità, c’è ancora libertà d’opinione in Italia e Merlo può dire tutte le sciocchezze che vuole. Sono e restano commenti di merlo. 

 

 

 

 

 

Senza le Primarie, nel 2021 il centro-sinistra a Roma rischia molto. Anzi, moltissimo.

25 Giu

Per quanto se ne può sapere ad oggi, alle prossime elezioni per il sindaco di Roma i romani si troveranno come principali contendenti il candidato del centro-sinistra, quello della destra, la sindaca Raggi (forse con una sua lista civica se non verrà superato l’ostacolo del doppio mandato vigente nei 5stelle) e qualcun altro (Magi? Calenda?).
Sempre seguendo le voci del momento, il vertice del Pd vorrebbe proporre David Sassoli, il cui mandato di presidente del Parlamento europeo scadrà nel dicembre del 2021; dalla destra non sono ancora pervenute anticipazioni (salvo quella, poco credibile, di Giorgia Meloni in persona).

Non sono un analista politico, ma come semplice cittadino intravedo due diversi possibili scenari, entrambi la sera degli scrutini del primo turno, a seggi chiusi.
Primo scenario. Da subito ci si rende conto che nessuno dei candidati raggiungerà la maggioranza e quindi il ballottaggio sarà inevitabile tra i primi due. Chi saranno?

Secondo l’ultimo sondaggio de la7, le attuali posizioni sono queste: il centro-destra, comprendendo Forza Italia, raggiunge il 47%, mentre il centro sinistra, raccogliendo anche le virgole non supera il 34%. Ora, è ragionevole pensare che press’a poco gli stessi valori si rifletteranno nel voto romano e che quindi per il candidato scelto dal centro-sinistra al ballottaggio si profila un confronto durissimo con serie probabilità di una bruciante sconfitta anche se i 5stelle (Raggi o non Raggi) offrissero il loro contributo di circa il 15% che hanno mantenuto. Ma il dato più impressionante sarà quello delle astensioni: più del 50%.
Intendiamoci: non è una novità. Nel 2016, al ballottaggio Raggi-Giachetti fu del 49,8%, principalmente dovuto al disamore degli elettori Pd dopo la nota e mai digerita deposizione del sindaco Marino.
Si potrebbe quindi concludere che ancora una volta (ricordate Rutelli contro Alemanno?) la candidatura calata dall’alto e non sondivisa è stata respinta dall’area degli elettori del centro-sinistra.

Veniamo al secondo scenario. Nei mesi precedenti la tornata elettorale è andata via via crescendo un’onda popolare che chiedeva all’intero centro-sinistra l’adozione delle primarie per individuare il candidato da insediare in Campidoglio. Associazioni, comitati, gruppi di cittadini, anche singoli elettori, hanno cominciato a costituire un’inattesa forza di pressione. In un libro di qualche anno fa Gianfranco Pasquino così definiva le primarie (il neretto è mio):

“La scelta dei candidati alle cariche elettive monocratiche – sindaci, presidenti di province e regioni, capi di governo – può avvenire attraverso elezioni primarie. Spesso misconosciute, altrettanto spesso contrastate da coloro che le conoscono poco oppure hanno motivo di temerle, le primarie sono l’unica, vera, significativa innovazione politica dell’incompiuta transizione italiana. Cittadini interessati e informati hanno la grande opportunità di esercitare una piccola quota di potere politico, opportunità che hanno spesso saputo sfruttare.” 

È così avvenuto che alla fine i partiti hanno dovuto cedere e il candidato del centro-sinistra è stato individuato con le primarie in base ad una decisione dal basso, godendo anticipatamente di una grande popolarità oltre che del convinto consenso degli elettori. In altre parole, è arrivato all’appuntamento elettorale ‘lanciato’. E infatti questo vantaggio si riscontra nei voti: la percentuale supera sensibilmente quella attesa e inaspettatamente il dato delle astensioni si riduce; molti delusi hanno ripreso fiducia e si sono mobilitati in una sorta di nuova resistenza.
Si andrà al ballottaggio contro il candidato della destra, dunque, ma con ben altre prospettive.

