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Per favore Matteo, leggi subito il libro della Mazzuccato

16 Ago

Leggere oggi questo editoriale di Mariana Mazzuccato su Repubblica è stato come farmi una iniezione di fiducia.  Anticipo questi passaggi (l’articolo integrale è più sotto) e trovo quello che ci aspettiamo un pò tutti, dall’Europa e dal nostro governo, per rispondere alla crisi. La scorsa settimana, quando ha saputo che Renzi aveva comprato il suo best seller “Lo Stato innovatore”, la Mazzuccato gli ha scritto una lettera : fossi in lui, non starei a perder tempo e la chiamerei subito nello staff.

“Quando scoppiò la crisi finanziaria nel 2007,  i Paesi europei non furono colpiti tutti nello stesso modo e nelle stesse proporzioni. Quelli che da decenni non investivano nelle aree fondamentali per potenziare la crescita economica (per esempio l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo) hanno subito i contraccolpi maggiori….I Paesi deboli devono aumentare, non diminuire, gli investimenti in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca; e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita a una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine…..
Competitività non significa pagare poco i lavoratori ma è la capacità di produrre prodotti di alta qualità, a costo competitivo, che il mondo vuole acquistare…
Perché l’Europa non assegna un mandato altrettanto ambizioso alle sue istituzioni pubbliche? Perché ha paura: e la mancanza di solidarietà nell’avviare un “piano di crescita” serio alla fine porterà al declino anche i Paesi “forti”. La Germania può crescere senza vicini forti? No. È ora di cambiare rotta, e subito — soprattutto adesso che il costo del denaro è quasi zero…
I salvataggi e i prestiti dovrebbero essere vincolati a questo tipo di parametri e “condizioni”, non alle condizioni del fiscal compact basate sull’austerity, che servono solo a determinare un circolo vizioso di assenza di crescita — salvataggio — misure di austerità — assenza di crescita — salvataggio e così via.

 

L’UNICA STRADA PER COMPETERE

di Mariana Mazzuccato

L’ECONOMIA dell’Eurozona è tornata in prima pagina: la crescita è scesa a zero rispetto al primo trimestre. L’Italia è tornata in recessione (ma ne era mai uscita?) e il dato di Francia e Germania è più basso del previsto. Le autorità tedesche danno la colpa al maltempo, ma di sicuro il problema più grande è la disparità di competivitàtra i vari Paesi europei: il calo della domanda in certi Paesi penalizza le vendite in altri. Ma il Presidente della BCE Mario Draghi ha ragione a preoccuparsi di una ripresa “debole, fragile e disomogenea”; il problema è che la diagnosi dei fattori alla base della competività continua ad essere sbagliata.

Quando scoppiò la crisi finanziaria nel 2007,  i Paesi europei non furono colpiti tutti nello stesso modo e nelle stesse proporzioni. Quelli che da decenni non investivano nelle aree fondamentali per potenziare la crescita economica (per esempio l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo) hanno subito i contraccolpi maggiori. E infatti i Paesi a cui Goldman Sachs ha appiccicato l’infamante etichetta di Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono in fondo alla classifica per questo genere di investimenti. E quando la crisi finanziaria è diventata crisi economica è in questi Paesi che la crisi del debito sovrano e la crisi di “competitività” sono esplose con maggior durezza.

Politiche di austerità indiscriminate stanno aggravando le recessioni, come hanno dimostrato questo mese i dati relativi all’Italia. Ma anche se le riforme “strutturali” (come Draghi caldamente chiede) fossero attuate, sarebbero sufficienti, DA SOLE, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona? La risposta è NO: senza una grossa spinta agli investimenti pubblici e privati, non saranno sufficienti. I Paesi deboli devono aumentare, non diminuire, gli investimenti in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca; e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita a una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine.

Come la banca statale tedesca, KfW, è stata fondamentale per il successo dell’industria tedesca e come la Banca statale cinese per lo sviluppo è stata cruciale per l’affermazione di aziende innovative (come Huawei nelle telecomunicazioni, Lenovo nell’informatica e Yingli nelle energie rinnovabili) così l’Europa deve imparare a usare le sue istituzioni finanziarie pubbliche per indirizzare gli investimenti in questo senso.

Perché anche se la Bce diventasse finalmente una Banca centrale a tutti gli effetti, quel prestatore di ultima istanza necessario per placare i timori dei mercati finanziari speculativi, resterebbe il fatto che il Quantitative Easing da solo non basta: il denaro finirebbe semplicemente nei forzieri delle banche, che non lo destinerebbero al credito. La creazione di denaro dev’essere invece “indirizzata” verso le aree produttive dell’economia reale, e in quasi tutti i Paesi di successo del mondo questo è avvenuto attraverso istituzioni pubbliche come quelle descritte sopra. Il programma di misure di stimolo di Obama e il piano quinquennale della Cina (1.700 miliardi di dollari in 5 nuovi settori, dalle tecnologie ecocompatibili ai nuovi motori) sono stati indirizzati in larga misura a rendere “verdi” tutti i settori dell’economia.