Fantapolitica? Sconsiderato ottimismo? Può darsi. Ma non vedo altra via d’uscita e soprattutto non vedo come il Pd romano – sfibrato dalle lotte intestine e dal mai giustificato misfatto compiuto contro il sindaco Marino, democraticamente eletto – e le altre forze progressiste possano ripresentarsi agli elettori invocando la loro fiducia. Al contrario, il centro-sinistra potrà rinvigorirsi e reagire adeguatamente solo coinvolgendoli e chiamandoli alle responsabilità di cittadini che amano la loro città, la Capitale, consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri.

Saper guardare al futuro di Roma: ROMA 20-25

23 Giu

 Cinque anni fa, nel gennaio 2016, si tenne al MAXXI di Roma una bellissima mostra dal titolo significativo: ROMA 20-25 – Nuovi cicli di vita per la metropoli.

Era nata dalla sentita esigenza di guardare finalmente al futuro della città, immaginare i modelli cui ispirarsi per indirizzare lo sviluppo della Capitale nei successivi dieci anni, Un appuntamento che sarebbe poi culminato in un evento vitale e impegnativo per la città come il Giubileo del 2025.

Nella mostra vennero esposti i progetti di 25 università italiane e straniere. Una mappa estesa dell’area metropolitana di Roma di 50 km. di lato era stata divisa  secondo una griglia ideale in 25 quadrati, con al centro la pianta rettangolare del Palatino:  ognuno era poi stato affidato ad una delle università partecipanti perché  elaborasse un progetto  con l’attenzione a studiare il tessuto economico e sociale dell’area per non calare dall’alto soluzioni astratte ma proposte rispettose della storia e del carattere del luogo e dei suoi abitanti.
L’intera  iniziativa era stata pensata e realizzata dall’Assessorato alla Trasformazione urbana, retto allora dal prof. Giovanni Caudo, docente di Urbanistica all’Università di Roma Tre (oggi Presidente del III Municipio), che così commentò la presentazione:  

Il workshop Roma20-25 è un’occasione per riflettere sui fenomeni di metropolizzazione che non interessano la sola città di Roma. Può diventare un luogo privilegiato di produzione di nuovi sguardi, con cui interpretare e progettare i territori contemporanei. ROMA 20-25, laboratorio di ricerca e progettazione, potrà riconoscere e portare all’attenzione degli amministratori di questa città fenomeni, dinamiche e realtà che spesso rimangono sottotraccia, nella permanenza di un cronico ritardo da parte di chi gestisce la città nel rilevare potenzialità ed elementi di interesse o innovazione nei territori che si trova a governare

La manutenzione stradale, la rigenerazione di edifici o le nuove costruzioni, la cura del verde, sono tutti interventi immediatamente percepiti dai cittadini che vivono in un territorio come segnali di buona amministrazione. E, se fatti bene e nel rispetto delle regole, lo sono. Ma non sono gli interventi isolati quelli che disegnano il futuro della città. La crescita di Roma guidata per tanti anni  dagli interessi dei costruttori ha portato ad una espansione incontrollata, alla costruzione di interi quartieri dormitorio senza un piano sui trasporti, al degrado di ampie zone centrali.

Elaborare una visione del futuro, con lo sguardo sollevato dalla gestione delle quotidiane emergenze, è quello che deve fare chi governa una città: progetti di ampio respiro che guardino alla vivibilità nel tempo, alla rigenerazione degli edifici dismessi, che mettano un freno al consumo di suolo. Roma ha assoluto bisogno di qualcuno che abbia una nuova visione e le capacità per realizzarla.

Una bella storia italiana

4 Giu

La racconta Riccardo Luna oggi su Repubblica ed è una storia di perseveranza, impegno, ottimismo, fantasia e generosità. È la storia di un giovane ingegnere bresciano che guarda al futuro ma sa stare con i piedi ben piantati per terra e che è stato nominato cavaliere del lavoro dal Presidente Mattarella per il suo contributo nella lotta contro il Covid-19 senza essere un medico. È un’altra di quelle storie che in questi drammatici mesi mi ha fatto sentire orgoglioso di essere italiano. Merita di essere riportata integralmente.

Cristian Fracassi, l’ingegnere che ha trasformato una maschera da sub in un respiratore anti covid

di RICCARDO LUNA

Questa storia è stata scritta per il numero di giugno della rivista Aspenia

L’hanno chiamato “l’angelo con la stampante 3D”, “il maker samaritano”, “l’eroe inventore”. Ma sono tutte definizioni retoriche che non raccontano davvero la formidabile storia di Cristian Fracassi. Eccola. 
 