Perché l’Europa non assegna un mandato altrettanto ambizioso alle sue istituzioni pubbliche? Perché ha paura: e la mancanza di solidarietà nell’avviare un “piano di crescita” serio alla fine porterà al declino anche i Paesi “forti”. La Germania può crescere senza vicini forti? No. È ora di cambiare rotta, e subito — soprattutto adesso che il costo del denaro è quasi zero.

L’euro può funzionare solo con un’Eurozona meno squilibrata nella competitività. Siemens non vince contratti di appalto per costruire treni in Inghilterra perché paga poco i suoi lavoratori (come ci vorrebbero fare credere quelli che pensano che i problemi dei Pigs dipendono dal fatto che lavoratori guadagnano troppo) ma perché fa i treni più veloci e più verdi — risultato di una forte politica industriale e di innovazione.

Una volta riconosciuto che i diversi livelli di competitività nell’Ue sono colpa delle marcate differenze nei livelli di investimenti pubblici e privati, dobbiamo mettere in moto ogni strumento di investimento disponibile, sia a livello nazionale che a livello transnazionale. Per esempio il budget della Commissione europea per l’innovazione (80 miliardi di euro!), i fondi strutturali della Commissione europea destinati a progetti innovativi con adeguate prospettive di fattibilità e vantaggio “sociale” — e ovviamente la Banca europea per gli investimenti (Bei).

Quando è scoppiata la crisi finanziaria, la Bei ha incrementato i prestiti approvati dagli 890 milioni di euro del 2007 ai 4,2 miliardi del 2009. Nel 2011 questa cifra è scesa drasticamente a 703 milioni, soprattutto a causa dei timori che la Bei potesse perdere il suo rating in tripla A e a causa della mancanza di consenso, tra i Paesi dell’Unione Europea, sul grado di attivismo dell’istituto. Se si vuole che la Bei oggi giochi un ruolo attivo, è necessario ricapitalizzarla usando i fondi strutturali non utilizzati e ricorrendo al cofinanziamento delle obbligazioni della banca con quelle emesse dalla Bce. Ma per fare una cosa del genere è indispensabile che la Bei venga vista come uno strumento importante per favorire investimenti produttivi, in particolar modo nei Paesi della periferia (i Pigs).

Ovviamente sarà necessaria anche una gestione adeguata “sul terreno” di questi investimenti: i ministeri e le aziende delle nazioni che ricevono i prestiti devono essere gestiti in modalità conformi ai parametri europei correnti. I salvataggi e i prestiti dovrebbero essere vincolati a questo tipo di parametri e “condizioni”, non alle condizioni del fiscal compact basate sull’austerity, che servono solo a determinare un circolo vizioso di assenza di crescita — salvataggio — misure di austerità — assenza di crescita — salvataggio e così via. E quello che forse è il pericolo maggiore: una perdita di solidarietà tra i Paesi europei che alimenterebbe le forze conservatrici e produrrebbe solo paura — non il coraggio necessario per cambiare strada.

( Traduzione di Fabio Galimberti)

Quello che preoccupa davvero di Renzi

7 Ago

Senza ulteriori commenti.

 

Da 'La Repubblica', 7 agosto 2014

Da ‘La Repubblica’, 7 agosto 2014

Tsipras: “abolizione dell’austerity”. Ma siamo matti?

12 Mar

Certo, a leggerla così la reazione può solo essere questa. Ma sarà sufficiente entrare appena nel dettaglio –  come fa oggi Guido Viale sull’Huffington Post – per comprendere che solo un programma radicalmente innovatore può riportare l’Europa all’iniziale progetto immaginato da Altiero Spinelli  nel Manifesto di Ventotene, liberandola delle scorie e delle deviazioni che si sono accumulate nel tempo e che ne hanno deformato gli ideali e la fisionomia.
avatar_altraeuropa_webInfatti, dice Viale, “noi della “lista Tsipras” vogliamo più e non meno Europa, ma un’Europa democratica, federalista, rispettosa dei diritti di tutti e delle autonomie locali, pacifica ma forte, inclusiva, sottratta al dominio della finanza”.