“Sono nato a Manerbio il 27 marzo 1983, una domenica. Era il giorno di Pasqua ma non mi chiamo Cristian per questa coincidenza, il nome era già stato scelto. I miei genitori, Renato e Letizia, erano due piccoli imprenditori del bresciano. Si erano conosciuti una sera in discoteca, si erano innamorati, sposati e avevano aperto una azienda a testa, una davanti all’altra. Nel settore tessile. Una faceva cucito, l’altra stiro. Abitavamo a Massano Bresciano, millecinquecento abitanti, operosi di natura e per tradizione. In quella zona c’erano tantissime piccole aziende tessili che lavoravano per la Marzotto. Io sono cresciuto nelle piccole fabbriche dei miei genitori. LERA Confezioni quella di mamma, si chiamava così per le iniziali del suo nome e delle tre sorelle Elisabetta, Rosa e Assunta: si occupava di creare gonne, vestiti, maglie, partendo da tessuto, lampo e bottoni. Quella di papà era Erika Confezioni, il nome della mia sorellina, a papà non gliel’ho mai perdonato… e si occupava di stiro, arrivavano i vestiti fatti da mamma e lui li stirava, impacchettava e li metteva sulle grucce, pronti per essere venduti”.

 
“La mia culla era nei tessuti, i miei primi giochi erano i bottoni, sono vissuto col rumore delle macchine che cucivano, ero iper innamorato delle aziende…. Giocavo e vivevo in azienda. Con mia sorella quando siamo cresciuti ci muovevamo sui pattini tra le macchine che filavano e cucivano. Era il mio paradiso. I miei cucivano abiti da 4 o 5 mila lire che venivano venduti in negozio a 100 mila: mi sembra assurdo oggi che per risparmiare pochi centesimi in Cina, tutte queste aziende siano andate perdute. Non è successo all’improvviso, come con il coronavirus, ma comunque è stato un processo piuttosto rapido. E’ iniziato a mancare il lavoro, papà è stato bravo, ha provato a resistere, andava a cercare clienti in province diverse, viaggiava tanto per cercare nuove opportunità. Ma non ce l’ha fatta. Non era colpa sua: a un certo punto è fallito persino il Gruppo Manerbiesi che era un colosso che fatturava miliardi. Quando Lera ed Erica hanno chiuso, mamma si è messa a fare la casalinga, papà si è trovato un impiego come guardia in una azienda. Per me è stato un colpo, era il 1997. O il 1998”.
 
“Io andavo alle medie allora. Ero un ragazzino iper timido e per questo ne prendevo un sacco. Sì, di botte. Già alle elementari mi picchiavano e io stavo zitto, non ero un ribelle. Cercavo di sopravvivere. Vivevo in un mio mondo che era più grande e più interessante dei bulli di classe. Ero curiosissimo, volevo sapere tutto, imparare tutto. Mia nonna Lina mi chiamava Mike Bongiorno perché facevo a tutti mille domande, all’epoca non c’era Google dove trovare le risposte, e io ero un tormento, lei diventava matta. A scuola sono sempre stato bravo, soprattutto in matematica. I miei genitori avevano scelto un istituto di suore, non perché fossero così religiosi, ma perché loro lavoravano, c’era il lungo orario e così uscivo nel pomeriggio con i compiti già fatti. Ma a quel punto per me iniziava il divertimento: c’erano l’orto e le galline con cui giocare, mi divertivo con ogni cosa, persino a raccogliere i pomodori”.  
 
“Quando ero piccolo il mio sogno era lavorare nelle aziende miei genitori. Lì nasce la mia passione per i macchinari. Papà era super tirchio. E visto che si era stancato di pagare tanti soldi a quelli che venivano a fare manutenzione in fabbrica, ma anche i lavoretti in casa, si metteva accanto a loro per imparare quello che facevano, e dopo un po’ era in grado di ripararle da solo. Quando lo faceva mi diceva sempre: ‘Vieni a darmi una mano!’. E’ stata quella la mia scuola più grande: ho imparato come funzionano le macchine, ma anche a levigare i mobili, o restaurarli. Fare le cose, costruirle, aggiustarle è stato il vero terreno di contatto con mio padre: negli anni abbiamo creato insieme oltre cento bonsai. I veri bonsai non si comprano, si fanno. Ci vogliono da 5 a 20 anni per ottenerne uno. E’ un’arte, qualunque pianta può essere un bonsai, tenendola in un vaso piccolo, si ridimensiona, produce foglie e frutti piccoli, invecchia piccola. Io temevo di essere un bonsai. Fino a 18 anni ero alto un metro e mezzo, ero il nanetto della classe. Poi in una estate, quella di quinta, sono cresciuto di 28 centimetri. Oggi sono alto un metro e 78: non ho fatto nessuna cura particolare, semplicemente sono a scoppio ritardato”.
 
“Gli anni del liceo mi avevano portato per la prima volta fuori dal mio paesino natale: andavo allo scientifico di Manerbio, che ha 13 mila abitanti ma mi sembrava una metropoli. Avevo dei prof cattivissimi ma sono quelli che mi hanno fatto innamorare delle loro materie: in particolare mi ricordo Cominelli, che insegnava arte e architettura, e la Gobetti che mi bastonava in matematica. Faceva bene però. Infatti a 18 anni sono diventato campione italiano di matematica. E’ accaduto per caso, o quasi. Insomma la storia è questa. Nonostante la timidezza, amo le sfide e le competizioni. E’  il mio modo per superarla”.

“Ricordo che alle finali provinciali mi accompagnò papà: dopo il test, in attesa dei risultati, mi disse: andiamo a trovare il nonno. Facemmo tardi ed era ora di tornare a casa ma gli chiesi di andare lo stesso a vedere come ero arrivato. Tutti stavano uscendo ormai, noi ci presentammo al banco della giuria, dove c’era rimasto un tale, al ché chiedo: come sono arrivato? Mi chiamo Fracassi, Cristian Fracassi. E quello urla: abbiamo trovato il primo classificato!!! Avevo vinto. Il primo premio era un personal computer, ma visto che non mi ero presentato lo aveva già ritirato il secondo classificato. Ne ho dette un sacco al mio papà che però ha reagito in modo strano: non mi ha neanche regalato l’orologio che mi aveva promesso in caso di vittoria”.

“Tre settimane dopo c’erano le finali regionali a Milano: andammo tutti in pullman, io ero l’unico senza genitori: dove vuoi andare, tanto non puoi vincere, mi aveva detto papà. Ma devo spiegarlo meglio: papà è sempre stato orgogliosissimo di me, ma non me lo voleva dire. Ai tempi per questo lo detestavo, e questa è stata la grande molla per migliorarmi sempre e dimostrargli che si sbagliava; solo adesso capisco che lo faceva apposta per spronarmi, per farmi tirare fuori il mio talento. Per accendere il mio orgoglio. Ha fatto bene. Infatti quell’anno ho vinto le regionali a Milano e le finali nazionali a Cesenatico. Da solo. 
 
“Ero indeciso fra ingegneria e architettura e optai per una laurea doppia, a Brescia. Tutto cambia durante l’ultimo anno di università. Era il 2009 e c’era stato il terremoto dell’Aquila. Ricordo quel pranzo in casa con la tv accesa a guardare le case demolite con il groppo in gola. Pensavo: è colpa nostra, abbiamo sbagliato i calcoli per rendere quelle case sicure. Mi faceva rabbia vedere la gente disperata e non poter aiutare: non saprei fare altro che spostare macerie, pensavo. Il giorno dopo all’università vedo un camioncino che porta casse d’acqua, di plastica. E mi viene l’idea di creare mattoni di plastica che si incastrano facilmente. Era una follia, non avevo nemmeno le competenze. Allora decisi di farci la mia tesi di laurea. Scoprii così che in Germania, dopo la guerra, molti avevano fatto case di plastica. Erano case di forme strane, una moda che durò poco, ma quella tecnica era poi servita per costruire componenti dell’industria delle automobili e in particolare i camper. Così mi imbattei nel progetto della “casa non costruita” di Mies van De Rohe, un progetto del 1951 per una edilizia di massa che però non stava in piedi: pensai di ricostruirla in mattoni di plastica. I calcoli mi davano ragione: si poteva fare!”
 