E più avanti, a proposito dell’austerity: “Su che cosa significa abolizione dall’austerity bisogna essere chiari e nessun economista finora lo è stato abbastanza. Il debito pubblico dell’Italia, come quello della Grecia, del Portogallo e, in un prossimo futuro, di molti altri Stati, è insostenibile. Nessuna politica di salvaguardia dei diritti di cittadinanza, lavoro, reddito, salute, istruzione, giustizia, nessuna politica di sviluppo umano e meno che mai nessuna politica di rilancio della “crescita” (per chi crede che la soluzione dei nostri problemi stia nella crescita del PIL) è perseguibile entro i vincoli del pareggio di bilancio o, peggio, entro quelli del fiscal compact, che prevede la restituzione (alle banche!) di oltre mille miliardi, sottratti ai redditi di chi ancora ne ha uno, entro i prossimi vent’anni”.

Qui di seguito l’intervista integrale.
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Un programma radicale per cambiare l’Europa

Qual è il programma con cui la lista L’altra Europa con Tsipras si confronta con il suo potenziale elettorato?

Abbiamo sempre detto che quel programma si costruisce in corso d’opera, attraverso la partecipazione di chi sostiene il nostro progetto e soprattutto dei tanti gruppi organizzati che hanno buone pratiche o lotte esemplari da proporre come modelli da generalizzare. Naturalmente il tutto si deve sviluppare lungo i binari che sono stati tracciati dall’appello di Barbara Spinelli e dei promotori e dalla dichiarazione programmatica di Alexis Tsipras. Vale a dire che con questo progetto si respinge tanto l’accettazione passiva delle politiche di austerità che stanno portando un numero crescente di cittadini europei e l’intero edificio dell’Unione verso la catastrofe, quanto l’idea che si possa “uscire dalla crisi” con un recupero delle sovranità nazionali – ben sintetizzato dalla proposta di “uscire dall’euro” – a cui si affiancano spesso reviviscenze nazionalistiche o, peggio, fasciste. Noi della “lista Tsipras” vogliamo più e non meno Europa, ma un’Europa democratica, federalista, rispettosa dei diritti di tutti e delle autonomie locali, pacifica ma forte, inclusiva, sottratta al dominio della finanza.

Una buona traccia intorno a cui lavorare per definire il nostro programma sono i dieci punti elencati nella dichiarazione programmatica di Tsipras. Alcuni vanno precisati, perché nella loro formulazione attuale potrebbero anche dare luogo a equivoci (per esempio, dove si parla di infrastrutture, occorrerebbe precisare che non stiamo parlando di Grandi opere, ma dell’esatto contrario: tante piccole opere per rimettere in sesto il nostro territorio, i nostri edifici, il nostro patrimonio culturale, i nostri beni comuni).

Alcune altre cose mancano, e per noi non sono di poco conto (per esempio, il reddito minimo garantito, la riduzione dell’orario di lavoro, la tassa sulle rendite, sui patrimoni e sulle transazioni finanziarie). Altre ancora, relative alla democrazia e ai diritti della persona, non sono nemmeno nominate perché rimandano ai tre principi contenuti nella prima parte della dichiarazione. Ma più che concentrarci su questi punti per allungare l’elenco (si rischierebbe di produrne uno senza fine e illeggibile) è decisamente meglio fissare l’attenzione sui tre principi che li inquadrano per cercare di esplicitarne la logica alla luce degli esempi concreti che l’esperienza pratica di ciascuno di noi può contribuire a definire. Anche perché la logica di questi principi è rivoluzionaria, di una radicalità sufficiente non solo a distinguerci, ma a marcare una netta contrapposizione verso tutte le altre formazioni politiche che parteciperanno alle prossime elezioni europee. PD, Pdl e 5S, infatti, non hanno un vero programma per l’Europa; partecipano a queste elezioni solo per avere un’affermazione o una conferma da far valere nel gioco politico nazionale. Noi invece siamo nati, come “lista Tsipras”, per giocare la nostra partita in Europa, che consideriamo il terreno principale dello scontro politico, sociale, e anche culturale, del nostro tempo; il che ovviamente non significa trascurare le conseguenze che una nostra affermazione (ancorché modesta) in queste elezioni potrebbe avere anche sul quadro politico nazionale.

Dunque, quali sono le logiche radicali dei tre principi di Tsipras, cioè dell’abolizione dall’austerity, della riconversione ambientale e delle politiche di inclusione?