“Dovete capire che per fare mattoni in plastica non esistono neanche le norme tecniche. Allora decisi di impiegare i mie tre anni di dottorato in ingegneria dei materiali per studiare i polimeri. Volevo sapere tutto sulle plastiche. Li ho trovato un ottimo maestro: Giorgio Ramorino. Come studio di dottorato presentai un progetto per l’utilizzo strutturale dei polimeri mentre di notte studiavo come fare il mio mattoncino: dopo tre anni era bello e finito. Il mio mattone. A Brescia ci sono tante aziende che stampano plastica, non è una roba strana, così ho pensato di cercare un imprenditore che finanziasse il progetto. Ma cadevo sempre sulla seconda domanda: la prima era, quanti soldi ti servono? La seconda: quando me li ridai? Non lo sapevo, non sapevo nulla di economia. Ero una capra. Lì ho capito che avrei dovuto studiare. L’associazione imprenditori bresciani organizzava un master, gratuito per i primi dieci: sono arrivato primo, ho preso la borsa di studio e così ho imparato come si sviluppa il business di una idea”.
 
“Abitavo ancora a casa dai miei genitori. Papà era severissimo. Prendeva i soldi delle mie borse di studio e me li decurtava perché diceva che abitavo da loro. D’estate per guadagnare qualcosa facevo il giardiniere, le piante mi sono sempre piaciute. Ma tutto stava per cambiare. Partecipo ad un concorso di idee della Camera di commercio di Milano: mi ero inventato una pallina di plastica dentro un cubetto di ghiaccio, per capire se un alimento era stato scongelato nel tragitto fino al negozio. Vinco il primo premio, cinquemila euro: volevo finalmente comprarmi la mia prima automobile, visto che avevo 29 anni, ma decido invece di usare quei soldi per depositare il mio primo brevetto. Due giorni dopo mi chiama un imprenditore locale e me lo ricompra per 14 mila euro. Si chiama Alvise Mori, diventerà il mio testimone di nozze ed è la persona che mi ha cambiato la vita: assieme fondiamo Isinnova, Inventa Sviluppa e Innova, la nostra azienda per sviluppare idee nuove. E’ l’ottobre del 2014. Sei anni dopo sarà Isinnova a salvare la vita a migliaia di pazienti di Covid-19″. 
 
“A Isinnova usiamo il digitale, ma per fabbricare oggetti. Non facciamo siti o app, con le stampanti 3D e con altre strumenti di fabbricazione digitale, arriviamo a realizzare prodotti finiti. In un certo senso io resto un meccanico, faccio cose da toccare. Realizzo invenzioni. E veniamo al motivo per cui siamo qui a parlare di me. Era un venerdì 13, venerdì 13 marzo e l’Italia intera era in lockdown da qualche giorno. I miei dipendenti erano a casa in smart working e io ero nel nuovo ufficio di Isinnova, ero lì che pulivo e pitturavo le pareti. Mi chiama la direttrice del Giornale di Brescia, Nunzia Vallini: dice che la situazione è drammatica, all’ospedale di Chiari servono valvole respiratorie, “hai una stampante 3D?”. Io ne ho 6. Ma per stampare serve il progetto della valvola, per poter impostare i comandi. Quella valvola in particolare la produce una multinazionale, li chiamo, mi rimbalzano da un responsabile all’altro, fino al Lussemburgo. Capisco che se vado in ospedale a prenderne una faccio prima”.

“Scopro così che non si tratta di un oggetto semplice, e in più ha un foro da 0,6 millimetri, poco più grande di un capello, dove passa l’ossigeno. La disegniamo in 3D, decidiamo di non stampare il foro e lo facciamo a mano, con una micro fresa, roba da orologiai. Il giorno dopo, era sabato portiamo le prime 4 valvole in ospedale per un test; dopo un po’ un medico esce dal reparto e ci dice: funziona, portatemene altre 100. La mattina seguente l’ospedale aveva le valvole richieste, rifinite a mano. Sembra un miracolo ma non lo è: la storia fa il giro del mondo, qualcuno scrive che la multinazionale vuole farci causa ma non è vero, anzi ci ha chiamato per ringraziarci; e non è neanche vero che abbiamo rifatto delle valvole da 10 mila euro con 1 euro di materiali ciascuna, nel prezzo di un oggetto non ci sono solo i materiali, c’è il lavoro, l’idea, la distribuzione… L’ho imparato al master”.
 
“Torno a casa felice: adesso quarantena per tutti, dico ai miei collaboratori. Ma nel pomeriggio ricevo un’altra telefonata dal Giornale di Brescia: c’è un medico in pensione che vorrebbe parlarti, mi dicono. Si chiama Renato Favero. Ci incontriamo lunedì mattina. Mi dice: bravo per le valvole, secondo me a breve mancheranno anche la maschere respiratorie. La sua idea è convertire una maschera da snorkeling. Mi fa tre ore di lezione sul funzionamento dei polmoni. Ha ragione, si può fare. Ma dove trovare le maschere in grandi quantità? Chiamo Massimo Temporelli, un esperto di innovazione, che contatta Decathlon. La risposta è incoraggiante: in magazzino ne hanno 100 mila, solo in Italia, per la stagione estiva. Ci forniscono la scheda tecnica del prodotto e ci mettiamo a modificarne una: i test stavolta sono durati un paio di giorni, non solo a Chiari ma anche a Brescia. Ricordo il medico che esce con il responso. Dice: Cazzo!, e io penso al peggio, mi sento crollare, ma poi aggiunge, ‘Funziona!'”.

“Con Favero siamo corsi a registrare il brevetto, non per guadagnarci, ma per proteggerlo: lo possono usare tutti, ma non per profitto. La maschera modificata l’abbiamo chiamata Charlotte, in onore di mia moglie Carlotta: ci siamo conosciuti 5 anni fa, è stato un colpo di fulmine, lei mi ha sempre spalleggiato, anche se la sera quando tornavo a casa durante la quarantena mi faceva spogliare fuori di casa per timore di contagi”.

“Decathlon ha regalato migliaia di maschere in tutto il mondo ma si può ottenere lo stesso risultato anche con maschere di altri produttori. Nel mondo in tantissimi hanno scaricato il nostro file di progetto e hanno fatto lo stesso. Ricordo un messaggio che mi è arrivato da un dottore in Brasile: oggi cento persone respirano grazie a te. Ci hanno chiamati eroi ma siamo eroi passeggeri, fra poco in prima pagina torneranno i calciatori. Non importa, sono contento così, ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque. Ho fatto quello che so fare”. 
 
“Quando il mio nome era sui giornali di tutto il mondo mi è arrivato un messaggio Whatsapp che aspettavo da tutta la vita. ‘Sei un genio’ c’era scritto. Dal mio papà. Era il secondo messaggio che mi scriveva in tutta la mia vita. Il primo quando mi sono laureato: su un biglietto di carta, ci ha scritto ‘ti voglio bene’. E’ ancora nel mio portafoglio. Visto che è orgoglioso di me?”.

 

 

Elezioni comunali a Roma: il miglior modo per far vincere le destre?

2 Giu

Un modo certo è quello collaudato già nel 2008 quando il Pd volle candidare per il terzo mandato Rutelli, nonostante le voce dei cittadini avesse espresso più di un dubbio sul’opportunità di proporre un nome che, pur con tutti i meriti acquisiti in precedenza, appariva come una imposizione. Complici alcuni fatti di cronaca, come l’aggressione a una donna alla stazione di Tor di Quinto, e contro ogni previsione, al ballottaggio vinse Alemanno.

Recuperando i miei ricordi e varie interpretazioni, la mia tesi è che Alemanno capovolse il pronostico non tanto per aver cavalcato il tema della sicurezza, quanto per aver fatto percepire all’elettorato che lui aveva a cuore gli stessi temi che alimentavano I timori dei cittadini; in altre parole, che lui “fosse dalla loro parte”. Poi ce ne accorgemmo quanto Alemanno e la sua cricca tenessero invece solo ai loro interessi, quando sconfitti restituirono una città saccheggiata e carica di debiti.

Il Pd cambiò strategia nel 2013, quando propose le primarie per individuare il nuovo sindaco. I romani sentirono che quella volta la politica aveva cambiato registro proponendo almeno un nome estraneo alle solite manovre, quello di Ignazio Marino. Fu così che, contro ogni previsione, al confronto tra Sassoli, Gentiloni  e Marino, prevalse quest’ultimo con uno schiacciante 51%, lasciando agli altri due candidati rispettivamente il 28 e il 14%. Al ballottaggio con Alemanno, poi, Marino lo travolse col 64%.