Su che cosa significa abolizione dall’austerity bisogna essere chiari e nessun economista finora lo è stato abbastanza. Il debito pubblico dell’Italia, come quello della Grecia, del Portogallo e, in un prossimo futuro, di molti altri Stati, è insostenibile. Nessuna politica di salvaguardia dei diritti di cittadinanza, lavoro, reddito, salute, istruzione, giustizia, nessuna politica di sviluppo umano e meno che mai nessuna politica di rilancio della “crescita” (per chi crede che la soluzione dei nostri problemi stia nella crescita del PIL) è perseguibile entro i vincoli del pareggio di bilancio o, peggio, entro quelli del fiscal compact, che prevede la restituzione (alle banche!) di oltre mille miliardi, sottratti ai redditi di chi ancora ne ha uno, entro i prossimi vent’anni. Come sostiene Tsipras nella sua dichiarazione, quei debiti vanno rinegoziati per ottenerne una sostanziale riduzione, sia attraverso la mutualizzazione di una loro parte sostanziale, sia attraverso la loro remissione, sul modello di quanto fatto nei confronti della Germania con la conferenza di Londra del 1953. Tutto ciò non può essere imposto da un solo paese (equivarrebbe a un mero fallimento, che vorremmo evitare), ma deve essere proposto e sostenuto da una coalizione dei paesi che lo presentino come unica alternativa praticabile non solo al proprio fallimento, ma a quello dell’euro e dell’intera costruzione europea. Per questo andiamo in Europa con Tsipras e non ci rifugiamo nelle nostalgie di una immaginaria autonomia nazionale.

Anche sulla riconversione ambientale bisogna essere chiari. Non è, o non è solo, green economy, cioè passaggio da prodotti e tecnologie rovinose per l’ambiente e prodotti e tecnologie meno dannose e più sostenibili (tanto più che la cosiddetta green economy è sempre di più risucchiata nel gorgo impietoso della finanziarizzazione, cioè della mercificazione di quanto resta della natura, secondo il principio “chi inquina paga”, che nella migliore delle ipotesi – e oggi lo si vede bene – significa solo più: “paga e potrai inquinare”). La conversione ecologica non è un processo che possa essere governato dall’alto, con dei semplici piani di investimento, che pure sono indispensabili. Occorre basarsi sulla diffusione capillare di impianti, interventi, pratiche e mercati diffusi e “territorializzati”, e una transizione del genere può solo realizzarsi attraverso la partecipazione diretta delle comunità che vivono o lavorano nei territori che la promuovono. Ma la conversione ecologica è anche l’unico modo per sostenere un piano generale del lavoro e una politica industriale in grado di garantire a tutti, insieme alla salvaguardia del territorio e del pianeta, occupazione, reddito e replicabilità in ogni angolo della Terra. Tutto ciò richiede una forma diversa di governo della produzione e dell’impresa, sia pubblica che privata, dove accanto al management – o in sostituzione del “padrone che lascia” o delocalizza – abbiano voce anche le maestranze, le organizzazioni di cittadinanza che operano sul territorio, le università e le istituzioni di ricerca e il governo locale. A condizione che i sindaci sappiano assumersi le responsabilità che loro competono, attraverso forme di coinvolgimento e di partecipazione della cittadinanza attiva. E soprattutto attraverso la riconquista e la gestione diretta dei servizi pubblici locali. Come è ovvio, tutto ciò è incompatibile con il patto di stabilità interno, che strangola la finanza locale, e con essa la democrazia di prossimità. Una questione che rimanda, in modo indissolubile, al punto precedente.

Infine l’inclusione porta in primo piano le politiche da adottare in tutta Europa attraverso la condivisione degli oneri e delle opportunità comportati da una scelta di accoglienza nei confronti dei migranti, dei cittadini stranieri, dei profughi sia politici che economici che ambientali. È questo un problema che ha messo in luce e sta alimentando il volto peggiore dell’Europa e che deve invece essere affrontato di pari passo con la difesa dei diritti della persona per tutti coloro a cui vengono negati, relativamente a nascita, fine vita, convivenza, salute, istruzione, casa e lavoro, soprattutto. Ma sarebbe un errore fatale separare questi ambiti e stabilire delle false priorità, come quelle che ci vengono tutti i giorni riproposte, a volte con un segno apertamente razzistico, a volte in forme mascherate da una pretesa di razionalità: tipo, prima gli italiani e poi gli stranieri; oppure, prima i diritti dei lavoratori e poi quelli di tutti gli altri; prima il lavoro e poi i diritti civili, la parità di genere, il matrimonio gay, ecc.; prima i capifamiglia e poi le loro mogli o i loro figli… Perché, se non si parte dagli ultimi, per risollevarsi poi tutti insieme, non si aiutano e non si fanno gli interessi neanche dei penultimi o dei terzultimi. Si creano o si rafforzano solo delle divisioni, che sono quelle su cui contano quelli che “contano” per tenerci divisi e continuare a esercitare il loro potere. Anche questo va detto con forza e convinzione.

C’è crisi.

24 Lug

Altan Magnamo

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