Ma la solita vecchia politica, quella degli intrallazzi, delle crostate, degli irriferibili interessi è dura a morire. Avvenne così che Renzi, avvalendosi del servizievole Orfini e decidendo lui solo che “il rapporto della città col sindaco si era interrotto”, deliberò di far cadere il sindaco con una congiura medievale. A nulla valsero le proteste di piazza: i romani fecero di tutto per ricordare all’allora segretario del Pd che l’art. 1 della Costituzione veniva spensieratamente calpestato e beffeggiato. E la fecero pagare cara alle successive elezioni, eleggendo Virginia Raggi, di cui si conosce già, purtroppo, il consuntivo che sta per lasciare a questa povera città.

Oggi, a un anno dal prossimo appuntamento elettorale, è giunto il, momento per noi romani di far sapere a voce alta e decisa ai partiti che i vecchi schemi degli accordi di vertice, delle facce note in tv, appartengono definitivamente al passato. E gli elettori di sinistra, in particolare, dovranno far capire ai vertici delle varie formazioni che c’è solo bisogno di persone competenti, capaci, esperte. Il candidato che può vincere contro le destre dovrà essere qualcuno che raccoglie consensi a 360 gradi, stimato per quello che ha fatto e che fa. con meriti riconosciuti e indiscutibili, individuato attraverso una modalità che consenta la partecipazione dei cittadini e quindi il loro impegno preventivo: le primarie.

Le primarie sono l’unico modo democratico per far sì che i cittadini  possano manifestare la loro opinione, perché si sentano coinvolti, l’unico modo per combattere quel 50% di astensionismo che è un segnale non di rischio, ma di gravissimo pericolo. E sono l’unico strumento della sinistra per distinguersi dai propri avversari e tornare a raccogliere non solo gli scontenti, ma soprattutto i giovani e i movimenti in cui questi si sono recentemente maggiormente raccolti, come le Sardine. Le Sardine rappresentano una forza di pressione civica e civile che ha saputo capovolgere pronostici scontati, come in Emilia-Romagna: hanno quindi una sorta di dovere morale, a mio avviso, di far sapere prima la propria posizione, per giocare d’anticipo, sorprendere la vecchia politica e indurla a cambiar registro. Provocare, in altre parole – perché no? – lanciare un masso nello stagno, in quella morta gora che è la politica romana.

Lasciar andare le cose, attendere le decisioni e gli accordi tra partiti vuol solo dire iscriversi anticipatamente alla sconfitta delle sinistre. Lo dico con tristezza, non rassegnato. Ma temo che se si dovessero seguire le solite strade non ci si dovrebbe poi meravigliare se si ingrosseranno i ranghi dei delusi che davanti all’ingresso del seggio elettorale, decidessero di fare dietrofront e tornarsene a casa, sconfitti in  partenza.

Buona festa della Repubblica a tutti.

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Leggete, studiate e lavorate,

sempre con etica e con passione.

Ragionate con la vostra testa

e imparate a dire di no.

Siate ribelli per giusta causa

e difendete la natura e i più deboli.

Non siate conformisti

e non accodatevi al carro del vincitore.

Siate forti e siate liberi,

altrimenti quando sarete vecchi e deboli

rimpiangerete le montagne che non avete salito

e le battaglie che non avete combattuto.

Mario Rigoni Stern

 

 

Leggi chiare e comprensibili: il potere della burocrazia contro i cittadini

20 Mag

Sei anni fa questo post annunciava una vera rivoluzione copernicana nella redazione delle leggi, affinché fossero davvero immediatamente comprensibili a tutti, nessuno escluso.
Oggi Sergio Rizzo, su Repubblica, raccontando degli assurdi 472 rimandi contenuti nel Decreto Cura Italia, commenta il modo astruso in cui vengono scritte le norme che devono regolare la vita dei cittadini e dello Stato, Nonostante siano state introdotte norme correttive che dovrebbero indurre i burocrati a redigerle in modo che siano comprensibili a tutti, si persiste ottusamente nelle modalità che non è fuori luogo definire antidemocratiche.
La legge n. 69 del 18 giugno 2009 all’art. 3 prescriveva che “ogni rinvio ad altre norme contenute in disposizioni legislative” deve indicare “in forma integrale o sintetica”, ma prima di tutto “di chiara comprensione”, la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento.
Non è difficile valutare quanto ne abbiano tenuto conto i burocrati.

Si può andare avanti così?

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(Cit. del Generale Aung San, leader della indipendenza birmana)

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